philosophy and social criticism

3. Avanguardie e modernità. Verso una nuova “prassi vivente”?

Alessandro Simoncini

Fin dagli inizi del ‘900, con le prime avanguardie, l’arte si pone il problema politico del tempo presente, rivendicando uno sguardo centrato sulla “poesia” di una realtà sempre più penetrata dai dispositivi metropolitani della comunicazione moderna. È quello sguardo rinnovato che permetterà alle avanguardie di percepirsi come “autocritica dell’arte nella società borghese”[69]. Nascono così movimenti che si collocano dentro e contro l’ “istituzione arte”, intesa come dispositivo borghese che comprende sia “l’apparato della produzione e della distribuzione artistica, sia le concezioni dell’arte che dominano in una data epoca e che determinano in modo essenziale la ricezione delle opere”[70]. Sottolineando come l’arte borghese abbia storicamente svolto la funzione di “oggettivazione dell’ autocomprensione della propria classe”, le avanguardie mirano allora a ricondurre l’esperienza artistica alla prassi vivente e collettiva, dalla quale essa è stata in precedenza allontanata[71]. Nell’arte borghese, infatti, produzione e ricezione avvengono secondo la logica individualistica e separata dell’immersione solipsistica. Lo scopo principale dell’esperienza artistica diventa così quello di soddisfare alcuni “bisogni residuali”, impossibili da soddisfare nella vita quotidianamente vissuta in società[72].

Detto altrimenti, nelle avanguardie storiche sembra risuonare la critica marcusiana secondo cui l’arte borghese – tutta la cultura borghese, anche quella “grande” – non è altro che un luogo in cui relegare il soddisfacimento di tutti quei bisogni (umanità, verità, gioia, libertà, uguaglianza, etc.) che non trovano realizzazione e libero sfogo nella società capitalista e nella vita di ogni giorno, sottoposta com’è al dominio incessante del principio di prestazione e a quello di concorrenza. L’arte borghese prevede certamente l’esistenza di “un mondo di valore superiore ed eternamente migliore” – scrive Marcuse – ma ogni individuo può accedervi solamente per sé «dall’interno», senza cambiare il mondo fattuale”[73]. Contro una simile concezione dell’arte – che giustifica tanto il dominio di classe quanto la forma presente della vita individuale -, le avanguardie non si accontentano di ridefinire in senso sociale il contenuto delle opere, ma condividono il progetto di “organizzare una nuova prassi vivente a partire dall’arte”[74]. Ed è proprio all’interno dei cantieri in cui sarà elaborato e svolto quel progetto critico condiviso, che le avanguardie inventeranno i linguaggi collettivi, i moduli creativi e le nuove forme della sensibilità catturate in seguito dalla macchina comunicazionale mediatica e pubblicitaria del capitalismo avanzato: un capitalismo audace che, proprio penetrando nell’arte, si rivelerà capace di rinnovare con successo le proprie forme e il proprio “spirito”.

3a) Avanguardie e linguaggi pubblicitari (I). Due o tre cose su cubismo e futurismo (e su George Grosz, en passant)

Vasilij Kandinskij è il primo artista a produrre un’immagine completamente non figurativa nella pittura occidentale e ad inaugurare così l’età delle avanguardie. Nelle sue opere i valori dell’arte vengono radicalmente ed esplicitamente opposti a quelli che l’artista considera “i disvalori emersi nella società di massa e delle merci”[75]. L’approdo ad “un’arte dell’astrazione assoluta” viene finalizzato, in Kandinskij, a generare nel pubblico una tensione verso valori non compromessi con il denaro e con il mercato[76]. Superata la tentazione spiritualista e negativa presente nel suo espressionismo, con il cubismo il discorso sul Bello sarà spinto dalle strategie comunicative del mondo industriale a radicarsi nell’immanenza e “a cercare nelle innovazioni del giorno le avvisaglie dell’avvenire in costruzione”[77]. I titoli dei giornali, le etichette dei vini e dei cibi, in una parola i marchi pubblicitari, entrano nei dipinti di Georges Braque (Bicchiere e bottiglia, 1913-14) e di Pablo Picasso (Bottiglia di Pernod e bicchiere, 1912).

Il cubismo, che Guillaume Apollinaire definì “arte della concezione”, riflette sul potere di comunicazione della pubblicità, ne comprende la forza produttrice di soggettività e la integra nello spazio pittorico astratto. Mostra così consapevolmente di saper penetrare la capacità attrattiva che la marca esercita, con la forza dell’evidenza, sul desiderio dei consumatori[78]. Con la tecnica dei papiers collés e del collage, lo spazio frammentato dei quadri cubisti viene presto abitato dai segni pubblicitari stessi, direttamente importati nell’opera e non più semplicemente dipinti: la realtà entra nell’arte. Dentro la pittura i marchi funzionano come puri segni visivi dal valore semiotico univoco, o – se si vuole – come i frammenti pubblicitari che in realtà essi sono[79]. È ciò che esemplarmente accade in Au bon marché di Picasso (1913), dove il rimando alla sensualità femminile – che diventerà un riferimento ineludibile del discorso pubblicitario – viene espresso dalla scritta Lingerie presente nel marchio Broderie che campeggia al centro di uno spazio pittorico ridotto ormai a suo contenitore.

Altri cubisti, come Robert e Sonia Delunay, aderiranno entusiasticamente all’ingresso della modernità nell’arte, spingendosi negli anni ’30 fino a progettare volantini, manifesti e pubblicità luminose come il Progetto di manifesto luminoso per Micatube (1936). L’arte, ripensata in funzione della sua capacità di “catturare” un pubblico sempre più attratto dalla fantasmagoria di merci che saturano seducenti negozi e grandi magazzini, rischia di essere progressivamente invasa dall’immagine dell’impresa veicolata dalla sua organizzazione pubblicitaria. L’audacia dell’avanguardista – grafico, cartellonista, designer o pittore che sia – viene presto addomesticata dalla maggiore potenza sperimentale dell’industria capitalistica. La forza-invenzione dell’artista collettivo, sempre più capace di creatività, è sussunta dalla macchina capitalistica secondo la logica dell’accumulazione del profitto e della valorizzazione. Proprio come accade alla forza-lavoro dell’operaio di fabbrica. Con la differenza che mentre a questo appartiene il compito della produzione dei beni, quello permette all’impresa di realizzare un fine cruciale: quello di produrre un vasto pubblico di consumatori, di raggiungerlo e motivarlo all’acquisto, realizzando così quello che Marx chiamava il “finish” del consumo. Infatti, scrive Marx, “senza produzione non v’è consumo; ma non v’è nemmeno una produzione senza consumo”[80]. “Solo nel consumo il prodotto diviene un prodotto  effettivo”, poiché il prodotto lì “riceve il suo ultimo  finish”[81]. È il consumo infatti – un consumo produttivo che equivale al lavoro del consumatore – che, dissolvendo il prodotto, “gli dà veramente il  finishing stroke”: un’ultima rifinitura senza la quale non si dà profitto[82]. E se il finish del consumatore è la “forza costitutiva dell’intero ciclo produttivo”, produrre la forma-merce e costruire materialmente la soggettività immaginaria del consumatore saranno i due compiti principali che la macchina-capitale dovrà assolvere simultaneamente[83]. Al fine di adempierli, l’arte e i suoi derivati diventano ora preziosi ingranaggi di quella stessa macchina.

