I segni della rappresentanza
di Bruno Accarino
Non è facile dire che cosa sia la «svolta iconica» (più nota, tanto per cambiare, come iconic turn) e se sia davvero una svolta o solo uno stormir di foglie. La si può assumere nei suoi profili raffinati e meno recenti (a partire dall’opera di un grande come Erwin Panofsky), ma si può scegliere come angolatura anche la quotidiana invasività dell’immondezzaio ammannitoci dai televisori. Le cose vanno saggiate, intanto, sul terreno delle procedure scientifiche. Finché la riflessione non mette in questione il ruolo paradigmatico delle strutture linguistiche, la rappresentazione rimane localizzata sul versante teorico della scienza e significa, oggi come prima, analisi e ricostruzione di sistemi di segni. In questa ottica, i segni dei linguaggi scientifici sono elementi di una costruzione in cui le singole rappresentazioni del mondo si raccolgono «là fuori». Un’analisi della rappresentazione che sia orientata alla prassi punta invece agli aspetti sperimentali e strumentali, pragmatici e discorsivi della produzione scientifica di simboli: alla rappresentazione come attività culturale. Al più tardi a partire dai rivoluzionamenti intervenuti nella fisica subatomica del secolo scorso e dall’introduzione del concetto di informazione nelle scienze cibernetiche, ci si chiede se l’attività scientifica sfoci in una immagine del mondo, come voleva Wittgenstein, o in un «essere-nell’-immagine», come voleva Heidegger. La svolta molecolare della biologia, intervenuta a metà del secolo scorso, implica che il rapporto tradizionale tra rappresentante e referente è stravolto, giacché la stessa scrittura molecolare non può più essere pensata come rappresentazione di qualcosa, ma diventa il processo che produce essa stessa rappresentanti. Le coste della Tasmania Nel «Parlamento delle cose di scienza», come suggerisce lo studioso francese Bruno Latour, vi sono reperti sperimentali (per esempio funzioni fisiologiche o reazioni chimiche) e oggetti (per esempio cellule, batteri) che devono essere resi mobili, cioè devono poter non scomparire, instradandosi verso risultati e conoscenze da presentare in pubblico, anche quando non sono più presenti le cose. Il neurofisiologo non porta ad un congresso le cellule nervose dell’esperimento, ma diagrammi e tabelle. Le coste della Tasmania, esemplifica Latour, non possono essere trasportate in Europa, ma una carta geografica sì: la quale sarebbe così un’iscrizione mobile, ma anche immutabile, presentabile, leggibile e combinabile, perché la sua mobilità non è relativa solo al mutamento spaziale, ma anche anche a modificazioni, riproduzioni e ricombinazioni tecniche. Siamo così alla dimensione epistemica e sociale delle scienze nel loro farsi. La rappresentazione si realizza in forme estremamente diverse di ordinamenti sperimentali, dati, simboli, grafici, formule, immagini che vanno dai disegni ai raggi x, schemi, statistiche, complessi simulati di dati, ologrammi. L’attività scientifica che produce queste rappresentazioni ha a che fare con la produzione di tracce ed è legata ad una sorta di codificazione. Ma di che cosa è rappresentante una traccia? E per chi vale un codice? E che cosa fa di una traccia una traccia, con quella retrospettività che è per essa caratteristica? Il tentativo sarebbe dunque, non dissimilmente allo Edmund Husserl de L’origine della geometria, quello di mettere in piedi una genealogia dei fatti e delle azioni che costellano il costituirsi della rappresentazione e il passaggio, che si dà per scontato, dal protagonismo dell’homo faber a quello dell’homo depictor. Le rappresentazioni non vanno più intese, primariamente, come rappresentazioni mentali e come riproduzioni visuali, ma come oggetti fisici che devono il loro carattere di somiglianza (la loro likeness) alla loro stessa replicazione. Il concetto di realtà è un concetto di second’ordine che può prendere forma solo sullo sfondo di rappresentazioni di prim’ordine: come riflessione sullo statuto della replica, fino al punto che il reale diventa un attributo della rappresentazione. Con Jean Baudrillard si direbbe che il reale si definisce come ciò che è riproducibile in modo equivalente. Il libro del corpo Il campo di verifica privilegiato è dato dalla biologia molecolare, il cui percorso soddisfa i requisiti tracciati da Martin Heidegger nel 1938: l’apertura di una regione e la costruzione di un procedimento. In che cosa consiste l’essenza della ricerca? «Nel fatto che il conoscere si installa, sotto forma di investigazione, in un dominio dell’ente, la natura o la storia. Investigazione non significa qui semplicemente metodo, procedimento. Infatti ogni investigazione