7,14, 21… 28?
Marco Dotti
Quanto l’avremmo capita, la storiella del re di Sassonia che Antonio Rezza racconta alla fine di 7, 14, 21, 28, se, appunto, l’avesse solo raccontata. Ma a raccontarne, di storielle, ce ne sono già troppi. Quanto l’avreste capita, dice Rezza al suo pubblico, «se avessi inzuppato la trama nell’ordine delle vostre aspettative. Se avessi inzuppato la barbetta nella merda della memoria istituzionale». Il riferimento è piuttosto esplicito, e vale da sé a segnare il campo. Già, ma quale memoria? Perché il problema dello spettacolo (loro, Rezza e Mastrella, parlerebbero forse di problema che si fa spettacolo, e di spettacolo che è a sua volta un problema, etc. etc. etc.: carica unica e sempre dissacrante, la loro) è tutto qui: come si può anche solo pensare a una memoria dei morti, mentre si sta compiendo un massacro?
E il massacro è quello del ragazzetto, stritolato sull’altalena, da un padre separato costretto da un tribunale a vederlo solo il sabato. Perchè «è il tribunale che ha deciso che io e te ci possiamo incontrare solo il sabato», dice il separato al figlio. Ma, soprattutto, «è il tribunale a decretare che io il sabato non c’ho un cazzo da fa’». E infatti il padre inchioda il figlio all’altalena della giostra. Ma il massacro è anche quello del violentato, preso in carico da un sistema sanitario poco assistenziale e forse pure poco sanitario, che lo cura con palline Zigulì e supposte che beffardamente completano l’opera dello stupratore. Il massacro è quello delle coppie in crisi che si sposano comunque, e proprio perché in crisi cercano “forme nuove” dentro e poi fuori e poi di nuovo dentro le altalene dei tribunali: qui Rezza è travolgente, con la sua carica acida, nel devastare in un delirio combinatorio ogni discorso su matrimoni, Pacs, Dico, unioni, fatti e fattoidi. Il problema è a monte, è il legame sociale direbbero i sociologi. Solo che questo legame, appunto, ci stritola nel sonno e conduce a una (socialissima) morte bianca.
C’è poi la macchinetta a cui lavora il precario annichilito dal «vocione dell’informazione bastarda». Precario che in fabbrica non sa farsi sentire, anzi proprio non parla, sovrastato dal vocione. Mentre a casa, in fase di spurgo umorale sempre dal suddetto “vocione”, lo attende una moglie in ansia da shopping e un figlio che chiede, chiede e chiede. E il precario scoppia. Poteva scoppiare prima, davanti alla macchinetta e davanti all’informazione, ma no, scoppia dopo, davanti al figlio che chiede. Scoppia dopo. Dopo, sempre dopo, come la cultura che “racconta” e mai anticipa, appunto: niente soldi? Niente cultura. Niente soldi? Basta memoria. Ma la “cultura”, i più, la fanno coi morti, senza essere in grado di farli gridare. «E come ve la fate, ora, la Madama Butterfly, senza un euro, parassiti di Stato?», chiede Rezza. Come ve la fate, nudi? Rezza – che non a caso è seminudo e poi nudo in scena – osserva il crollo di un mondo che non è mai stato integralmente il suo (teatro e oltre, ovviamente), ma non ride né deride. Fa male, a volerlo intendere davvero. Lo osserva e osserva pure le faccette incredule (come la barbetta di cui sopra), incapaci di coltivare altro dal proprio orticello di contributi e lagnanze. Ma i contributi si chiedono (e a volte pure si mendicano, in una bulimia orizzontale che Rezza descrive bene nella sua apocalisse semiludica), mentre chi fa ricerca, appunto, cerca. Cerca , però, anche il ministro (della ricerca, nomen omen), che nella vita non fa altro che “cercare” il proprio fazzoletto bianco e finisce per trovare un massacro di precari infilandoì il fazzoletto in un aereo in avaria. (Immagine neppure troppo distante dalla tristemente nota ingegneria istituzionale bipartisan). Rezza e Mastrella hanno qui raggiunto il loro grado di totale immaturità, se immaturità non significa mettere sempre e comunque il dito nella piaga ma, soprattutto, andarsela a cercare, la piaga. Cercarla là dove tutti la vivono e, proprio per questo, nessuno la vede. Cercarla qui e ora. E non è facile: ci possono riuscire i trickster. Forse. Forse perché qui, purtroppo, sono ancora in troppi a credere che contino le idee, e solo quelle…
Splendido corpo in movimento, Rezza in scena è però anche un corpo in gabbia, incastrato nelle corde e nelle macchine sottili – che qui si sono fatte minimali – di Flavia Mastrella. Ultima via di fuga: una bestemmia. Si ride, certo, guardando e sentendo Antonio Rezza in scena. Si ride, anche quando impreca nel suo «spettacolo di sacramenti». Ma stavolta no, non lo si può proprio liquidare con un sorriso.
PS
Mi tornavano in mente (chissà, anche qui, per quale eccesso di memoria) i versi di un poeta romeno, post-89: «e se anche morirò di buona morte, potrete dire che mi hanno assassinato, perché sono nato con la corda al collo, tratta con forza da un’ignota mano». È davvero diversa la condizione dei precari (di vita e di fatto) di 7, 14, 21, 28? Davvero diversa la nostra condizione?
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