philosophy and social criticism

Che cosa significa un corpo

Gianluca Pulsoni

Appunti su L’uomo, la macchina, l’automa di Carlo Sini (Bollati-Boringhieri, Torino 2009)

0-numeri-uomo-di-vitruvioL’ultima fatica di Carlo Sini sintetizza, con una efficacia che è ormai la cifra espressiva del filosofo, alcuni dei temi più importanti della contemporaneità, temi legati al rapporto del corpo con l’ azione e il mondo. Con una lucidità incredibile di sguardo, e un rigore tanto affascinante quanto implacabile. Ma andiamo con ordine, fin dall’inizio.

Il libro è sviluppato in una introduzione, cinque capitoli e un epilogo. E sempre con il medesimo tono di scrittura mantenuto da Sini, un tono che induce attenzione massima per gli argomenti trattati.

L’approccio del filosofo è subito spiazzante nella sua dialettica tra semplicità aneddotica e complessità analitica. Nell’introduzione, infatti, ricorda a noi lettori di come è iniziata l’idea della scrittura di questo libro. Attraverso un casuale “incontro”, la Storia di automi di Mario Losano e con la conoscenza del lavoro di Giuseppe Longo, insigne studioso di informatica. Occasioni propizie, visto l’interesse dell’autore al tema. Occasioni propizie, visto tutti i ragionamenti di Losano e il lavoro di Longo, che Sini, fin dall’introduzione, circoscrive e focalizza in una costellazione di “motivi” molto precisi: il movimento e la sua (ri)produzione1 e la questione del lavoro, relativamente alla lettura dell’opera di Losano; il simbionte tecnologico per quanto concerne, invece, il riferimento del filosofo in merito al lavoro di Longo.

Andando poi avanti nella lettura, soffermandoci sui titoli dei vari capitoli: la protesi; il lavoro e la mano; dal corpo all’automa; dall’impulso all’intenzione; la memoria e la macchina, veniamo subito a notare come la progressione del ragionamento si muova verso il tentativo – a nostro opinione riuscito – di comporre un “paesaggio concettuale” abbastanza nitido e stratificato dell’argomento in questione, e nello stesso tempo si sforzi di definire con precisione l’ essere – un uomo, una macchina, un automa etc. – solo in quanto “relazione” e “effetto” tra un determinato intreccio di pratiche, declinate in forme, ritmi e intensità diverse.

Nel libro, la chiave di volta per una lettura feconda è la comprensione del concetto di protesi. Che cos’è una protesi? Scrive Sini: ‹‹la parola ‹‹protesi›› viene infatti da due verbi greci. Protithemi, che significa: metto innanzi, presento, espongo, assegno. Prostithemi, che significa: pongo appresso, accosto, aggiungo, convengo, aderisco2››.

Da qui allora egli riesce a dis-solvere la relazione tra corpo e azione in un efficace ragionamento, in una sinergia che vede il corpo in azione formare la figura – concettuale – della “protesi” : unica via tale da far percepire il corpo come raddoppiato in sé e per sé, come mezzo e come strumento. O meglio, secondo la divisione di Husserl, come corpo vivente (Leib) e come corpo cosa (Körper).

In seguito, un’altra importante e illuminante distinzione viene dalla focalizzazione che l’autore fa della differenza tra segno e segnale, in rapporto all’uomo: in sintesi, in una comunità linguistica, dove la condivisione del fare è uguale alla condivisione del sapere, il segno significa, veicola significati – è il medio del sillogismo aristotelico – mentre un segnale sostituisce senza rappresentare – è nello statuto del gesto. Ma, come dice il filosofo, ‹‹il punto è che il significato ‹‹anima››, cioè muove, il significante, in base a un fare comune. È questo ‹‹fare comune›› il senso del significato, ovvero ciò che dà senso al significato, consentendogli, tramite il significante, di significare3››.