richiede già l’apertura di una regione in cui possa muoversi». La biologia molecolare ha aperto uno spazio alternativo della rappresentazione del vivente ed ha costruito un nuovo procedimento in questa regione. Qual è la regione che viene aperta dalla biologia molecolare? Quella che consente di avere a che fare con il vivente in termini di immagazzinamento, trasferimento e traduzione di informazione genetica. La biologia della seconda metà del XX secolo si distingue perché vede nei sistemi viventi strutture che elaborano informazioni invece che apparati meccanici o macchine che trasformano e dissipano energia. Leggere l’organismo come un libro (secondo un’indicazione che era già nello Hans Blumenberg de La leggibilità del mondo) non è più un’analogia, ma un compito da assumere in senso letterale. Non c’è però una lettura che non sia interpretazione. Il che implica, se si prende sul serio il vocabolario della biologia molecolare, una concezione dell’organismo come di un plesso semantico, come di un testo. Nella prospettiva della biologia molecolare è anzitutto l’operare dell’organismo come un sistema materiale. L’autointerpretazione di questo sistema materiale consiste nella sua propria traduzione differenziale: in altri termini, l’essenza della lettura è la scrittura. Nell’ambito dell’organico la lettura è un processo materiale di trascrizione. Interpretare significa trasporre e trascrivere nel senso di una scritturalità genetica. Si arriva nei pressi di un’operazione assai vicina alla decostruzione: gli organismi, non solo i libri, sono cose scritte. Il programma della biologia molecolare è qualcosa di più di un’interpretazione dell’organismo nel senso di un’interpretazione tradizionale: è quello di scrivere e di riscrivere l’organismo stesso, il che diventa possibile quando la biologia molecolare crea la possibilità di scrivere anche da parte nostra sul terreno dei geni. Fin qui il primo requisito heideggeriano: l’apertura di una regione. Il secondo attiene alla procedura, e qui la domanda è su quale linea di demarcazione, e su quale procedimento di scrittura, distingua la biologia molecolare nella sua prima fase dall’odierna tecnologia genica. Le classiche tecniche biofisiche, biochimiche e genetiche per l’indagine degli organismi vengono classificate anche come accessi in vivo, in situ e in vitro ai fenonemi vitali. Ciò che le accomuna è che esse tentano di creare un ambiente sperimentale in cui l’ambiente della cellula vivente viene, con manipolazioni tecniche, circoscritto e sostituito in modo tale che emergano, dallo sfondo nel quale sono inseriti, strutture topologiche e processi metabolici. Si tratta quindi di una rappresentazione extracellulare di una configurazione intracellulare (è il caso, tipico, dei sistemi in vitro), ovvero di una rappresentazione fenomenologico-macroscopica di processi submicroscopici (come nella genetica dei batteri e dei fagi). Protagonisti delle tecnologie impiegate sono sempre la fisica e la chimica. La rappresentazione è un’immagine, ma è Heidegger che ci dice come essa si costituisca: non solo come Bild, ma come Bildung, cioè come costruzione. Come afferma Nelson Goodman, rappresentare non significa rispecchiare, ma prendere e creare. Se le rappresentazioni biochimiche e biofisiche creano uno spazio extracellulare per reazioni che normalmente si verificano nella cellula, noi pensiamo ai sistemi in vitro come a modelli per processi in vivo. Ma per venirne a capo sul piano della conoscenza bisogna passare dalle analogie sui modelli alla rappresentazione costruttiva e creativa; o anche: dall’immagine del mondo alla costruzione del mondo. Il processo che fa emergere analogie, modelli e realizzazioni non va più dal fenomeno all’essenza, dalla rappresentazione al rappresentato, dalla superficie alla profondità; esso si costituisce invece in modo orizzontale, come un’oscillazione laterale tra diversi spazi di rappresentazione: come confronto, spostamento, marginalizzazione, ibridazione di diverse rappresentazioni con e tra loro. Lo spazio centrifugato La rappresentazione non rispecchia nulla, semmai rende qualcosa disponibile o manipolabile. In un processo di centrifugazione di cellule omogeneizzate e intatte, per esempio, essa trasforma un tessuto, un agglomerato di molte cellule microscopicamente piccole in una serie ordinata di frazioni di cellula. Si apre così uno spazio centrifugo di rappresentazione nel quale è possibile trattare sperimentalmente le cellule. Per determinare più da vicino la partizione, non si può però tornare alla cellula o al citoplasma «come esso è realmente», giacché alla rappresentazione centrifuga dell’oggetto della scienza appartiene inscindibilmente