Nel secondo decennio del novecento, la pubblicità invade lo spazio urbano modificandone il paesaggio. Si tratta di un fatto che susciterà reazioni conservatrici ed entusiasmi futuristi. “Gloria alle grandi reclamés che si ripetono violentemente espressive a tratti uguali, esasperando gli esteti dell’arcadia”, esclamerà Umberto Boccioni “contro il paesaggio e la vecchia estetica” dopo aver ritratto il nuovo dinamismo metropolitano ne La città che sale (1910)[84]. Come si sa, il futurismo elogerà la città tumultuosa scorgendovi l’emblema dello sforzo produttivo del lavoro e dell’accelerazione moderna. Tuttavia, pur accogliendo lo spirito della metropoli in uno spazio pittorico stravolto – e pur  mettendo in scena una narcisistica e aggressiva forma di auto-pubblicità finalizzata in primo luogo alla promozione del proprio successo artistico -, in un primo momento i futuristi non andranno oltre un “vago richiamo” alla pubblicità, come accade in Manifestazione interventista di Carlo Carrà (1914).

Diversamente accadrà nei lavori dello spartachista George Grosz. Come in Metropolis (1916-17), dove il dinamismo caotico della metropoli è intercalato dalle inserzioni pubblicitarie ed è descritto in funzione critica e deformante, espressionista. Violenta ed ottusamente individualista, la società borghese è qui avvolta nel rosso di un dipinto sanguinante. Capitalismo urbano per Grosz è violenza, disordine, volgarità, come ci dicono le linee forza caotiche e irrazionali che nulla hanno più a che vedere con la regola della prospettiva. Marciapiedi, pavimento stradale, edifici finestrati, volti deformati assumono un andamento frattale ed evidenziano l’arida volgarità deformante di forme di vita marcate a fuoco dall’irrazionalità dell’individualismo acquisitivo e da una desolidarizzazione che appare all’artista come qualcosa di simile ad un progetto criminale. Dopo la sconfitta della rivolta spartachista e il massacro del gennaio 1919 compiuto dai “Freikorps” a Berlino, il realismo astratto di Grosz analizza il panorama urbano della sconfitta e ritrae il modo in cui “l’ordine regna a Berlino”[85]. Grosz coglie naturalmente il nuovo dinamismo metropolitano e la metamorfosi accelerata di un mondo che trasforma i contadini in proletari (nella continuità dell’assoggettamento e dello sfruttamento) e gli aristocratici legati alla rendita terriera in professionisti ed imprenditori. Ma quel realismo – esplicitamente in debito con Münch, basti osservare Sera nel corso Karl Johan dell’artista norvegese -, restituisce in Die Besitzkröten (1920) e Scena di strada a Berlino (1930) il violento e desolante profilo antropologico della borghesia urbana tedesca. Città, borghesia e capitalismo vengono descritte come un’unità organica nella quale si fa largo la desertificante astrazione reale di una modernizzazione veloce, frustrata, antioperaia e militarista, che – come mostra nitidamente l’opera Al balcone del macellaio per la patria (1924) – sfocerà direttamente, e ineluttabilmente, nella melma nazista[86].

Il futurismo, al contrario, aveva tessuto l’elogio sperticato del capitalismo urbano, anche nella sua versione fascista. E con Fortunato Depero giungerà a sgretolare definitivamente il confine tra arte e pubblicità. Sapienza artistica, gioco, allegria e leggerezza comunicativa convergono in Squisito al selz, esposto alla XV Biennale di Venezia del 1926 e ormai apologia esplicita della creazione pubblicitaria: Vido, Strega, Campari, Saccardo, Vogue, Vanity Fair ed altre saranno le imprese per cui Depero lavorerà con continuità. Cimentandosi anche nel campo dell’architettura pubblicitaria, sosterrà che “tutta l’arte dei secoli scorsi è improntata a scopo pubblicitario” e che “anche l’arte deve marciare di pari passo all’industria, alla scienza, alla politica, alla moda del tempo, glorificandole”[87]. L’estro e le potenzialità sovversive del futurismo, le intuizioni geniali sulla vita moderna, diverranno apertamente funzionali alla logica del discorso pubblicitario (che presto diverrà propaganda fascista). E se Martinetti scriverà “poesie industriali” per la Snia Viscosa, il poeta Giovanni Gerbino sosterrà che la pubblicità è “vera e propria poesia nel senso più alto della poesia”: poesia è “esaltare un prodotto industriale o commerciale con lo stesso stato d’animo con cui si esaltano gli occhi di una donna”[88].

Le illusioni futuriste di un mutamento radicale ed emancipatorio, ottenuto grazie ad un’adesione senza resti alla logica urbanizzatrice e capitalista del moderno, cederanno il passo alla realtà mortifera del regime fascista, incarnazione di un modernismo reazionario del tutto funzionale alle esigenze di valorizzazione del grande capitale. L’elogio della  pubblicità, il divenire pubblicitario stesso del futurismo, è assolutamente complementare alla sua “modernolatria”[89]; a quell’apologia dei motori e della tecnica, cioè, che trascoloreranno nell’adesione al più infausto tra i movimenti politici modernisti. E del resto, accomunati ideologicamente dalla rivolta contro la modernità laica, dall’impianto anti-dialettico e dal culto del nuovo per il nuovo, “fascismo e futurismo sono indissolubilmente legati”[90]. Entrambi convergono verso la guerra, intesa come “la fucina dello sviluppo della velocità e quindi della tecnologia”[91]. In questo senso, la velocità non è che “guerra allo stato puro” e quest’ultima è connaturata alla modernità, che è in sé accelerazione e, perciò stesso, assalto permanente al “mondo”[92]. Per i futuristi, allora, la violenza e la velocità si fondono in una crasi per la quale “la violenza della velocità” diventa insieme “il luogo e la legge, il destino e la destinazione del mondo”[93]. La legge del capitale e della pubblicità – che del mondo accelerano costantemente il divenire metropolitano, velocizzandone la “benvenuta” metamorfosi – non fanno certo eccezione.

3b) Avanguardie e linguaggi pubblicitari (II). Due o tre cose sul dadaismo

Si tratta di dinamiche intuite e analizzate anche dagli autori del movimento dadaista, dove negazione anarchica e forza creativa convergono in un discorso moderno e critico capace di pensare e dire il presente senza per questo aderire alle sue logiche egemoni, come quella pubblicitaria[94]. Va comunque detto che, nella stagione tedesca della sua nascita, Dada si sviluppa tra il 1916 e il 1920 e usa da subito dinamiche di tipo pubblicitario per raggiungere il pubblico. Non lo fa, però, ovviamente per vendere prodotti, ma – come nei biglietti da visita di Tristan Tzara – per mettere in circolo il marchio “dada”, dalla sonorità semplice e facilmente memorizzabile. Un marchio al quale verrà associato “uno spirito, un gesto, un evento che si consumano – non: vengono consumati -, trapassano, trasgrediscono e non rimandano ad un autore e al suo discorso ma chiamano altri gesti e altri eventi”[95]. In altri termini si tratta di utilizzare in modo sorprendente, umoristico e ironico strumenti artistici intimamente connessi alle trasformazioni introdotte dalla modernità per produrre innovazione nelle forme di vita e per innescare processi di soggettivazione capaci di rifiutare l’egemonia del capitale sull’immaginario collettivo. E per farlo  occorre andare oltre l’arte. Per dirla con Guy Debord, infatti, “il dadaismo voleva sopprimere l’arte senza realizzarla[96].