Nel capitolo due, il lavoro e la mano, l’interesse si focalizza sulla significativa variazione tra lavoro e immediato, cioè tra uomo e animale non razionale, cioè tra ciò che non lascia “resto” e ciò che produce resto, cose (materiali e non solo), “rappresentazioni”.

Il lavoro, negazione dell’immediatezza dell’essere in azione, è conoscenza – ci dice Sini – e ci dice anche che ogni conoscenza è un lavoro. Da qui in poi l’uomo camminerà verso la ri-produzione di se stesso allora, e così facendo, inizierà la creazione di “resti” che fungeranno in seguito da “protesi”, ideologiche e conoscitive, che lo accompagneranno da sempre in quella che sarà poi la creazione della sua storia. Dato che la prima protesi, in assoluto, per la storia dell’uomo, è il “nome”. Cioè il linguaggio. Che serve fin da subito a mediare, e cioè a rappresentare, il resto non inquadrabile nel senso: la visione della morte.

Inoltre c’è da aggiungere che il “resto”, o meglio ogni resto, retroflesso come l’effetto dell’azione lavorativa, nelle pratiche della vita di ognuno iscritte dentro il sapere umano, diventa il primo automa, ‹‹un movimento ‹‹automatico›› il cui doppio o raddoppio è appunto l’uomo4››.

Sul tema della mano invece il discorso di Sini si fa storiografico, tracciando in rapida sintesi l’evoluzione della mano “umana”, accordandola a molte prove e alcune suggestioni. Fino a focalizzare la specificità della struttura della mano dell’uomo, nel quale sono iscritte, originariamente – cioè nel corso della sua evoluzione letta a ritroso e andando indietro nel tempo – i passaggi dell’azione differita dell’uomo che ha, dalla sua comparsa, creato resti e dunque lavoro.

Il capitolo tre è senza dubbio tra i più interessanti. Qui il filosofo espone i quattro momenti in cui un corpo, a seconda dell’azione che lo investe e di quel qualcosa di sé che si espone, si separa e, retro-flettendosi, da poco a poco vita al tema della mano – protesi per eccellenza del lavoro dell’uomo – e ai suoi saperi.

Il corpo in azione è il principio. Dove ricettività, passività e attività non hanno “stacchi” interni nella loro articolazione ma sono correlati in maniera fluida, come nell’animale o nel bambino. Qui, l’azione, non dipende né da soggetto né dall’oggetto ma si può dire che viene dal mondo anche perché, sfruttando un gioco di parole che può essere efficace, viene al mondo: in forma di figura e attiva, atta cioè a compiere azioni e a integrarsi in una sequenza di situazioni.

Il corpo strumento. Questo momento implica una attività somatica vivente, e cioè una vera e propria evoluzione esosomatica tale da dare la percezione del corpo vivente attivo e di una origine “interna” della sua azione strumentale esterna, gettata o espressa fuori.

Il corpo protesi è invece tale perché accade un trasferimento esterno su un supporto, che fungerà da “rappresentazione”, cioè da “segno”, del corpo stesso. È doveroso qui citare ancora una volta Sini, ascoltiamolo: ‹‹l’aprirsi della ‹‹rappresentazione›› è nel contempo l’aprirsi del mondo del lavoro e in particolare del lavoro della conoscenza […]. In sostanza dobbiamo dire che è a partire dall’azione retroflessa del supporto che ‹‹fa segno›› che si origina l’azione della mente, e non, come spesso si dice e si crede, viceversa. […] Alla radice del lavoro incontriamo il linguaggio, cioè quella prima protesi che identificammo col nome. Dicendo ‹‹linguaggio››, ‹‹nome››, o ‹‹verbo››, sappiamo che non dobbiamo fraintendere. Oggetti così isolabili e qualificabili appaiono ovviamente in figure assai più tarde della espressione e della sapienza linguistica. All’origine dobbiamo sforzarci di immaginare un progressivo lavoro di stacchi e di retroflessioni che coinvolgono in sinergia le dinamiche del corpo, del gesto, della espressione; e poi la manipolazione, i segnali articolati della voce, la cooperazione strumentale, la comunicazione intersoggettiva; dobbiamo immaginare cioè una sorta di ‹‹scrittura›› della esperienza in cammino che dà vita a ‹‹incisioni›› di segni sui loro specifici supporti (le mani, il volto, l’intero corpo in azione e i suoi prolungamenti esosomatici)5››

