philosophy and social criticism

Christian Marazzi

Sergio Bologna, Ceti medi senza futuro? Scritti, appunti sul lavoro e altro, DeriveApprodi, Roma 2007

In questo libro, che raccoglie saggi, interviste e articoli scritti nel corso degli ultimi dieci anni, c’è tutta l’intelligenza e la lucidità di Sergio Bologna. Bologna è giustamente conosciuto, non solo in Italia, per essere stato il primo a prendere molto sul serio l’emergenza socio-professionale della figura del lavoratore autonomo di seconda generazione, espressione del passaggio dal fordismo al postfordismo, effetto dei processi di riorganizzazione dei modi di produrre a mezzo di esternalizzazione (outsourcing), di flessibilizzazione del mercato del lavoro, di digitalizzazione e globalizzazione, ma anche di esodo dal lavoro dipendente, cioè di scelta soggettiva, di rifiuto del lavoro subordinato.
L’individuazione di un soggetto emergente al di fuori della griglia cognitiva di gran parte della sociologia del lavoro accademica, secondo la quale il lavoro autonomo o atipico va interpretato dal punto di vista del lavoro dipendente, ha posto Bologna in una posizione critica – per così dire – nei confronti sia della baronia universitaria e delle organizzazioni sindacali, sia, anche, della sinistra radicale che nella trasformazione del lavoro ha voluto vedere soprattutto la dimensione precaria. E Bologna, senza peli sulla lingua, non si è mai sottratto alla polemica contro questo modo di interpretare le trasformazioni in atto con lo sguardo rivolto al passato, come se le nuove forme del lavoro «atipico», ma ormai tipico, fossero una sottrazione, un non-ancora del lavoro a tempo indeterminato.

Organizzazione cercasi

Per evitare i soliti equivoci, è bene citare un passaggio tratto dal saggio dal titolo «Il senso della coalizione»: «operaio massa e lavoratore autonomo di seconda generazione vorrebbero essere termini nei quali si racchiude da un lato il carattere coercitivo di una determinata organizzazione del capitale, dall’altro il potenziale di emancipazione, di liberazione che è intrinseco a certi valori di cui quelle figure sono portatrici. Non ho mai inteso dire che l’operaio massa fosse l’intera classe operaia del fordismo, né che il lavoratore autonomo di seconda generazione sia la maggioranza della forza lavoro postfordista. Intendevo dire che sono figure portatrici di determinati valori, per l’operaio massa l’egualitarismo, per il lavoratore autonomo di seconda generazione l’autodeterminazione». A partire da questa figura produttiva in cui management, capitale costante e lavoro salariato si fondono in un’unica persona (per cui risulta assurdo parlare di «impresa individuale», dato che l’impresa presuppone una precisa separazione tra questi ruoli), occorre intercettare i percorsi di autodeterminazione, le forme di vita, le pratiche relazionali e comunicative che permettono di autonomizzarsi dalle forme della regolazione capitalistica odierna: «Ieri era il cronometrista a starti dietro, oggi è una qualsiasi delle figure gerarchiche dell’azienda che è esperta dei mille sotterfugi con cui si gestisce la flessibilità, sostituendo un lavoratore a tempo indeterminato con un contratto a termine e questo con un interinale e l’interinale con un co.co.pro. e il co.co.pro. con una Partita Iva e via dicendo». In altri termini, Bologna è interessato ad evidenziare la trasversalità della riorganizzazione postfordista del lavoro, tanto che il titolo del libro, volutamente, tira in ballo il ceto medio, quella categoria bistrattata dalla sinistra che, rincorrendo i neoliberisti, la interpretano esclusivamente in termini di bacino elettorale, salvo poi trovarsi di fronte, allibita, il mostro dell’antipolitica.

Strategie di libertà

Il problema posto da Sergio Bologna è dunque quello della lotta di classe, della ricomposizione sociale e politica di una classe produttiva fatta di «individui sociali» isolati, despazializzati, di cui si possono conoscere le soggettività, le aspirazioni, le domande di identità navigando con attenzione nella blogsfera, una webclass, così la chiama Bologna, che già ha dimostrato di sapersi muovere a partire dalla mobilitazione degli intermittenti dello spettacolo in Francia, ai «devoti» di San Precario in Italia, alle forme organizzative in rete dei freelance newyorchesi. La «classe virtuale» per la quale occorrono nuove forme di coalizione non è, per Bologna, priva di differenze interne. Anzi, è proprio a partire dalla differenza di genere, dalle esperienze di lotta delle donne, che bisogna organizzarsi: «Se il lavoro femminile oggi è il lavoro tout court, le azioni di autotutela, le strategie di libertà, i modi di convivere con la precarizzazione, insomma il modo per non restare schiacciati dall’organizzazione del mercato del lavoro è quello delle pratiche femminili, quello – e non altri – è il modo di coalizione con valenza generale, con cui gli uomini debbono confrontarsi».

Le forme della ricomposizione, della coalizione politica, insomma della produzione di un’organizzazione all’altezza del pluriverso soggettivo del lavoro, scontano, devono scontare, una marcata autonomia. Quando Bologna afferma che «la rendita prevale sul profitto» si potrebbe aggiungere che, in realtà, vi è «un divenire rendita del profitto» perché gli odierni dispositivi di estrazione del plusvalore sono conficcati nel cuore stesso di questa composizione sociale del lavoro. Le forme di vita messe oggi al lavoro dal capitale sono l’equivalente della terra nel Tableau économique del fisiocratico Quesnay. La rendita, meglio del profitto, rappresenta l’esternalità dell’appropriazione di un valore prodotto fuori dai cancelli delle fabbriche, per cui non c’è nulla di particolarmente anomalo o scandaloso nella finanziarizzazione dell’economia postfordista, semmai è interessante capire come la finanziarizzazione, per il suo stesso modo di funzionare, produce un corpo sociale sempre più ingovernabile. La rendita-come-profitto è l’altra faccia di questa nuova composizione socio-professionale del lavoro, è il risultato della ricerca di nuovo plusvalore a partire dalla crisi del fordismo degli anni ’70, a partire cioè dall’impossibilità di succhiare plusvalore sulla base della composizione fordista del capitale.

La democrazia che verrà

Per saper ascoltare i «rumori della notte», come faceva il compositore ungherese Bartòk, di cui Bologna ci offre un bellissimo ritratto proprio in questo libro (che c’entra? C’entra molto, se si vuole capire Bologna!), bisogna adottare un nuovo metodo, una nuova cornice cognitiva, bisogna cioè guardare alle forme di vita di questa nuova classe fatta di singolarità multiple, di moltitudine. Il lavoro come vita oggi non ha rappresentanza, ma sta già producendo innovazione sociale, relazioni, scambi di esperienze, centri di ricerca autonomi, modalità di autoformazione, un vero e proprio prologo in terra di una democrazia a venire. Bologna fa suo il pensiero del giovane Karl Polanyi secondo il quale «Democrazia per noi non è un sistema di governo, è una forma ideale di vita».

[da il manifesto, 16 ottobre 2007]