Jorge Alemán. Un illuminismo aperto alla sragione
Massimo Recalcati
Sartre diceva che un uomo, dopo i cinquant’anni, ha il volto che si merita: quello di Jorge Alemán trasmette innanzi tutto concentrazione e libertà creativa del pensiero, ma anche passione per la strada, per la città, per la vita. Psicoanalista lacaniano, di orgini argentine, scelse l’esilio negli anni della dittatura militare per ritrovarsi a Madrid nel 1976, un anno dopo la morte di Franco, in un periodo di grande effervescenza culturale al quale partecipò, insieme ad altri psicoanalisti argentini esuli, dedicandosi a trasmettere l’insegnamento di Jacques Lacan. Da allora i suoi interessi e la sua produzione intellettuale si sono sviluppati ben al di là della clinica psicoanalitica in senso stretto, implicando prima di ogni altra cosa il confronto con la filosofia; ma anche quello, altrettanto intenso, con l’arte e la poesia, con la teoria politica e con le punte più avanzate del femminismo nordamericano. Di questo suo impegno sono testimonianza una quantità cospicua di opere delle quali oggi il lettore italiano potrà avere almeno un assaggio attraverso una bella raccolta di saggi dal titolo Jacques Lacan e l’antifilosofia, pubblicato da Franco Angeli. Il nostro incontro a Milano ha rivelato che Alemán è persona da non lasciarsi sfuggire, incline com’è a applicare la stessa intensità a conversazioni che vanno dall’ontologia del potere di Foucault al genio di Maradona.
Potremmo riprendere, per cominciare, il termine «antifilosofia», che appare nel titolo del suo libro appena tradotto. Qual è la portata sovversiva di questo termine rispetto alla ragione filosofica classica?
Freud si proteggeva dalla filosofia, era convinto di avere tra le mani qualcosa di sufficientemente diverso, da non mescolare con le tradizioni intellettuali già costituite; sospettava della filosofia come se si trattasse di un discorso morto, in cui una pratica dell’inconscio non trovava più l’ospitalità necessaria. Il suo sospetto, in certi momenti, arrivava a tradursi in un rifiuto ironico. Lacan, invece, si fa interprete di un’altra operazione: l’antifilosofia non intende lasciare fuori la filosofia, implica piuttosto il farsi attraversare dal pensiero filosofico per poi attraversarlo a sua volta. Succede come con le ferite: non possiamo rifiutarle oppure dimenticarle, dobbiamo imparare a vivere con le cicatrici. Lacan si lascia influenzare dalle diverse impronte filosofiche della tradizione, dai loro scontri con il reale, dalle loro impasses, esaminando le certezze anticipate del filosofo e interrogando il soggetto che le sopporta. Si può anche intendere l’antifilosofia come una congettura provocatrice, che non ammette di trattare la filosofia come fosse soltanto una storia, una sequenza di nomi propri sempre da indagare; o la si può intendere come una decostruzione testuale del pensiero filosofico. Sono tutte operazioni ancora feconde, ma l’antifilosofia sceglie soprattutto di costituirsi come un modo radicale di interrogare e interpellare i legami sociali, che implicano la pratica della psicoanalisi.
Con il suo lavoro teorico, effettivamente, lei fa la spola tra psicoanalisi e filosofia. Il suo presupposto è che la filosofia non può permettersi di ignorare la psicoanalisi, con Freud e soprattutto con Lacan. Ci faccia qualche esempio: cos’è che la filosofia non può permettersi di ignorare della psicoanalisi? O, rovesciando la questione: quali sono gli argomenti della pratica filosofica con cui la psicoanalisi non può permettersi di trascurare il confronto?
Credo che la filosofia non possa più ignorare la affinità della follia con l’esistenza del essere parlante. La follia non è un deficit o una patologia ma un modo originario di abitare la lingua. Inoltre, non si deve più ignorare il carattere sessuato e parlante dell’esistenza umana e le risposte sintomatiche che ciò comporta, ovvero il modo in cui incidono nella configurazione della comunità, oppure l’impossibilità o l’impotenza con cui si scontrano. D’altronde la psicoanalisi deve cercare di ricostruire la sua propria narrativa, quella specifica del secolo XXI, e in questo ha tanto da imparare dalla filosofia, dal suo antico fiuto nel cogliere l’erosione dei concetti; deve imparare dalla filosofia le sue strategie decostruttive riguardo alla storia e il suo impegno nel trovare vocaboli appropriati per orientarsi nel nostro tempo.
