philosophy and social criticism

Diritto di resistenza

Paolo Virno

Seattle, Nizza, Praga, Genova: il movimento new global ha guadagnato visibilità e autorevolezza grazie alla ripetuta, drammatica rottura dell’ordine pubblico. Negarlo non è certo un reato: come non lo è, del resto, sostenere che i bambini nascono sotto i cavoli. E’ solo una sciocchezza autolesionista. Se non si vuole «uscire dal Novecento» a passo di gambero, discettando cioè sugli eccessi della Comune di Parigi e aggrottando il sopracciglio al ricordo della protervia sanguinaria di Cromwell, conviene porsi una questione spinosa: come concepire l’uso della forza oggi, nell’epoca in cui va in rovina lo Stato moderno e il suo «monopolio della decisione politica»? Sarebbe facile spiegare a Giampaolo Pansa (che su la Repubblica di ieri ha intonato un livido mantra contro il movimento del 1977) perché fu cosa buona e giusta cacciare Luciano Lama dall’Università di Roma nel febbraio di quell’anno lontano. Facile, ma ozioso. Ciò che conta è orientarsi nel presente, dopo che molte delle vecchie bussole si sono scassate. Tutto consiglia di non indulgere ad alcuna forma di feticismo riguardo alla non-violenza e alla violenza. E’ certamente stolto identificare la radicalità di una lotta con il suo tasso di illegalità. Ma non lo è meno elevare la mitezza a inossidabile criterio-guida dell’azione. D’altronde, non c’è di che preoccuparsi troppo: il passaggio del conflitto dalla latenza alla visibilità si incarica sempre di travolgere gli «eterni principi» adottati di volta in volta dai politici di professione. Sull’antica, ma non consunta, questione delle forme di lotta la discussione gira in tondo, indulgendo a sofismi privi di arguzia e a citazioni passepartout. A ben vedere, essa sconta gli effetti a catena di un drastico mutamento di paradigma teorico. Un mutamento tale, da scindere ciò che pareva indisgiungibile e da accostare quanto si collocava agli antipodi. In breve: la lotta contro il lavoro salariato, a differenza di quella contro la tirannia o contro l’indigenza, non è più correlata all’enfatica prospettiva della «presa del potere». Proprio in virtù dei suoi caratteri assai avanzati, si profila come una trasformazione interamente sociale, che con il «potere» si confronta da presso, ma senza sognare un’organizzazione alternativa dello Stato, mirando bensì a rattrappire e a estinguere ogni forma di comando sull’attività delle donne e degli uomini e, quindi, lo Stato tout court. Come dire: mentre la «rivoluzione politica» era considerata la premessa inevitabile per modificare i rapporti sociali, ora questo bottino ulteriore diviene il passo preliminare. La lotta può espletare la sua indole distruttiva, solo se già spicca in alto rilievo un altro modo di vivere, di comunicare, perfino di produrre. Solo se, insomma, si ha qualcosa da perdere oltre le proprie catene.

Il tema della violenza, idolatrato o esorcizzato, è stato comunque legato a filo doppio alla «presa del potere». Che cosa accade, allorché si considera quella esistente l’ultima possibile forma di Stato, meritevole di venir corrosa e di andare in rovina, non certo di venir rimpiazzata da un Iperstato «di tutto il popolo»? La non-violenza diventa forse il nuovo culto da officiare? Non sembra proprio. Semmai, ecco un ossimoro imprevisto, il ricorso alla forza deve essere concepito in relazione a un ordine positivo da difendere e salvaguardare. L’esodo dal lavoro salariato non è un gesto concavo, un meno algebrico. Fuggendo, si è obbligati a costruire diverse relazioni sociali e nuove forme di vita: ci vuole molto gusto per il presente e molta inventività. Pertanto, il conflitto verrà ingaggiato per preservare questo «nuovo» che intanto si è istituito. La violenza, se c’è, non è protesa ai «domani che cantano», ma a prolungare qualcosa che già esiste, seppure informalmente. Di fronte all’ipocrisia, o alla svagata dabbenaggine, che contrassegna oggi la discussione su legalità e illegalità, conviene rivolgersi a una categoria premoderna: lo ius resistentiae, il diritto di resistenza. Con questa espressione, nel diritto medioevale, non si intendeva affatto l’ovvia facoltà di difendersi se aggrediti. Ma nemmeno una sollevazione generale contro il potere costituito. Netta è la distinzione rispetto alla seditio e alla rebellio, nelle quali ci si scaglia contro l’insieme delle istituzioni vigenti, per edificarne altre. Il «diritto di resistenza» ha, invece, un significato assai peculiare. Esso può venir esercitato allorché una lega artigiana, o la comunità tutta, o anche un singolo, vedano alterate dal potere centrale certe loro prerogative positive, valevoli di fatto o per tradizione.

Il punto saliente dello ius resistentiae, ciò che ne fa l’ultimo grido in tema di legalità/illegalità, è la difesa di una effettiva, tangibile, già avvenuta trasformazione delle forme di vita. I passi grandi o piccoli, gli smottamenti o le slavine, della lotta contro il lavoro salariato ammettono un illimitato diritto di resistenza, mentre escludono una teoria della guerra civile.

[da il manifesto, 14 novembre 2004]