In questo senso (in un modo solo apparentemente simile a quanto sostenuto dai futuristi), dopo aver riaffermato la volontà di distruggere “i cassetti del cervello e quelli dell’organizzazione sociale” – seminando “la demoralizzazione ovunque”, nell’intento di  “reinstallare la fertile ruota di un circo universale nelle Forze della realtà e nella fantasia di ogni individuo” -, già nel 1918 Tristan Tzara potrà affermare che “anche la pubblicità e gli affari sono elementi poetici”[97]. Essi, cioè, fanno parte dell’aria del tempo e l’arte non può ignorarli. Anzi deve utilizzarli, ma per trasfigurarli rovesciandone il senso e – come diranno i situazionisti – deviarli e dirottarli sottoponendoli alla pratica del détournement[98]. I dadaisti prefigurano così, in modo quasi profetico, lo sviluppo della comunicazione mediatica e pubblicitaria. Si è perfino giunti a sostenere che “se non ci fossero state le loro sperimentazioni i media non avrebbero avuto canoni formali moderni” di riferimento[99]. In ogni caso, Dada scopre senz’altro “il valore provocatorio dell’anticomunicazione”[100]. Comprende infatti che lo choc da cui viene investito il pubblico non deriva più dalla chiarezza e dalla distinzione di enunciati che si rivolgono a tutti, ma proprio dalla loro anomalia, dalla sorprendente incomprensibilità che essi presentano e dal fatto di rivolgersi in prima persona allo spettatore. Nei suoi volantini del 1921, richiamando lo spettatore all’azione, Picabia scriverà esemplarmente: “Francis Picabia ti consiglia di andare a vedere i suoi quadri al Salon d’Automne e ti presenta la sua mano da baciare”[101].

Dada sente la presenza della merce tutto intorno a sé, ne avverte la fantasmagoria. È insomma consapevole che, con la sua malia, questa è destinata ad imporre rapidamente l’ egemonia sociale di quella. E in una simile proliferazione vittoriosa della forma merce, Dada intuisce il progressivo divenire totale di un capitalismo che sussume tendenzialmente ogni aspetto del sociale. A tutto ciò, allora, tenta di opporre quel disordine delle forme estetiche che si fonderà con un “atteggiamento anarchico totale nei confronti della totalità della società”[102]. Dada comprende che nello “spettacolare diffuso” il pubblico tende a soggettivarsi sempre più come spettatore e consumatore di merci, come un pubblico-massa, cioè, che “mantiene la sua totale funzionalità capitalista”[103]. Anche ogni azione estetica tenderà allora a darsi entro un rapporto tra arte e pubblico che risulterà inevitabilmente mercificato: ogni arte quindi non può essere che falsa ed ogni rappresentazione mistificatoria. Di fronte a tutto ciò Dada non presenta reazioni moralistiche e stizzite: l’operazione estetica non può e non deve condurre alla restaurazione dell’autenticità, poiché non esiste alcuna autenticità. Non resta che accettare l’inautenticità di ogni gesto come unico orizzonte praticabile. L’unico “autentico” si dà nella vita intesa come negazione assoluta, ma per poterla praticare in questa sua funzione la vita deve utilizzare consapevolmente la falsità dell’arte e della stessa merce (anche laddove le due si fondono in una). Certo, però, che una simile pratica deve avvenire “con una disposizione contraria alle leggi del consumo”[104]. In altri termini, Dada constata che i “valori” sono ormai divenuti merce e che non si tratta affatto di restaurarli, tutt’altro. Occorre piuttosto distruggerli nietzscheianamente, ironicamente, proprio facendo della merce un oggetto estetico privilegiato, sottraendola così al mero orizzonte del consumo. Se il primo obiettivo polemico di Dada è la grande cultura borghese, quest’ultima va minata alle fondamenta con una strategia estetica radicale. Così, in un mai risolto altalenare tra la negazione radicale e un generoso tentativo di pensare l’incontro tra arte e vita – al fine di allestire qualcosa di simile ad un nuovo, gaio insieme di riferimenti sociali -, la merce dovrà essere utilizzata anche nelle sue forme più reificate, come quelle pubblicitarie appunto.

È quanto accade nelle copertine del “giornale trasparente” Le coeur à barbe e nel correlato manifesto, intitolato alla serata di presentazione. Qui le parole acquisiscono valore di immagine – sono più significante che significato – e vengono utilizzate, grazie ad una accurata ricerca grafica, come se al pari della “tiritera pubblicitaria” dovessero acquisire “il privilegio di vivere, fuori dalla pagina stampata, da parassiti dello spirito”[105]. Materiali e linguaggi della cultura bassa divengono “opera” e sono utilizzati al pari di quelli della cultura alta. Le immagini di merce delle vetrine, della pubblicità, del commercio, dei negozi o dei cataloghi delle ditte – che entrano ora nelle case incarnando il cuore stesso della vita moderna – abitano l’opera d’arte dadaista o la ispirano direttamente, come nel caso della Ruota di bicicletta di Marcel Duchamp.

Il Ready made è infatti una pratica attraverso cui una merce – un oggetto comune utilizzato quotidianamente come il celebre orinatoio “Fontana”, una ruota di bicicletta o lo scolabottiglie – diventa un’opera d’arte qualora l’artista lo prelevi e lo ponga “così com’è in una situazione diversa da quella di utilizzo, che gli sarebbe propria”[106]. Vi è un solo valore aggiunto che l’artista apporta a quell’oggetto: il fatto di sceglierlo o individuarlo casualmente tra i tanti che possono essere prelevati e isolati. L’oggetto-merce, in sé triviale, diventa un’opera d’arte solo perché il pubblico riconosce l’artista come tale. Duchamp coglie la nuova centralità del pubblico e degli spettatori che lo compongono: “un’opera in sé non esiste. Sono quelli che li guardano a fare i quadri”[107]. Con la metamorfosi da “ammiratore passivo a fruitore attivo dell’opera”, è quindi il pubblico a conferire valore sociale ad un opera che contribuisce in modo decisivo a stagliare nel reale[108]. Come a dire che “l’artista non è il solo a compiere l’atto di creazione, infatti lo spettatore stabilisce il contatto col mondo esterno decifrando e interpretando l’opera, e con questo aggiunge il proprio contributo al processo creativo”[109]. Ecco quello che, per estensione,  di essenziale e di irreversibile comprende il genio di Duchamp: al centro del dispositivo artistico sta ormai lo spettatore. Come al centro del sistema dell’industria culturale sta il consumatore, che va quotidianamente conquistato attraverso sapienti strategie pubblicitarie e che – proprio in quanto spettatore – compie già da sé la metà del lavoro. E d’altra parte, che cos’è la pubblicità stessa se non un Ready made nel quale l’oggetto si fa merce e, al contempo, immagine dell’oggetto? O, se si vuole, immagine seduttiva? In questo senso, forse, oltre che come una “energica riaffermazione della creatività dell’artista romantico”, il Ready made di Duchamp si configura davvero come “una protesta anticipata contro l’industria culturale”[110].