la centrifuga come tecnica del rappresentare. Si può tornare indietro, ma solo ad altre forme di rappresentazione. La caratteristica della rappresentazione scientifica in quanto traccia è che ciò che produce le tracce può essere afferrato solo attraverso altre tracce. E se l’oggetto della scienza non lascia tracce visibili, si introducono in esso traccianti (tracers), nella forma di marcatori radioattivi, di colori fluorescenti, di pigmenti e insomma di strumenti con cui possano essere evocate iscrizioni. Temporalmente e spazialmente un oggetto epistemico è un fascio di tracce. Con le tecnologie del Dna il quadro cambia ulteriormente: sul terreno della manipolagione genica sparisce anche l’ultima illusione che sussista la possibilità di distinguere tra qualcosa di naturale e qualcosa di artificiale. Lavorare in termini di tecnologia genica significa costruire, in condizioni biochimiche, molecole portatrici di informazioni, che vengono poi trapiantate nell’organismo, il quale le traspone, le riproduce e controlla le loro proprietà. L’organismo stesso assume lo status di un oggetto tecnico. Il biologo molecolare non costruisce più condizioni di reazione in vitro sotto le quali le molecole dell’organismo e la catena delle loro reazioni assumono lo status di oggetti scientifici, ma molecole portatrici di informazioni che non possono più esistere nell’organismo. L’organismo si trasforma in un laboratorio: non abbiamo più la rappresentazione extracellulare di strutture e processi intracellulari, ma la rappresentazione intracellulare di un progetto extracellulare, vale a dire una ri-scrittura della vita. La tecnologia genica lavora con grafemi, sperimentalmente prodotti in uno spazio di rappresentazione, che hanno assunto il carattere totalmente non metaforico di uno scritto. Non è indicativo il fatto che un pezzo di Dna venga rappresentato come una sequenza, ma che lo sia nella forma di un testo e che si realizzi in una successione di sillabe: naturalmente non sul terreno della scrittura alfabetica, ma su quello della scrittura genetica, le cui tracce primarie consistono esse stesse di catene di nucleotidi rese visibili. I fantasmi di Hobbes Nei prossimi anni i titolari di competenze settorialmente determinate balbetteranno a contatto con ambiti a loro poco familiari, ma chiedere venia agli specialisti per incursioni eventualmente dilettantistiche sarà meno importante che salutare con favore lo sfondamento di transenne disciplinari diventate, a fronte della drammaticità dei problemi in gioco, indifendibili. Ai biologi e agli scienziati andrebbe data la parola sul destino della rappresentanza politica. Le strategie rappresentazionali sembrano ormai essere emigrate dalla politica (il manifesto del 18 febbraio 2004) e trovare un terreno d’elezione nelle scienze. Lo conferma uno sguardo panoramico ad alcuni materiali e ad alcuni autori: Roberto Esposito in Italia (sul suo Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004), Bruno Latour, Peter Galison per l’area anglosassone, Hans-Jörg Rheinberger per quella tedesca, ma anche i saggi di un «communicologo» come Vilém Flusser, recentemente proposti in italiano (La cultura dei media, a cura di Andrea Borsari, Bruno Mondadori), e molte altre esperienze. Colpisce il fatto che in tutti questi casi, e nelle zone limitrofe di sensibilità teorica, il pensiero di Hobbes non venga più interrogato, in prima istanza, sul terreno più noto, quello politico-statuale, ma sul terreno semiologico-scientifico: intendere che cosa fosse il patto civile hobbesiano è ormai meno rilevante che definire che cosa fosse, per Hobbes, una traccia o un segno. Il suo universo è pieno di exemplaria, di notae, di signa e naturalmente di fantasmi in senso letterale. Forse non è un caso che un eccellente studioso contemporaneo di Hobbes sia Horst Bredekamp, il quale di mestiere sarebbe uno storico dell’arte e un esperto di iconografia politica. Non si tratta di lanciare alla rappresentanza politica una nobilitante ciambella di salvataggio apparecchiata nei laboratori scientifici: si può e forse perfino si deve simpatizzare con la casalinga di Voghera, che percepisce come ineloquenti e ripetitivi i luoghi della rappresentanza. Ciò che non ci si può permettere è che essi marciscano senza che ne sia stato smontato l’ingranaggio. Si sa allora come vanno a finire queste cose: le istituzioni rappresentative entrano in un cono d’ombra che le rende inafferrabili e che regala loro un’anacronistica resistenza all’effettivo logorio storico. Continuano a imperversare, insomma, come tutte le cose che sono state disprezzate, respinte e disertate senza essere state criticate. |
[da il manifesto, 14 dicembre 2004]