philosophy and social criticism

L’Unione europea, una prigione dei popoli

di Christian Laval

È stato detto tutto sull’assurdità delle politiche di austerità promosse congiuntamente dalla destra e dalla social-democrazia europee. Di certo, gli storici di domani rileveranno la sequela di errori commessi dalla troïka e ricorderanno l’incredibile cecità delle classi dirigenti europee rispetto alle conseguenze concrete della loro stessa politica.

Paul Krugman, Joseph Stiglitz, Thomas Piketty e molti altri hanno perfettamente evidenziato la profonda stupidità dei dirigenti europei e hanno più volte ripetuto, a chi volesse intenderlo, che la strada seguita dall’Unione europea era disastrosa e non poteva che aggravare il peso del debito. Nessuno potrà dire: “non sapevo”.

Tuttavia, sembra che nessuna autorità scientifica sia in grado di correggere la traiettoria catastrofica che conduce alla decomposizione della solidarietà intra-europea e al sacrificio di certi paesi. Yanis Varoufakis ha raccontato della sua impossibilità di discutere, nel corso di cinque mesi, anche solo un po’ di macroeconomia con i ministri dell’Eurogruppo. All’origine della condotta delle classi dirigenti, molto più che un semplice errore c’è il rifiuto di qualsiasi ragionamento economico. Ma allora da dove viene questo rifiuto della realtà che per Paul Krugman è ai confini della follia? Si possono avanzare due risposte. La prima riconduce alla guerra mossa ad un governo visto come troppo minaccioso dai fanatici dell’austerità; la seconda ha a che vedere con la reclusione di tutti i governi – favorevoli o meno all’austerità – nel recinto di un angusto sistema di regole.

Molti hanno parlato di “colpo di Stato”, di “atto di forza”, di “colonialismo”. In effetti si è vista bene la volontà congiunta, della destra e della “sinistra” social-democratica, di distruggere Syriza, accusata di aver voluto condurre una politica alternativa in Europa. Il negoziato-trappola dell’11 e del 12 luglio ne è stata la dimostrazione.

Nessuno può più ignorare che cosa ci si debba aspettare quando si appartiene alla zona euro: l’obbligo di allinearsi alla politica neoliberale o la distruzione pura e semplice dell’economia, insieme alla terribile regressione delle condizioni di vita. Il debito come leva, la moneta come martello: ora si sa come il terrorismo dell’Europa “unita” può distruggere uno dei suoi membri. Ma questa tesi della guerra non deve nascondere un altro fatto: l’Unione europea è diventata una prigione dei popoli e la zona euro un braccio di massima sicurezza. In effetti tutto accade come se gli europei fossero prigionieri di una casa di correzione chiusa con un rigido lucchetto, cioè di un sistema bloccato fatto di trattati, di regole e di evidenze dal quale non c’è via di uscita. Quando ha parlato di “eurozona disciplinare” Varoufakis ha utilizzato l’espressione più giusta.

Questa prigione coincide con la stessa razionalità ordoliberale che appare cristallizzata nelle istituzioni monetarie, racchiusa in un corpo di leggi, inscritta nei trattati fiscali. Ora, si sa che da oltre cinquant’anni queste realizzazioni hanno per principio una concorrenza generalizzata che concede il diritto di praticare ogni colpo basso fiscale e sociale tra paesi membri.

La realtà brutalmente rivelata dalla crisi greca è che l’Unione europea afferma perentoriamente di costruirsi sulla regola assoluta della concorrenza, su un sistema contraddittorio e autodistruttivo che instaura tra i suoi membri una sempre maggior diseguaglianza economica e sociale, tra paesi e all’interno di ogni singolo paese. Come stupirsi che i più forti, o quelli che desiderano imitare con zelo le loro ricette, vogliano sbarazzarsi dei paesi più svantaggiati, contro i quali rifiutano di manifestare una solidarietà costosa?

Ormai si sa che non ci si può aspettare nulla da una “democratizzazione” delle istituzioni europee. Il sistema istituzionale europeo è viziato, sta marcendo. Bisogna decostruirlo per ricostruire altro. È la grande lezione greca che dobbiamo tenere presente per gli anni e i decenni a venire.

Christian Laval è professore di sociologia e membro del consiglio scientifico di Attac. L’articolo è apparso il 27 luglio 2015 sul quotidiano L’Humanité. La traduzione è di Alessandro Simoncini

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philosophy and social criticism

vol. 26, issue no. 27

august 2015

issn: 2037-0857

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