philosophy and social criticism

Linguaggio: carne e voce dell’uomo

Paolo Virno

Franco Lo Piparo, Aristotele e il linguaggio, Laterza, Roma-Bari 2003 e 2005.

Capita a tutti, di tanto in tanto, di imbattersi in un materialista immaginario che oppone il «corpo desiderante» all’algido logos; o, all’inverso, in un letterato squisito cui ripugna ogni riferimento all’apparato fonatorio quando ci si occupa della capacità propriamente umana di significare. Casi estremi e un po’ pacchiani, si dirà. Vero, salvo aggiungere che l’alterna rivendicazione di una carne taciturna o di un verbo disincarnato dà a vedere con disarmante schiettezza una difficoltà assai diffusa, contro cui urtano anche i progetti filosofici più sofisticati degli ultimi decenni: la difficoltà a intendere le enunciazioni verbali come una attività pienamente naturale, anzi corporea. Nonostante il fervore con cui ci si augura la convergenza di biologia e linguistica, i due convitati sembrano prendere congedo già al momento delle presentazioni. Se biologia, non ancora linguistica; se linguistica, non più biologia. Il libro di Franco Lo Piparo rompe questo sortilegio teorico. Per mal che vada, a lettura ultimata si è indotti almeno a prendere sul serio, cioè alla lettera, l’espressione «animale linguistico». Diventa plausibile, cioè, considerare la sintassi e la semantica come l’autentico contrassegno biologico di quella tappa del processo evolutivo che è l’organismo umano.

Narrare, commuovere, mentire, calcolare, negare, ipotizzare, scegliere: di questo è fatta la storia naturale della nostra specie. Di questo, cioè di attività inconcepibili al di fuori del linguaggio verbale. Conseguenza necessaria: una descrizione biologica dell’Homo sapiens è attendibile se, e solo se, riesce a dar conto di ciò che fa di una proposizione una proposizione, di una metafora una metafora, di una deduzione una deduzione. E viceversa, una buona analisi linguistica è quella, e solo quella, che incardina ogni finezza espressiva alla voce, cioè alla scansione del respiro e alla configurazione delle labbra. Ecco, detto d’un fiato, il chiodo su cui batte e ribatte il libro di Lo Piparo. Libro formidabile e strano. Per un verso, lettura di un classico condotta con acribia filologica; per l’altro, primo trattato contemporaneo di bio-linguistica. I due aspetti sono inseparabili, e anche indiscernibili. Proprio la delucidazione puntigliosa di un termine tecnico aristotelico fa balenare un dispositivo teorico innovativo, destinato a scompaginare le dispute usuali tra saussuriani e chomskyani, cultori delle scienze cognitive e patiti dell’ermeneutica, fan della «natura» e tifosi della «cultura».

Il banco di prova prescelto dall’autore è circoscritto, anzi risicato: appena cinque righe del trattato di Aristotele Sull’interpretazione. Righe radioattive, però, in cui ne va del rapporto tra pensiero e linguaggio, come pure di quello tra mente umana e fatti del mondo. I fraintendimenti che gravano su questo brano hanno condizionato la riflessione occidentale sul linguaggio. E ancora si fanno valere di soppiatto, come un prepotente inconscio filosofico, nel lessico e nelle categorie con cui lo studioso che-più-aggiornato-non-si-può discute dei significati verbali. In rotta di collisione con una lunga tradizione esegetica (da Ammonio e Boezio a Pagliaro e Coseriu), Lo Piparo scorge nelle fatidiche cinque righe il possibile atto inaugurale di una concezione coerentemente naturalistica del linguaggio umano. Per commentarle, chiama in causa la quasi totalità delle opere aristoteliche, riservando un posto di riguardo agli scritti biologici, di solito negletti dai linguisti di professione. Non meravigli troppo, dunque, se l’analisi di «cosa fa di una lingua una lingua» passa talvolta per il funzionamento della moneta, il canto degli uccelli, l’aspirazione alla felicità, le proprietà di un triangolo.

Il punto d’onore della bio-linguistica – di quella aristotelica, certo, ma anche della prossima ventura – sta nel riconoscere che il linguaggio non è uno strumento da impiegare in vista di qualcos’altro, bensì una «attività vitale di organi naturali». Chi parla, compie un’azione fine a se stessa, nel medesimo senso in cui può dirsi fine a se stesso il vedere o il respirare. Parlare e vedere e respirare sono azioni che manifestano il modo di essere di un determinato organismo biologico, concorrendo al suo «vivere bene». Parliamo, ma non perché abbiamo constatato che l’uso del linguaggio sia vantaggioso; così come viviamo, ma non perché riteniamo utile la vita. Il parlare, in quanto «respiro dell’anima umana», non è una funzione supplementare, un semplice sovrappiù rispetto alle disposizioni affettive e cognitive che l’uomo condivide con le altre specie viventi. Al contrario, il linguaggio verbale riplasma da cima a fondo tutte queste disposizioni. La percezione, l’immaginazione, la memoria, il desiderio, la socialità assumono una inflessione specificamente umana soltanto perché pervase da congetture, inferenze, giudizi.

