Ottanthamsun
Giovanni Papini
Pochi giorni fa – il 4 agosto 1939 – Knut Hamsun ha compiuto ottant’anni. Da ogni parte del mondo, e specialmente dalla Norvegia e dalla Germania, son giunte parole d’affetto al gran solitario che fu poeta anche in «prose di romanzi».
Sarei contento se anche dall’Italia partisse un saluto all’autore di Fame e di Pan. Gli giunga, almeno nell’intenzione, l’amorevol pensiero d’uno scrittore italiano non sospetto davvero di viziosa condiscendenza verso la tribù dei romanzatori.
Ma Knut Hamsun è uno dei più amati amici ch’io abbia avuto in gioventù e gli son rimasto fedele in quel tanto di gioventù che son riuscito felicemente a salvare fino ad oggi.
Non ho mai visto Knut Hamsun, non gli ho mai scritto, ed egli, probabilmente, non conosce neppure il mio nome. Ma che importa? In quella divina approssimazione dell’amicizia perfetta che si manifesta soltanto in gioventù gli elementi sensibili contan poco. Il grande amico Knut mi ha confidato i moti e i rapimenti della sua anima appassionata attraverso i suoi libri e io gli ho voluto bene per le sue insofferenze e per le sue baldanze, per le sue irrequietezze di barbaro e le sue sconsolatezze di esule, per le sue fughe dal mondo e per i suoi ritorni all’umano, e anche, se devo confessar tutto, per quel suo gusto polemico delle risoluzioni inaspettate e inesplicabili, degli atti gratuiti e irrazionali, compiuti da certi suoi eroi, come dicono i tedeschi, problematici. In quelle stravolte creature di Hamsun sentivi una gentil tenerezza anche nella stravaganza, un crepitio d’allegrezza anche nelle ceneri della povertà, un amore infinito per tutti gli esseri creati da Dio anche nell’abbandono della secessione o reclusione volontaria. Sono, spesso, eroi poco socievoli e pochissimo rispettabili ma più deboli che sciocchi; più fanciulleschi o maniaci che criminali. Stranissime misture di bene e di male, di sublime e di ridicolo, di nobiltà e di viltà, come siamo un po’ tutti, ad eccezione dei santi. Ma per me Knut Hamsun era soprattutto un poeta, ed un grande poeta. Laconiche e leggere sono le sue descrizioni ma gli basta un accenno, una immagine, una nota di colore o di musica per trasferirti all’improvviso in quel sentiero di bosco in fiore e in succhio, su quel molo umido e fumoso, in quella gelida stanza di locanda per gente ammodo, in quella strada eternamente vedova di luce e di silenzio, su quella riva deserta e solatia dove soltanto il volo remoto dei gabbiani ricorda la vita al fuggitivo sognante.
Knut Hamsun è stato, per me, il primo rivelatore della natura del Settentrione. Né l’Edda né il Kalevala mi avevan fatto sentire lo splendore e il calore di quelle estati nordiche, brevi ma inebrianti, che Dio concede ai suoi figlioli di lassù come una grazia solare tra l’una e l’altra notte di tenebrosa e tempestuosa vernata. Nei libri di Knut Hamsun si respira l’aria ventosa delle primavere, ma soprattutto si gode il tepore delle redentrici estati silvestri e marittime, i mesi della universale resurrezione, cari ai poveri, agli errabondi, agli innamorati. Si sente, in quelle pagine, l’uomo che ha passato lunghe ore seduto sull’erba nuova, appoggiato a un fusto tiepido, ad ascoltare il dialogo aereo degli uccelli in amore, il ronzio degli insetti dorati ed effimeri. l’armonioso fluire dell’eternità nel tempo. Si sente l’uomo che ha trascorso intere giornate a contemplare la nascita e la morte dei nuvoli nell’indifferente vastità del cielo e il commosso scintillio del giovane mare, che non riesce ad essere turchino come da noi ma ha tutte le delicatezze e le brillantezze del ferro e dell’argento, dello smeraldo cupo e della perla viva. Un tale amore estatico, immenso e perenne, per la calda e libera natura ha fatto dire a qualcuno che Knut Hamsun è un pagano, un sopravvissuto fauno del Nord. Ma la nostalgia della contemplativa felicità edenica non può essere piuttosto cristiana? Non era più vicino a Dio l’Adamo del giardino, prima della colpa e del castigo, mentre godeva il riposo e la bellezza della creazione, piuttosto che il borghese moderno, condannato alla paurosa avidità, all’inanizione dello spirito, alla stanchezza e all’invidia? Knut Hamsun è un’anima generosa, misericordiosa. amorosa, cioè piuttosto cristiana che pagana. Talora. per simpatia di poeta verso i vagabondi, i deboli, i lunatici, gl’infelici dei suoi libri, spinge l’indulgenza finc alla complicità e la compassione fin quasi all’apologia In quei momenti non possiamo davvero seguirlo.
C ‘é in lui un residuo di quell’istinto, divenuto teoria epidemica con Rousseau, che porta alla repugnanza verso la polis mediterranea e alla diffidenza verso l’ordinata civiltà. Egli ha troppo spesso una visibile predilezione per coloro che il Vallès chiamava i «refrattari» e il nostro dimenticato Giuseppe Aurelio Costanzo «gli eroi della soffitta». Si direbbe, tavolta, che in Hamsun risorga qualcosa di un antico violento scatenato venturiero vichingo: un vichingo addolcito e in piccolo formato, da predone degli oceani ridotto a ladracchiolo di sobborgo o tutt’al più a Casanova di fattorie.