Nel Grande vetro, infatti, Duchamp coglie perfettamente il funzionamento delle logiche del consumo. La merce esposta in vetrina è un dispositivo che seduce il consumatore-spettatore malinconico con la sua promessa di appagamento; ne attrae il desiderio e ne cattura lo sguardo erotizzando il prodotto e utilizzando la potenza del vetro, che mette in contatto proprio mentre separa. A questo si riferisce l’immagine al centro dell’opera, la macinatrice di cioccolato che Duchamp aveva visto all’opera nella vetrina di una pasticceria. L’assai poco eroica macinatrice è una macchina-simbolo del desidero stesso. Simultaneamente, essa genera un oggetto di piacere (la merce-cioccolato) e la volontà del suo possesso: gli spettatori della vetrina vengono infatti stimolati all’ “immaginario piacere a cui l’immagine stessa del prodotto conduce”[111]. In Étant donnés, poi, l’arte di Duchamp mette propriamente a nudo le logiche del processo di mercificazione del quotidiano, esibendole ad un soggetto che si trova nella posizione di spettatore separato dall’oggetto di desiderio: qui “ciò che transita è solo lo sguardo […] La percezione è il possesso immateriale (e melanconico) dell’oggetto del desiderio”[112].

Insomma, il dadaismo mira a far esplodere un immaginario sociale centrato sulla vittoria della merce e sulla riduzione della soggettività a specchio e filtro reificato dall’attività del consumo indotto. Per questo i collagisti dada attingeranno a piene mani ai cataloghi commerciali, dove è più facilmente reperibile l’immagine che la società capitalistica vuole offrire di sé. Con il montaggio, infatti, le dinamiche tramite cui il capitale assolve con continuità il compito della valorizzazione – e l’ordine sociale che tramite questo lavorio prende forma – possono essere agevolmente criticati e sovvertiti: nei lavori di Hanna Höck e in quelli di Raoul Hausmann (come Dada Cino del 1920), l’accumulo delle merci e delle immagini appare chiaramente in tutto il suo carico di confusione e insensatezza, e si rivela come il cuore e la verità tanto della società industriale quanto dell’estetica borghese[113].

Il modello sociale del capitalismo maturo, che affastella confusamente America, sport, denaro e tecnologia, viene irriso da Kurt Schwitters, il quale in Mz 151, Das Wenzelkind (1921) mette un’icona femminile pubblicitaria al posto della testa della Madonna Sistina di Raffaello. Se tradizione e storia vengono recuperate e messe al lavoro da pubblicità e spettacolo, si tratta allora per Schwitters di inventare un linguaggio ironico capace di mostrarne nuove ricombinazioni possibili e in grado di testare linee di fuga che possano sottrarre l’arte alla cattura totale praticata dal capitalismo spettacolare[114]. A proiettare il dadaismo verso il surrealismo sarà Max Ernst, che nel collage Il cappello fa l’uomo (1920) rovescia parodisticamente il detto “l’abito non fa il monaco” per mostrare che la comunicazione moderna converge spontaneamente verso la pubblicità. Come questa, infatti, essa è essenzialmente “immagine per vendere l’apparenza, ma un’apparenza […] che può davvero essere la verità, se non la realtà, del mondo e dell’uomo”[115]. La psicanalisi incontra le avanguardie.

3c) Avanguardie e linguaggi pubblicitari (III). Due o tre cose su bauhaus, neoplasticismo, costruttivismo

I processi fin qui descritti vengono colti con acume anche dagli artisti delle cosiddette avanguardie costruttiviste: il costruttivismo, il bauhaus, il neoplasticismo. Nel 1919 Walter Gropius fonda a Weimar il movimento Bauhaus, che punterà a sintetizzare i risultati dell’art nouveau, delle Art & Crafts e delle altre esperienze artistiche avanguardistiche piegandole, e addomesticandole, marcatamente nella direzione applicativa del design per l’industria (che in quegli anni viene sempre più serializzandosi). Nei loro scritti, autori bauhaus come László  Moholy-Nagy e Jan Tschichold sosterranno la necessità, per l’arte, la grafica e la pubblicità di sviluppare  una nuova “economia dell’espressione”, finalizzata a farsi notare con chiarezza concisione e precisione. Herbert Bayer, che finirà a coordinare le principali campagne pubblicitarie delle olimpiadi di Berlino del 1936 (e che successivamente emigrerà negli Stati uniti), sarà il responsabile dell’atelier di tipografia e pubblicità Bauhaus, un punto di osservazione importante per comprendere il divenire commerciale dell’arte moderna[116]. Da qui, infatti, usciranno diverse generazioni di grafici pubblicitari in grado di segnare lo stile degli anni ’20 e ’30. Nel loro lavoro la potenza delle intuizioni avanguardistiche entra, per così dire, direttamente in produzione; e si tratta ormai di una produzione in serie. A Bayer tocca il compito decisivo di fissare i canoni di un’estetica fondata sull’aggressività, la sorpresa, l’uso accattivante del colore e delle simmetrie, e capace di catturare lo sguardo dello spettatore. Lo “stile Bauhaus” appare così chiaramente definito nel suo Progetto di chiosco del 1924[117].

Al Bauhaus appartiene uno dei primi grandi teorici della pubblicità, Rudolf Seyffert[118]. Per lui si tratta ormai esplicitamente di produrre opere artistico-tipografiche in grado di costruire un determinato “movimento visivo”, di “guidare lo sguardo” e conquistare gli occhi dello spettatore-consumatore[119]. A tal fine occorre che la tipografia costruttivista bauhaus produca superfici visive in cui l’occhio possa “stabilire senza fatica il rapporto tra il testo e l’immagine, mentre le percezioni visive si succedono in un ordine rigorosamente determinato”: si tratta di approntare “equivalenti visivi delle procedure retoriche che caratterizzano l’imbonimento dei venditori”[120]. Come accade anche nella pubblicità per la carta carbone Pelikan di Lazar Lissitskij, dove semplicità, chiarezza dinamica, ripetizione e sovrapposizione sono piegate proprio a quell’unico e preciso scopo[121].

In Unione sovietica, invece, le avanguardie costruttiviste avevano optato per un altro progetto, sviluppando l’eredità futurista. Si trattava di contribuire alla ricostruzione rivoluzionaria del mondo, portando l’arte a un popolo e a un proletariato che non l’avevano fin lì compresa. Così, com’è noto, nella sua Ordinanza all’esercito dell’arte (1918) Majakovskij sosterrà che “le strade sono i nostri pennelli, le piazze le nostre tavolozze”; e il Lef (Levyi Front Iskusstv), il Fronte di sinistra delle arti, svilupperà i lineamenti fondamentali dell’ “arte di propaganda”, versione politica della pubblicità. E’ la struttura economica, orientata al moderno sviluppo industriale, a dover orientare la sovrastruttura artistica: la pittura da cavalletto va riposta in soffitta a tutto vantaggio delle immagini fotografiche (conquista della tecnica) o di altre direttamente importate dalla logica fotografica. Il recupero della figurazione, contrariamente alla scelta delle avanguardie europee, dipende da una valutazione strategica: un pubblico di analfabeti va acculturato con il ricorso massiccio alle immagini, al loro sapiente montaggio e alla conseguente innovazione del linguaggio estetico. In questo risiede la grande sensibilità mediatica del costruttivismo sovietico, l’intuizione profonda della necessità di dover approntare dispositivi artistici capaci – come aveva già teorizzato Gabriel Tarde ne Le leggi dell’imitazione (1890) – di praticare “l’azione a distanza di uno spirito su di un altro, un’azione che consiste in una riproduzione quasi fotografica di un cliché cerebrale da parte della lastra sensibile di un altro cervello”[122]. Ed è  quanto appare chiaramente nelle opere di Aleksandr Rodčenko. In Libri (1924), ad esempio, una giovane comunista grida parole-immagini che chi guarda non può capire e delle quali sarà spinto a chiedere il significato a un compagno intellettuale; in Ha convinto (1922), compare una geniale pubblicità dei sanitari prodotti dall’industria di Stato. Qui immagini e intarsi tipografici funzionano quasi come “frecce animate che dirigono lo sguardo”, similmente a quanto nello stesso periodo accade nel cinema con il montaggio dialettico di Ejsenstenin[123].