Oltremodo c’è da aggiungere in questo caso una specifica, che riguarda la nozione di “supporto” nella scrittura: essa è infatti correlata alla protesi, al linguaggio come protesi, perché il supporto di scrittura può essere sia produttivo (cfr. tatuaggi etc.) che ricettivo (cfr. pellicola impressionata etc.). Però, occorrerebbe ravvisare come questa “ricettività” sia estendibile al mondo intero, come se per ogni sua singola parte potessimo parlare di “protesi ricettiva”: luogo da cui si segnalano e si emettono i segni degli eventi del mondo, degli eventi che ogni volta fanno il mondo. E tutto questo può ben farci affermare come l’idea di un corpo percettivo può essere una logica declinazione dello stesso corpo protesi.

Parlando invece del corpo automa facciamo un salto verso un chiaro punto di non ritorno. Questi è, a tutti gli effetti – e qui sta la grande forza del pensiero fulminante di Sini – una vera e propria protesi. Ma una protesi attiva, semovente, esterna. Dove l’azione è interna alla protesi (questo è l’evidente eppure sempre nascosto dark passage).

Sostanzialmente, in questo caso, il nesso tra agente e strumento esosomatico è spezzato, tanto che si può dire contestualmente che l’automa si muove da sé, perché possiede in sé il proprio principio attivo di motilità. Tanto che, estremizzando, si può dire questo: cioè che è in esso che viene reso esterno, e perciò estraniato, il “progetto”, cioè l’azione del medio aristotelico, cioè un vero e proprio “progetto dell’azione”. Il quale, in seguito, tramite un passaggio di vera e propria ideazione grafica subirà l’ultima modificazione struttural-funzionale: andando dal suo essere esosomatico all’essere automatico, dove il programma stesso incarna il lavoro e la protesi viene resa completamente esterna. Tanto da far dire che l’automa, in fin dei conti, può essere considerato come un supporto di scrittura relativo a progetti automatici, che segue in determinato programma.

Ragionando poi a partire dal celebre zenoniano paradosso con soggetti Achille e la tartaruga, Sini arriva poi a focalizzare delle fondamentali riflessioni sul mezzo e sul fine nel corpo automa: ‹‹ogni parte strumentale consta, nella sua natura analitica, di parti componenti teoricamente infinite. Infatti le parti componenti sono in realtà principi, o unità, di scomposizione, non ‹‹cose››. Assumere le parti componenti come parti ‹‹reali in sé›› è un tipico e molto diffuso fraintendimento. Si ragiona come con i fotogrammi di un film: il movimento lineare della macchina ricostruisce l’impressione del continuum dell’azione vivente; questa impressione, nella sua efficacia soggettiva, convince allora che anche nella realtà ‹‹naturale›› le cose siano fatte di (foto)grammi parziali e atomici. Per questo ci si poté illudere di risolvere il problema mimetico dell’automa meccanico: fornire l’esatta impressione di un movimento continuo e spontaneo. In conclusione: la nozione di fine intenzionale comporta la nozione di strumento, mezzo, organo: dove non c’è un fine, non c’è neppure un mezzo. Ma ciò che è strumentale è necessariamente analitico (non sintetico), è parcellizzato (non continuo). Quindi il mezzo è inerte, non semovente. Sicché definirlo ‹‹automatico››, come sappiamo, è ambiguo: non si muove affatto da sé. Piuttosto si intende dire che non è libero di modificare la sua azione, che la sua azione è un prodotto di automatismi6››.