Ma quando si pensi all’odioso farisaismo e scimmiottismo di quella società dell’Ottocento in mezzo alla quale si formò, per reazione e contrasto, il giovane genio di Hamsun, si comprendono, se anche non si giustificano le sue simpatie per i nomadi, i non conformisti e franchi peccatori. Di rado egli filosofeggia ma non bisogna dimenticare che appartiene alla stessa schiatta di Kierkegaard e di Ibsen, scompigliatori di compromessi e di menzogne, e che non per nulla è concittadino reale di quel faustiano Don Chisciotte boreale ch’è.
La maestà della legge non sarebbe così solenne se non dovesse in perpetuo fronteggiare il fermento delle passioni. E la saggezza della ragione non sarebbe così profonda se non dovesse a ogni istante resistere alle tentazioni della pazzia. Knut Hamsun è stato un benevolo e arguto che ha portato freschi refoli di brezza barbarica nell’afosa Europa dell’ultimo ottocento e del primo Novecento.
E ora è giunto a ottant’anni e perfino i giovani si son ricordati di lui. Per farsi perdonare il genio non ci sono che due modi: l’estrema vecchiezza o la morte.
Ma Knut Hamsun è ancor valido e ben dritto e non teme la morte. Da quando, giovanissimo, emigrò in America e menò per qualche anno la vita dei disperati, non ha avuto paura di nulla. Ma gli piaccion poco le ricorrenze, le solennità, le cerimonie, e questi giubilei che paiono funerali in anticipo.
Lo vedo, con la fantasia, nelle sue stanze tranquille, nel suo giardino ombroso che non teme ancora l’autunno, in quella sua villa sulla costa selvaggia della Norvegia, della sua patria abbandonata e ritrovata. ch’è orgogliosa di lui. Tutti i festosi messaggi dell’anniversario furon messi in ordine e dapparte dai familiari. Nessuno manca: capi di Stato, presidenti d’accademie, direttori di riviste, amici dell’ultimo generazioni, confratelli illustri, ammiratori ignoti e lontani: non manca nessuno. Knut Hamsun ha voluto rispondere a tutti – il vecchio salvatico è anche un gentiluomo – e ora è un po’ stanco. In fondo in fondo, penso, sarebbe stato meglio che non si fossero ricordati di lui e dei suoi otttant’anni.
La gente crede ch’egli sia felice. Ma no, egli non può essere felice e non sarà felice mai più. Knut Hamsun è sereno, perché nessun vero poeta può essere intenebrato dalla vita, ma non è felice e non può essere felice. Ha per compagne fedeli l’ironia e la malinconia. L’ironia è l’ultima e più benigna forma di critica verso il genere umano. La malinconia è l’unica forma di gioia che può permettersi colui che non può esser felice. E perché mai dovrebbe essere felice? Forse perché tanti personaggi e tanti oscuri si son rammentati di lui e della sua vecchiezza?
Per anni e anni, egli pensa, offrii agli uomini lo spettacolo della miseria, il segreto dei miei amori, la festa delle mie visioni, l’esperienza delle mie disperazioni, l’entusiasmo delle mie scoperte, insomma la più ricca essenza dell’anima che, secondo la Scrittura, è sangue. Ma quando li chiamavo non vennero, quando fui solo non mi cercarono, quando avevo fame d’amore mi dettero appena qualche spicciolo di ammirazione. Credon forse di saldare il conto coi loro telegrammi?
E fossi almeno sicuro, in me e per me, d’aver creato l’opera tutta fiore e fiamma, che sognavo nella mia gioventù, che vagheggiavo nella maturità, che non ho potuto condurre a fine nella vecchiezza! Chi potrà rendermi, ormai, le superbie dell’oscurità, il palpito della resurrezione estiva, il primo sorriso dell’amore corrisposto?
Knut Hamsun ha cercato sempre la solitudine ma ora, veramente, si sente un po’ troppo solo nel tramutato mondo. Ha ottant’anni, ha visto per due o tre volte cambiar la faccia del mondo. Ha visto morire a poco a poco i titani dell’età che fu sua, che avevano vegliato sopra la sua gioventù e si frapponevano tra lui e la morte. Dove sono i suoi coetanei? Dove cercherà i suoi pari? Vivono ancora due scrittori famosi che hanno varcato, o stanno per raggiungere, l’ottantesimo anno: uno in Inghilterra e l’altro in India. Ma sono lontani e non son fatti per lui. Egli non sarebbe abbastanza faceto e fuambolo per Bernard Shaw né abbastanza patetico e teosofico per Tagore. Egli è veramente solo, lassù nella sua Norvegia, solo col suo mare schiumoso e muggente, solo nelle sue boscaglie tumultuanti che cantano con tutte le foglie la gloria del sole, eternamente solo anche in mezzo alla moltitudine degli ammiratori. Knut Hamsun ha ottant’anni e non è felice. Ma neanche ha rimorsi. Ha dato un po’ di gioia agli uomini, ha riacceso qualche stella nel cielo della poesia, ha distillato un bel vino di letizia da tutte le sue tristezze. C’è, infatti, chi lo crede felice. Per non rattristare chi gli vuoi bene, Knut Hamsun sorride, e quel sorriso illumina le sue severe fattezze di vecchio, e risplende a lungo, simile all’ultima doratura del tramonto sul più alto abete della foresta.
[ Tratto da Santi e poeti, Vallecchi, Firenze 1948, pp. 199-208]
ISSN:2037-0857
E ora è giunto a ottant’anni e perfino i giovani si son ricordati di lui. Per farsi perdonare il genio non ci sono che due modi: l’estrema vecchiezza o la morte.
Ma Knut Hamsun è ancor valido e ben dritto e non teme la morte. Da quando, giovanissimo, emigrò in America e menò per qualche anno la vita dei disperati, non ha avuto paura di nulla. Ma gli piaccion poco le ricorrenze, le solennità, le cerimonie, e questi giubilei che paiono funerali in anticipo.