Se lo scopo del costruttivismo sovietico è quello di garantire i progressi della rivoluzione attraverso la produzione e la circolazione di immagini propagandistiche montate secondo i canoni della modernità estetica più avanzata, in regime capitalistico il connubio tra arte e grafica pubblicitaria punta – con tecniche affini – a rapportare il testo e le immagini alla merce, mostrandone la figura e il marchio in modo tale che si incidano con dinamismo foto-meccanico “nella memoria dei passanti come una storia senza parole”[124]. Lo si può vedere all’opera in Pneumatik di Moholy-Nagy (1925), dove l’intento è sempre quello di dirigere la mobilità dell’occhio e di catturare lo sguardo. L’arte si fonde definitivamente con la materia del reale, del quotidiano, del sociale. E perfino artisti come Kurt Schwitters, che erano stati vicini alla negazione anarco-dadaista, aprono agenzie pubblicitarie reinvestendo con convinzione la propria precedente ricerca nei cantieri del capitale. Ma Schwitters sviluppa una peculiare forma astratta di “pubblicità senza merce, senza persuasione, senza pubblicità”: come nei lavori per la Pelikan, in cui convivono “una grafica e una pubblicità tutte fatte d’arte” e “un’arte tutta fatta di grafica, tutta fatta di pubblicità”[125]. Sarà, questo, uno dei punti più esteticamente avanzati della fusione tra arte e pubblicità.

Al contempo, in Francia, Fernand Léger, pur non praticando attivamente come Schwitters il connubio arte-pubblicità, esercita su quest’ultima una massiccia influenza diretta. La sua pittura si fonda infatti sulla consapevolezza che “la città è un paesaggio urbano dominato dalla pubblicità” e che “il colore […] dominerà la vita comune”[126]. La peculiare sensibilità nel cogliere elementi come la ripetizione degli oggetti quotidiani sui muri della città o nelle vetrine dei negozi, e nel mostrare la logica dell’isolamento o dell’ingrandimento dell’oggetto, spingeranno i pubblicitari ad imitarne l’idea e il tratto. Come quando la Campari riprenderà apertamente il suo Il sifone (1924). Arte semplice e popolare, quella di Legér, fondata su un linguaggio rapido e diretto; capace di stabilire i “primi principi di una visione di choc” e di influenzare così i colori e le grandi forme geometriche dei manifesti di strada con la messa in primo piano del grande potere degli oggetti, isolati così come li si ritrova ad esempio nelle vetrine dei negozi[127].

In qualche modo, come sostiene Maurice Raynal, Léger contribuisce a ridefinire in modo decisivo quell’ “arte della strada” che segnerà lo stile di un’intera epoca e che, influenzando nettamente il “gusto della folla”, plasmerà l’estetica popolare per diversi decenni[128]. In Léger è già presente un profondo interesse per il paesaggio urbano, come appare chiaramente ne La città e in Uomini in città (1919) dove l’uomo diviene una soggettività qualunque, perfino meccanica come ne La partie des cartes (1917). Allo stesso modo l’artista francese dedica grande attenzione alla comunicazione di massa e alla cattura dell’attenzione, ed anche all’elaborazione di strumenti estetici capaci di rispondere ai desideri e ai bisogni popolari. Si tratta di temi e di stilemi che ritorneranno nella Pop Art. Ma se nel “non-stile impersonale” di Léger la stereotipia degli oggetti, la loro spettacolarizzazione in nuce e l’astrazione dei soggetti moderni convivono felicemente nello spazio dell’opera, in Warhol – come vedremo – tutto ciò diventerà “indifferenza”, “volontà di «essere una macchina»”[129]. Al di qua di ogni cinismo, invece, Léger intuisce profondamente la natura della comunicazione moderna. E si tratta di una intuizione artistica epistemicamente connessa al clima sociale del suo tempo presente.

Negli anni ’20, infatti, con la produzione standardizzata e con l’emergenza del lavoro taylorista, si comincia a parlare anche di società di massa: i pubblicitari comprendono subito che occorre elaborare in fretta uno stile capace di parlare non solo ai singoli acquirenti, ma ad una massa di soggetti che devono diventare consumatori oltre che “gorilla ammaestrati” al lavoro di fabbrica[130]. A tal fine bisognerà governare il loro sguardo in modo da convertire il loro potenziale critico, facendo leva su bisogni e desideri diffusi e condivisi come il desiderio di successo individuale. Guardando le merci, le donne e gli uomini del tempo nuovo non dovranno più vedere di fronte a sé una società spersonalizzante fondata sullo sfruttamento capitalistico e sull’assoggettamento biopolitico e disciplinare[131]. Nella temperie critica del dopoguerra, il desiderio di un’altra società possibile deve essere recuperato e detournato in quello di abitare individualisticamente le “società del benessere” e della presunta pace sociale. Occorre, quindi, che i singoli si percepiscano come individui appartenenti al corpo compatto del popolo e della nazione, identità organiche da cui si mira a far scomparire ogni divisione interna di classe, di genere, di razza. In un simile popolo e in una simile nazione, l’autocoscienza dei singoli deve poter coincidere con quella di consumatori potenzialmente ed individualmente soddisfatti[132]. Com’è noto, si tratta di un modello pratico-discorsivo costruito negli Stati Uniti, ma progressivamente diffuso ovunque in Europa nei decenni a venire. A partire proprio dalla Francia, dove – per menzionare un solo esempio – la rivista La publicité si spinge fino a fare l’apologia del “legame che si può istituire tra la pubblicità e la propaganda a favore di un senso di integrità nazionale”[133]. Ma è appunto negli Usa che gli artisti cominciano a parlare esplicitamente questo linguaggio, a partire da una sempre più diretta spettacolarizzazione degli oggetti ed anticipando di fatto l’anti-poetica della Pop Art.