Diverso, fatalmente diverso, è invece il caso in cui c’è un fine agito: consumato nel flusso e nell’ “entelechia” dell’azione naturale. Quell’azione che significa immediato e che per essere non ha bisogno di essere… intelligente. Perché ha il proprio fine, come detto, in sé stessa.

Il discorso sul mezzo e sul fine viene consumato radicalmente nel successivo e penultimo capitolo dell’opera. Qui Sini riprende le due polarità, scompaginando i fili del ragionare comune. Difatti seguendo il suo percorso risulta chiaro che solo se c’è la presenza di un fine allora c’è anche lo strumento, il mezzo: ma risulta ugualmente chiaro che la nozione di fine implica una distanza, per fare ciò che è stato progettato o arrivare dove si deve arrivare. E, rovesciando le cose, si potrebbe anche dire che, senza distanza, non vi è fine, almeno com’è nella sua accezione dentro i parametri dell’esecuzione di un lavoro, cioè di una azione mediata. Viceversa il medio che misura la distanza non ha fini, e non è un fine a sé, perciò è infinitamente divisibile al suo interno ed è fatto di distanza, di spazio da distanziare, poiché è un segno che significa – incarna, rappresenta – l’assenza del fine stesso. Così che alla fine solo nel paradosso dell’ “infinito” che distrugge il razionalismo del reale e predispone all’azione immediata il medio e fine possono consumarsi. O dissolversi l’uno nell’altro.

Ma ovviamente, come scrive l’autore in proposito, tale conformità del mezzo col fine è ‹‹destinata a scomparire nella catastrofe dell’evento che fa tutt’uno con la vita in azione7››.

La vita non viene allora tradotta allo scopo di sopravvivere ma viene restituita al suo essere senza scopo e solo per questo in cammino, viva soltanto nell’atto di camminare, dato che voler assegnare uno scopo a un qualcosa significa voler “esporre” tale cosa alla transitorietà del medio, e quindi alla deperibilità della materia del corpo.

E aggiungiamo: con la nascita del medio in quanto “protesi rappresentativa” si hanno le prime distinzioni tra coordinate spazio-temporali (il qui e il là; l’ora e il non ancora), tanto da formare, a differenza del corpo in azione, una distanza che traduce l’azione stessa in intenzione, cioè una pratica che legge l’azione distinguendosi da essa.

O meglio, si è un corpo agente nell’avere l’azione a distanza, che rende soggetto il corpo e agente cosciente di essere tale.

Andando avanti nella lettura, il filosofo puntualizza in un passo molto discreto e decisivo un passaggio importante e centrale che si collega a un preciso filone aurifero di ricerca filosofica.

Parlando di intenzione e di scopo e della loro non comunicazione per la rottura della continuità contemporanea del circolo dell’essere in azione, Sini ci indica come queste due nozioni hanno prodotto due peculiari fantasmi, ovvero dei sogni ad occhi aperti: la cosa in sé, ovvero lo scopo e l’anima, ovvero l’intenzione. Mentre altra è la realtà, perché è l’azione in quanto tale a definire per riflesso l’agente: che si stacca della circolarità dell’essere in azione per prendere coscienza della sua posizione nei confronti dell’azione stessa che l’ha toccato.

Affrontati e discussi quindi i temi del movimento in rapporto alla protesi, si può arrivare a un prima focalizzazione che rivede drasticamente il senso della definizione di automa: concepito come un mechané, simula un movimento originario – l’essere mosso da un “fantasma” che rappresenta le inquietudini che muovono il suo creatore – che diventa una sorta di trascrizione spazializzata del movimento stesso.

Una cosa ben diversa dall’essere in azione del vivente.