La non-strumentalità del linguaggio ha un importante corollario. Aristotele chiama «prassi» l’attività il cui risultato non è separabile dall’azione stessa, e «produzione» quella che, invece, dà luogo a un oggetto indipendente. Lo Piparo osserva che questi due comportamenti hanno la propria matrice, o condizione di possibilità, nell’azione di enunciare. Non essendo un mezzo, ma una attività fine a se stessa, il linguaggio è, in primo luogo, prassi. Il suo funzionamento non può essere desunto da eventuali scopi estrinseci, ma è autoregolato. Tuttavia, e sia pure in modo secondario, le nostre parole danno luogo anche a prodotti esteriori: documenti, opere letterarie, progetti edilizi, bombardamenti su Baghdad. In estrema sintesi: il linguaggio verbale, se per un verso è il fondamento biologico delle azioni etico-politiche che non lasciano opere dietro di sé, per l’altro è il luogo in cui «la natura si autotrasforma in tecnica».

Nel trattato Sull’interpretazione Aristotele afferma che i suoni della voce sono «il simbolo delle affezioni dell’anima». Ma che cosa deve intendersi per ‘simbolo’? Forse una convenzione utilizzata per esprimere un empito emotivo o un contenuto concettuale già definiti in ogni dettaglio? Se così fosse, il linguaggio sarebbe pur sempre un utensile, l’utensile del pensiero. Ma così non è: per i greci, osserva Lo Piparo, la parola ‘simbolo’ indica la relazione tra aspetti complementari e indisgiungibili, nessuno dei quali gode di vita autonoma. Le scansioni della voce e le «affezioni dell’anima» sono connesse come le parti simmetriche di una tavoletta: impossibile attribuire a una parte o all’altra quel significato che sussiste solo a partire dalla loro sutura. Nomi, verbi, discorsi non hanno alcunché di convenzionale-strumentale: conviene piuttosto riconoscere in essi l’esito instabile e variato di un processo generativo naturale cui concorrono, a pari titolo, l’articolazione fonatoria e le operazioni logico-cognitive. Nessuno di questi due elementi «viene prima dell’altro: né in senso cronologico-empirico né in senso logico. La relazione simbolica non è assimilabile a nessun tipo di relazione causale o fondativa».

Quando pure si sia ammesso che il linguaggio non è uno strumento, né tanto meno una convenzione, ma un’«attività vitale di organi naturali», resta però da chiedersi in che modo esso riesca a dar conto dei fatti del mondo. La bio-linguistica non può certo eludere il problema del riferimento alla realtà oggettiva. La parola-chiave con cui Aristotele designa la relazione mente-mondo è omoiosis, «similarità». In uno dei capitoli più affascinanti e complessi del libro, Lo Piparo mostra fino a che punto il termine sia radicato nella geometria greca. Se ricollocato nel suo luogo di orgine, esso significa: proporzionalità, analogia, isomorfismo. «L’uomo può pensare il mondo e parlarne perché le operazioni logico-cognitive della sua anima e i fatti di cui è intessuto il mondo hanno conformazioni simili». La mente dell’animale linguistico non crea i fatti (come vorrebbe un idealismo senza freni), né si limita a rispecchiarli mediante immagini-copie, ma è commensurabile con essi. L’omoiosis, la similarità tra rappresentazione e stati di cose, non garantisce in alcun modo la verità del discorso umano, costituendo semmai «la condizione necessaria perché la stessa distinzione tra vero e falso possa sorgere». Senza la biologica commensurabilità tra mente e ambiente, senza un naturale isomorfismo tra struttura delle proposizioni e struttura dei fatti, non vi sarebbe semantica né logica. Niente di troppo diverso da quanto affermerà, molti secoli dopo, Wittgenstein nel Tractatus. Mera assonanza o indizio di una plausibile genealogia bio-linguistica?

Una scommessa. Non mancherà, tra gli specialisti di Aristotele, chi sosterrà che il libro di Lo Piparo non gli compete più di tanto, trattandosi di un saggio di linguistica generale. Né mancherà, tra i linguisti, chi addosserà prudentemente l’onere del giudizio agli storici della filosofia greca. Buon segno, in fondo. Quello dello scaricabarile è il rischio in cui incorre ogni libro di pensiero. Per valutare l’importanza di queste pagine (che è cosa diversa dall’assenso), il lettore non spensierato soppesi con cura il loro potere costrittivo: obbligo a considerare aspetti finora trascurati, impedimento a ripetere a cuor leggero cantilene simili in tutto a una «scientifica» coperta di Linus.

[da il manifesto, 10 aprile 2003]