Stuart Davis e Gerard Murphy dipingeranno con sensibilità direttamente pubblicitaria flaconi, rasoi, sigarette e giornali a fumetti ben prima di Warhol, Rosenquist e Lichtenstein. In loro si ritrovano già i moduli di una cultura di massa che, in nome della “causa popolare” e del’adesione alle istanze del soggetto urbano moderno, scivolerà spesso nel postmoderno e in una adesione talvolta acritica – talaltra esplicitamente euforica – alla società dei consumi, intesa come veicolo di una presunta liberazione individuale. A tutto ciò, sul versante europeo, non tarderanno a venire risposte come quella della rivista L’esprit nouveau, in cui sarà attivo Le Corbusier. Al recupero pubblicitario della potenzialità sovversiva delle avanguardie, e agli artisti che come Léger se ne rendono oggettivamente complici (l’opera incriminata è qui il manifesto pubblicitario per il grande magazzino dei mobili  Au bûcheron che campeggiava sulle pareti del Boulevard Saint-Germain), la rivista opporrà l’accusa di essere caduti nella trappola tesa dal “ritmo accelerato dell’epoca”[134]. Ad essere sotto accusa è il ritmo della ripetitività e della serialità delle merci, che riproduce le logiche della valorizzazione del capitale proprio mentre inganna dei soggetti ormai ridotti a spettatori e a consumatori. In nome dei “bisogni del popolo” e con l’ausilio di linguaggi artistici, il mobilificio Bûcheron a cui Legèr offre il suo ingegno propaganda infatti il mito di un’illusoria felicità: “i mobili che arriveranno all’indirizzo indicato saranno anch’essi altrettanto falsi di quanto lo è il trucco di questo cubismo. Quando ci si dà «al moderno» si può cadere molto in basso”, chioseranno seccamente i redattori della rivista[135].

3d) Avanguardie e linguaggi pubblicitari (IV). Due o tre cose sul surrealismo

A poco a poco la pubblicità e i suoi personaggi entreranno comunque a far parte integrante del panorama antropologico ed esistenziale delle grandi città europee. A Parigi, la benjaminiana capitale del XIX secolo, immagini come quelle di Bibendum (l’omino Michelin) e Cadum (il bambino dal faccione sorridente utilizzato per pubblicizzare un sapone) campeggiano un po’ ovunque ed iniziano a penetrare l’immaginario collettivo. Il surrealismo, che “nacque dalle ceneri di Dada” e ne sviluppò “in senso sociale il gesto”, presenterà grande attenzione a queste icone del moderno[136]: Robert Desnos gli dedicherà La liberté et l’amour, un importante racconto della sua produzione in cui Cadum si scontra con Bibendum e compie miracoli; Paysan de Paris di Louis Argon trabocca di insegne pubblicitarie, vetrine, merci; Apollinaire e Breton inseriscono testi di pubblicità e frammenti dei cataloghi delle merci dei grandi magazzini nelle loro poesie e nei loro romanzi.

Una cosa è certa però: fu più la pubblicità a giovarsi delle intuizioni e dei risultati artistici dei surrealisti che non il contrario. Il surrealismo aveva centrato la propria poetica sulla discrasia tra mondo reale e finzione, sulla mancata coincidenza tra l’oggetto reale e il segno che arbitrariamente lo rappresenta, come esemplarmente accade in La trahison des images (1928) o ne La chiave dei sogni (1935) di René Magritte. Avendo recepito, com’è noto, la lezione freudiana della scoperta dell’inconscio, il surrealismo restituisce nello spazio pittorico il modo in cui il mondo onirico spossessa di fatto l’uomo dalla signoria di sé: il soggetto-coscienza non sarà più padrone in casa propria, ma da questa evidenza può prendere le mosse un mondo infinitamente più ricco. Più che Magritte – per il quale lo scopo principale dell’arte è “ascoltare il silenzio del mondo” – a concretizzare questa poetica sarà Salvador Dalì.

Per lui la pittura è “un istantanea a colori della concreta irrazionalità” in cui l’inconscio può emergere direttamente sulla tela grazie all’applicazione di un metodo paranoico-critico, come in Sogno causato dal volo di un’ape attorno a una melagrana un attimo prima del risveglio (1944) [137]. Ispirato dalla puntura di un’ape durante il sonno, Dalì produce pittoricamente un’immagine che rappresenta sensazioni precedenti e successive alla puntura. Il momento preciso della puntura coincide con la punta della baionetta che si accinge a penetrare l’arto della donna nuda e la delirante macchina tigri-boccadipesce-melagrana ci dà la cifra del dolore. Come in un’allucinazione ricorrente nella vita onirica di Dalì, lo strano elefante dalle gambe lunghe di enorme insetto va camminando sull’acqua. Si tratta di immagini che nel surrealismo hanno lo scopo di criticare, in nome della libertà e del desiderio, una concezione asfittica del reale: quella iper-realistica egemone nel mondo capitalista dominato dalla merce e dallo sfruttamento. In nome di un’altra realtà e di nuovi processi di soggettivazione, sogno e delirio allucinatorio si oppongono alla forma di vita sacrificale del soggetto borghese occidentale, materializzando un’“illuminazione profana”[138]. Un’esperienza, cioè, simile ad un’ “estasi materialistica” capace di rivolgersi alle moltitudini e ai singoli con l’intento di favorirne la sollevazione[139].

Nel Manifesto del surrealismo del 1924 André Breton scriverà: “trasformare il mondo, ha detto Marx, cambiare la vita, ha detto Rimbaud. Queste due parole d’ordine sono per noi una sola”[140]. Rovesciando questo progetto, comunista e/o anarchico, la pubblicità si impossesserà sia del richiamo allo iato tra reale e immaginario, sia delle atmosfere oniriche del surrealismo. Come ha opportunamente sottolineato Elio Grazioli, le svuoterà della loro carica rivoltosa per piegare quest’ultima “fino a farne il soffuso ambiente della seduzione”[141]. Allo stesso modo, trarrà “dall’ambiguità tra realtà e rappresentazione” la capacità e la possibilità di “giocare su più registri il proprio messaggio di convincimento”[142].

Surrealismo e dadaismo furono contemporanei, “benché in maniera solo relativamente cosciente, dell’ultimo grande assalto del movimento rivoluzionario proletario”[143]. Ed entrambi finirono per restare “immobilizzati” dalla sua disfatta. Come si è sostenuto, poi, la vera sconfitta di questi movimenti artistici è consistita in un fatto che risulta decisivo ai fini di comprendere una delle principali fonti tecnico-linguistiche della forza sociale del capitale: il dispositivo pubblicitario ha ripreso e recuperato le  tecniche surrealiste “del montaggio e dell’assemblaggio incongruo e spiazzante”[144]. Tecniche che miravano a distruggere lo spazio-tempo naturale e sociale dato, per indicare la possibilità di un altro, più ricco, spazio-tempo mentale. Il discorso della pubblicità ha sussunto nel proprio progetto di vendita proprio la forza evocatrice di uno spazio allusivo che nel surrealismo richiamava la forza emancipatoria del desiderio. Con la pubblicità, infatti, si produce l’assoggettamento continuo e ricorsivo di un moto desiderante. Questo viene canalizzato in permanenza verso la merce, che ora risulterà l’unico oggetto di un desiderio destinato ad una soddisfazione solo illusoria perché dipendente dall’incessante incitazione coatta al godimento[145].