Come analizzato dall’autore, se si prende come riferimento per l’essere automa l’azione del muoversi da sé, gli unici a poter essere definiti tali sono il dio o l’animale, gli unici “corpi” ad essere, in sin-ergia – in un processo perciò di sintesi – col mondo, nell’azione che compiono. Questo perché l’uomo emerge con la nascita e lo sviluppo che egli stesso fa della protesi, essenziale a lavorare, e dunque a conoscere, il vivente automa. E, come in un necessario chiasmo di cui la storia ci è testimone, nell’ “interiorizzare” e “parcellizzare” le proprie protesi, l’essere umano sente di essere lui l’automa, colui che si muove da sé. In quanto interiorizza il movimento.

E, dopo tutto ciò, alla fine, la memoria e di macchina. L’adagio diventa subito chiaro: l’automa è la memoria, cioè la sua capacità di memoria, cioè la sua cultura: una memoria che lascia una sorta di scrittura su una protesi esosomatica, come già detto. Nella macchinazione – ovvero nella pretesa – di ripetere l’origine, di toccare la creazione di un movimento originario. Ma questa è una memoria che non appartenendo al divino o al regno animale, è fuori dall’essere consumata nell’azione, perché è una memoria che lavora e conosce.

Più nello specifico, più in profondità, Sini parla di automa come dell’umano in cammino. In esso e a partire da esso concepiamo il nostro essere, cioè la nostra differenza. Fuori da ogni considerazione che lo legga come in-umano: perché di in-umano, cioè di corpi-in-azione che permangono tali nella loro tensione energica, ci sono solo quelli inerenti al divino e quelli inerenti al bestiale, che aprono a mondi che ci rimandano immagini memoriali dell’origine. Sempre di là da venire, sempre così distante.

Mentre l’automa, come già detto, è umano. In quanto dentro le pratiche, prodotto e produttore di pratiche, in quanto protesi, in quanto avente movimento interno come resto staccato dal resto… esso non è originario. E questo è il punto che illumina la questione.

‹‹Come protesi intelligente siamo tutti potenzialmente immortali: immortali in a long run, direbbe Peirce. Il sepolcro invece è sempre vuoto: non custodisce il ‹‹corpo››, perché la protesi del nome, che, come abbiamo visto, scandisce e stabilisce la differenza del corpo, è appunto esosomatica. È forse questo il ‹‹corpo immortale›› dei cristiani, cioè di coloro che constatarono o credettero di constatare che il sepolcro era vuoto e ne diffusero la fede? Se il ‹‹senso›› di quell’evento diventasse appunto questo, il cristianesimo e il destino della tecnica verrebbero così a coincidere, in modi che solo il futuro potrà esplicitare, ma non senza confronto con i grandi maestri del nulla dell’Oriente.

L’intelligenza della vita porta con sé il sapere della morte: ecco il segreto disvelato dell’automa. Il sapere ‹‹combatte›› la morte pro-vocandola. La sua scrittura circoscrive da sempre il destino dell’umano con tutti i suoi dei8››

E qui, nell’intreccio di pratiche che formano l’umano nell’automa e l’automa nell’umano, scopriamo l’intreccio fondamentale, la sapienza antropologica della mortalità della vita attraversata e circondata dall’immortalità dell’evento.

Note

1 Dall’introduzione estrapoliamo questa frase interessante: ‹‹Definizione di Losano: l’automa è ciò che cerca di riprodurre le sembianze animali nei due aspetti più inimitabili: il movimento e il suono››. In C. Sini, L’uomo, la macchina, l’automa, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 10

2 C. Sini, L’uomo, la macchina, l’automa, cit., p. 41-42

3 C. Sini, L’uomo, la macchina, l’automa, cit., p. 46

4 C. Sini, L’uomo, la macchina, l’automa, cit. p. 68

5 C. Sini, L’uomo, la macchina, l’automa, cit. p. 82-83

6 C. Sini, l’uomo, la macchina, l’automa, cit. p. 88-89

7 C. Sini, l’uomo, la macchina, l’automa, cit. p. 93.

8 C. Sini, L’uomo, la macchina, l’automa, cit. p. 124.

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