I filosofi hanno interpretato il mondo, si tratta ora di cambiarlo, recitava la celebre XI tesi di Marx su Feuerbach. Vale anche per gli psicoanalisti?
Sì, in un certo senso; ma è una trasformazione che nessuna legge della storia può assicurare, non c’è alcuna cultura del passato idealizzata né nessuna città futura che brilli come avvenire di speranza; senza ideali, senza utopie, la trasformazione è lenta, quasi impercettibile, ma poi lascia un segno irreversibile. E’ una trasformazione che agisce trasversalmente. Come un tipo nuovo di illuminismo che includa ciò che è «altro» dalla ragione. Se la civiltà capitalistica riuscirà a distruggere la specificità della psicoanalisi, credo che tutte le scuole del pensiero critico dovranno trarne conclusioni pertinenti.
Nella sua ricerca risulta essenziale una specie di intreccio tra Lacan, Foucault e Heidegger. Come lo giustifica?
Lacan e Heidegger provvedono a un rigoroso smontaggio del soggetto moderno, ma al tempo stesso non si fermano lì. Entrambi costruiscono un’analitica del soggetto che permette di coglierlo nel reale della sua esistenza. Sono convinto che la cosiddetta postmodernità abbia ostentato una certa distrazione a proposito della questione del soggetto, che abbia voluto dissolverlo, pluralizzarlo, frammentarlo, perdendo di vista le aporie della responsabilità soggettiva. Foucault viene preso in considerazione per il suo progetto di costruire una soggettività non essenzialista, modulata dai dispositivi storici, anche se io prendo spesso le distanze dalla sua ontologia del potere. Devo ammettere che tento di leggere Heidegger e Foucault a partire da Lacan. .
Secondo Vattimo, se il marxismo è stata la koinè filosofica dominante negli anni ’50 e lo strutturalismo quella degli anni ’60, l’ermeneutica si configura come koinè degli anni ’80-’90. Lei è d’accordo con questa sintesi? E crede che sarà ancora l’ermeneutica la koinè vincente all’inizio del nuovo secolo?
La psicoanalisi di Lacan, le filosofie di Badiou e Laclau, quella di Negri e in un’altra direzione ancora quella di Virno segnano una nuova svolta verso la prassi con il legame sociale e verso il ritorno del politico, non già in termini di gestione o di consenso, ma come esperienza soggettiva. Mi sembra che questo tipo di pensieri esuli dal quadro dell’ermeneutica.
Un motivo fondamentale della sua ricerca riguarda il problema del principio e delle condizioni di fondazione, oltre che dell’avvenire stesso, della comunità umana. Conosciamo la critica di Freud alla retorica dell’amore per il prossimo e conosciamo anche il suo verdetto tragico: non c’è, per gli esseri umani, salvezza alcuna dal disagio della civiltà. A quali condizioni si può dare una comunità umana che tenga conto dell’insegnamento freudiano?
Nel momento stesso in cui congetturiamo su una società freudiana essa si rivela impossibile. Quali sarebbero le sue condizioni? Scommettere sul desiderio senza garanzie che l’orizzonte della responsabilità non venga escluso. Accettare il carattere irriducibile del desiderio senza cadere nella tentazione del godimento propria del martire. Sopportare l’infelicità contingente senza che diventi una miseria necessaria. Saper perdere senza identificarsi con ciò che si è perso. Avere coscienza della propria finitezza senza essere affascinati dalla cultura della pulsione di morte. In questa società impossibile ci sarebbe tragedia singolare ma non umiliazione pianificata, troverebbe posto il dolore di esistere ma non lo sfruttamento della forza lavoro, si attuerebbe la volontà di dire qualsiasi cosa e anche quella di tacere, ma non in un silenzio codardo; sarebbe contemplato l’essere stranieri a se stessi ma non lo sradicamento obbligato per le moltitudini.
[da il manifesto, 14 novembre 2003]