Di fatto, la pubblicità rilancia il principio che il giovane Magritte aveva teorizzato proprio quando per guadagnarsi da vivere era necessariamente finito a lavorare come pubblicitario: “il quadro perfetto produce un effetto intenso solo per una durata molto breve”[146]. E un simile effetto si può ottenere solamente grazie ad un sapiente uso del gioco delle illusioni, dell’enigma, dello slittamento di senso. In altri termini, dalla sua esperienza di pubblicitario Magritte trae un insegnamento: l’opera non deve infliggere allo spettatore un lungo periodo di riflessione; per funzionare dovrà al contrario “contare su un effetto immediato, catturare lo sguardo, colpire, sorprendere e affascinare”[147]. Lo stesso Magritte, d’altra parte, nel 1931 aprirà con il fratello lo studio pubblicitario Dongo lavorando per molte ditte francesi, come la Mem, produttrice di profumi, e la Tonny’s, di caramelle. Tuttavia il Magritte pubblicitario sarà rifiutato dalle imprese. “La storia di Magritte, grafico e disegnatore pubblicitario, è l’itinerario di un fallimento”[148]: lo sguardo che i suoi lavori risvegliano non è infatti quello desiderante di chi cessa di pensare e si affretta ad acquistare, bensì quello pensoso di chi interroga il proprio stesso desiderio. In altri termini, la pubblicità di Magritte non rivolge il proprio dispositivo retorico verso il consueto fine ultimo della vendita, ma proprio quel fine disocculta.

È una pubblicità che punta sì al desiderio, ma non lo attiva verso il prodotto da acquistare. Piuttosto, mentre a questo fa smettere di pensare, immerge chi guarda in un’immagine che desta il pensiero. Forse allora si può vedere nell’attività pubblicitaria di Magritte qualcosa di simile ad una strategia “entrista”, quand’anche involontaria, celata da un “atteggiamento di falso consenso e ”finalizzata a scardinare i meccanismi di una società pubblicitaria dei consumi fissata – questa sì – sull’idea di fornire “una rappresentazione «indiscutibile» della realtà”[149]. Non a caso, Magritte affermerà che la cosa da lui maggiormente detestata è proprio la pubblicità, con il suo tentativo reiterato di rappresentare le arti decorative, il folclore, la voce degli speaker, l’aerodinamismo, l’odore di nafta. Ma, vendetta postuma, la pubblicità si impossesserà, direttamente o per citazione, proprio della potenza immaginifica presente nelle immagini prodotte dal surrealismo. Dimostrerà così che l’intelligenza strategica del capitale è capace di mettere al lavoro anche ciò che gli resiste esplicitamente, traendone profitto e innovando i propri linguaggi: l’uomo con la bombetta (enigmatica icona che corrisponde all’uomo senza qualità della metropoli moderna) e l’uccello che misteriosamente staglia la propria sagoma nel cielo finiranno, per così dire, in produzione.

Del resto, come acutamente aveva osservato Benjamin, “la poesia surrealista tratta le parole come nomi di ditte commerciali; i suoi testi sono in fondo dépliants di imprese non ancora consolidate”[150]. Allora, si può certamente leggere il surrealismo come il tentativo giocare lo spettacolo contro lo spettacolo, ovvero di usare l’immagine spettacolare contro la società dello spettacolo emergente. Il suo scopo è infatti quello di evocare un altro inconscio, un altro orizzonte mondano, un’altra vita “estranea alla mercificazione capitalista”[151]. Ma si può anche, con altrettanta certezza, constatare come lo spettacolo stesso sia infine riuscito a catturare nella propria rete – una rete che avvolge l’intera società – la forza di sogno della poetica surrealista: quella forza, cioè, che puntava a trasfigurare la merce “nel sogno onirico, nell’incubo” e a contrapporvi niente altro che una vita dotata dell’ebbrezza necessaria a  pensare, e a praticare la rivoluzione[152].



[69] P. Bürger, Teoria dell’avanguardia, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, p. 26.

[70] Ivi, p. 28.

[71] Ivi, p. 57.

[72] Ibidem.

[73] Cfr. H. Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura, in Id., Cultura e società, Torino, Einaudi, 1969, pp. 49-50. Per un approfondimento della teoria marcusiana dell’arte, cfr. H. Marcuse, Teoria critica del desiderioRomaManifestolibri, 2011.

[74] Ivi, p. 60.

[75] A. Abruzzese, P. Mancini, Sociologie della comunicazione, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 115.

[76] Ibidem.

[77] Ibidem.

[78] Sul tema, cfr. L. Taiuti, Arte e comunicazione di massa, Genova, Costa &Nolan, 1996, pp. 136-149.

[79] E. Grazioli, Arte e Pubblicità, Milano, Bruno Mondadori, 2001, p. 28.

[80] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-58), Firenze, La Nuova Italia, 1971, p. 12 e ss.

[81] Ibidem.

[82] Ibidem.

[83] A. Abruzzese, L’Intelligenza del mondo. Fondamenti di storia e teoria dell’immaginario, Roma, Meltemi, 2001, p. 61. Sulla genesi e lo sviluppo del concetto di “consumo produttivo”, cfr. anche V. Codeluppi, Dalla produzione al consumo. Processi di cambiamento delle società contemporanee, Milano, Franco Angeli, 2010, pp. 73-80.

[84] U. Boccioni, Contro il paesaggio e la vecchia estetica, in Gli scritti editi e inediti, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 84.

[85] R. Luxemburg, Die Ordnung harrscht in Berlin, in “Die Rote Fahne”, 14 gennaio 1919.

[86] Sul tema, cfr. C. Vitiello, Teoria e analisi del linguaggio poetico, Napoli, Guida, 1984, pp. 204 e ss., ma anche U. M. Scheede, George Grosz. Vita e opere, Milano, Mazzotta, 1977, pp. 82 e ss.

[87] F. Depero, Il futurismo e l’arte pubblicitaria, in “Numero unico futurista Campari 1931”, Rovereto, 1931, cit. in E. Grazioli, Arte e Pubblicità, cit., p. 41. Sul tema cfr. anche C. Salaris, Il futurismo e la pubblicità. Dalla pubblicità dell’arte all’arte della pubblicità, Milano, Lupetti, 1986 e le note contenute in V. Codeluppi, Iperpubblicità. Come cambia la pubblicità italiana, Milano, Franco Angeli, 2000, pp. 20 e ss.

[88] G. Gerbino, Poesia pubblicitaria. Manifesto futurista, in “Dinamo futurista”, 2, 1933, cit, in E. Grazioli, Arte e Pubblicità, cit., p. 43

[89] Sul tema, cfr. M. Musella, Il culto della modernità: la modernolatria futurista, 2008, in http://www.italianisti.it; F. Bettini, Analisi testuale del primo manifesto futurista, in F. Bettini et al., Marinetti futurista, Napoli, Guida, 1977, pp. 75-94 e i cenni in E. Sanguineti, Ideologia e linguaggio, Milano, Feltrinelli, 1965, pp. 36-37.

[90] F. Vander, L’estetizzazione della politica: il fascismo come anti-Italia, Bari, dedalo, 2001, p. 192.

[91] U. Fadini, Sviluppo tecnologico e identità personale: linee di antropologia della tecnica, Bari, Dedalo, 2000, p. 187.

[92]  P. Virilio, Futurismo e Fascismo, in Id., Guerra e cinema. Logistica della percezione, Torino, Lindau, p. 29.

[93] Ibidem.

[94] Sull’origine del termine “dada” ci sono diverse ipotesi, anche “leggendarie”. È interessante sottolineare qui come una di queste lo faccia risalire alla lozione per capelli Dada, all’epoca pubblicizzata dalla ditta Bergman & Co.

[95] Cfr. E. Grazioli, Arte e Pubblicità, cit., p. 51.

[96] G. Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 166.

[97] T. Tzara, Manifesto Dada 1918, in Manifesti del dadaismo e lampisterie, Torino, Einaudi, 1990, p. 9.

[98] La prima teorizzazione del detournement è forse quella contenuta in G. Debord, G. Wolman, Mode d’emploi du détournement ,in Les levres nues, 8, 1956, ora leggibile in http://sami.is.free.fr/Oeuvres/debord_wolman_mode_emploi_detournement.html.

[99] A. Abruzzese, P. Mancini, Sociologie della comunicazione, cit., p. 117.

[100] E. Grazioli, Arte e Pubblicità, cit., p. 53.

[101] F. Picabia, Volantino, 1921, cit. in ibidem.

[102] A. Abruzzese, Forme estetiche e società di massa, Venezia, Marsilio, 2001, p. 124.

[103] G. Debord, La società dello spettacolo, cit., pp. 82 e ss e p. 128.

[104] Ivi, p. 126.

[105] F. Sullerot, Des mots sur le marché, in Art & Publicité 1890-1990, cat. mostra Centre Pompidou, Parigi 1990, cit., in E. Grazioli, cit., p. 54

[107] M. Duchamp,  Entretiens avec Pierre Cabane, Paris, Belfond, 1967, p. 130.

[108] F. Speroni, La rovina in scena: per un’estetica della comunicazione, Roma, Meltemi, 2002, p. 135.

[109] M. Lazzarato, Expérimentations politiques, cit., pp. 171-172.

[110] M. Perniola, Handiwork, in “Agalma”, 13, 2007, p. 5.

[111] L. D’Elia, Il regime della comunicazione nell’arte, in http://www.filosofia.unimi.it. Sul ruolo centrale della forma-vetrina per la fortuna delle società della merce dal Settecento ad Internet, cfr. V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società Torino, Bollati Boringhieri, 2007.

[112] F. Speroni, Sotto il nostro sguardo, Genova, Costa & Nolan, 2005, p. 72, cit. in E. Grazioli, Arte e Pubblicità, cit., p. 57.

[113] Ibidem, p. 61-62.

[114] Sull’opera e la figura di Kurt Schwitters, cfr. E. Grazioli (a cura di), Riga 29. Kurt Schwitters, Milano, Marcos y Marcos, 2009.

[115] E. Grazioli, Arte e Pubblicità, cit., p. 64.

[116] J. Meissner, “Quand l’art moderne devient commercial“: propagande et publicité dans l’oeuvre de Herbert Bayer, in “Vingtième siecle 101”, 1, 2009.

[117] Per una prima informazione su questi aspetti del Bauhaus, cfr. H. M. Wingler, Il bauhaus. Weimar, Dessau, Berlino 1919-33, Milano, Feltrinelli, 1972.

[118] Cfr. le note su Seyffert in C. Ross, La professionalisation de la publicité dans l’Allemagne de Weimar, in “Vingtième siecle 101”, 1, 2009.

[119] E. Grazioli, Arte e Pubblicità, cit., p. 72.

[120] U. Brüning, Typographie constructiviste et publicité, in Art & Publicité 1890-1990, cat. Mostra, Centre Pompidou, Parigi 1990 (AdAC) cit., in E. Grazioli, pp. 92-93.

[121] Per una prima informazione su Lissitskij cfr. R. Barilli, L’arte contemporanea: da Cézanne alle ultime tendenze, Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 181-183.

[122] G. Tarde, Le lois de l’imitation, 1a ed. 1890, Édition électronique, http://classiques.uqac.ca/classiques/tarde_gabriel/lois_imitation/tarde_lois_imitation_1.pdf ., p. 11.

[123] E. Grazioli, Arte e Pubblicità, cit., p. 77.

[124] M. Stam, E. Lissitski, Die Reclame, in Abc, Beiträge zum Neuen, 1924, cit. in E. Grazioli, p. 79

[125] E. Grazioli, Arte e Pubblicità, cit., p. 84.

[126] Ivi, p. 86.

[127] B. Dorival, Les étapes de la peinture française contemporaine, Paris, Gallimard, 1946, p. 264. Su Legér cfr. anche le note contenute in M.-E. Chessel, La publicité: naissance d’une profession, 1900-1940, Paris, CNRS éditions, 1998.

[128] M. Raynal, Coleurs dans le monde, in “Arts et métiers graphiques”, agosto 1934, cit., in E. Grazioli, p. 89.

[129] E. Grazioli, Arte e Pubblicità, cit., p. 89.

[130] Secondo una logica già analizzata da Antonio Gramsci in Americanismo e fordismo. Quaderno 22 (1934), Torino, Einaudi, 1978.

[131] Cfr. L. Demichelis, Biopolitiche (o biotecniche) del lavoro. Lavoro di produzione, di consumo, di divertimento, in L. Demichelis, G. Leghissa (a cura di), Biopolitiche del lavoro, Milano, Mimesis, 2008, pp. 96-107.

[132] Cfr. G. Cross, Tempo e denaro. La nascita della cultura del consumo, Bologna, Il Mulino, 1993.

[133] E. Grazioli, Arte e Pubblicità, cit., p. 90.

[134] Ivi, p. 92.

[135] Ibidem.

[136] A. Abruzzese, Forme estetiche e società di massa, cit., p. 129-130.

[137] Sul tema cfr. M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 193 e ss.

[138] W. Benjamin, Il surrealismo. L’ultima istantanea dell’intelligenza europea, in Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura [1920-38], Torino, Einaudi, 1973, p. 13.

[139] A. De Paz, Romanticismo, modernità, avanguardia, in Bibliomanie, 1, 2005, in http://www.bibliomanie.it/romanticismo_de_paz.htm.

[140] A. Breton, Position politique du surrealisme, Paris, Le Livre de poche, 1971, p. 97.

[141] E. Grazioli, Arte e Pubblicità, cit., p. 97.

[142] Ibidem.

[143] È la tesi sostenuta da Debord in La società dello spettacolo, cit., p. 166.

[144] E. Grazioli, Arte e Pubblicità, cit., p. 98.

[145] Tra i tanti studi che hanno recentemente ripreso il tema lacaniano del godimento, cfr. almeno G. Marramao, Lo spettacolo dell’uguaglianza, in “Lettera internazionale”, 107, 2011; M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Milano, Raffaello Cortina, 2010; D-R. Dufour, La cité perverse. Libéralisme et pornographie, Paris, Denoel, 2009.

[146] R. Magritte, La véritable art de peindre, in Id., Écrits commplets, Paris, Flammarion, 1979, p. 274.

[147] E. Grazioli, Arte e Pubblicità, cit., p. 101.

[148] A. Trimarco, Il pensiero della somiglianza. A proposito di Magritte e la pubblicità, in “Grafica”, 1, 1985.

[149] L. Taiuti, Arte e media. Avanguardie e comunicazione di massa, Genova, Costa & Nolan, 1996, p. 68, cit. in E. Grazioli, cit. p. 103. Su Magritte pubblicitario, cfr. A. Trimarco, Il pensiero della somiglianza. A proposito di Magritte e la pubblicità, in Grafica, 1, 1985.

[150] W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, Torino, Einaudi, 1986, p. 232.

[151] A. Abruzzese, Forme estetiche e società di massa, p. 130.

[152] Ibidem.

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