Il dolore del segno. Pasolini e la poetica delle stimmate
di Aldo Pardi
Un’esperienza poetica è frutto di una variazione tattica che attraversa il terreno tormentato in cui i segni lottano. Si produce tramite un posizionamento all’interno di un contesto, quello del significante, di cui parole, immagini e forme sono ingranaggi e motrici. La direzione lungo la quale muove è dettata dal luogo in cui si trova ad operare, dalla collocazione rispetto agli altri elementi linguistici e culturali, e, per stratificazione, al di là della connotazione significante, in relazione a tutte le altre pratiche che costituiscono il reale. La valenza di un testo poetico è funzione della distanza che ne misura i rapporti con gli elementi segnici insieme ai quali condivide un medesimo spazio di produzione sociale. Per “valenza” intendiamo il ruolo che va a svolgere in una determinata, specifica seppur complessa, organizzazione: come v’interviene, assumendo quale funzione, quale rapporti di potere vi esercita, vale a dire come lavora la materia del linguaggio, come risponde ad una domanda, imposta da una congiuntura singolare, precipitando molteplici operazioni di montaggio semantico a carico di una pluralità di aggregati individuali. Sono tali meccanismi di produzione significante a definire le gerarchie, di contenuto e di forma, esistenti nel dominio della parola.
Non è dunque la poesia l’andamento musicale ed iconico di un’individualità che si fa soggetto, voce profonda di un’entità agente che rende se stessa il referente delle proprie proiezioni, “patendo” la sua interiorità evenemenziale, lo spessore ontologico di cui è ipostasi e simbolo. Il procedere introverso della poesia, il suo “dire “Io”, anche quando ne estingue la possibilità, è un effetto, la risultanza di una particolare catena di produzione linguistica che elabora significati. Essa mette al lavoro, negli ordinamenti di cui si dota, le disgiunzioni che ne dividono le filiere – come quelle di ogni altra pratica – tra dominanti e dominati. La poesia è una combinazione singolare, scaturisce da un articolato processo di fabbricazione che va ben oltre l’ambito circoscritto dal verso “lirico”. Assemblando segno, ritmo, forma e immagine, vengono prodotti nuclei soggettivanti a base figurale. La poesia è l’insieme di gesti e sguardi con cui un significante–Io, un segno-soggetto arriva a darsi come modulazione senziente. Generato da operazioni che disarticolano frammenti semantici, si offe come una costante, inconclusa costruzione di configurazioni inattuali dell’ipseità, le cui strutture e direzioni, sotto forma di variazioni affettive, sono allestite da concatenazioni di segmenti testuali, iconici, musicali. La poesia pratica i tipi egotici, le escursioni emotivo – personali, di cui è la fabbrica.
Come si costruisce un orizzonte di soggettivazione, come trova la sua collocazione, come connette meccanica espressiva e funzioni significanti: in che modo se ne caratterizza la forza di agente storico di fronte al contesto segnico di cui partecipa, alle sue gerarchie? Questi sono gli snodi intorno ai quali si combinano le componenti del testo poetico. Convergenza di elementi preesistenti, esso è un’operazione che scaturisce dai rapporti di forza che dividono i segni per unirli in formazioni organizzate. Il conflitto scinde i significanti, estraendoli dai contesti di cui facevano parte e spostandoli, assoggettati ad un regime segnico dominante, in altre filiere di produzione. Queste deviazioni sono decise dalla capacità di un aggregato di prevalere, dai rapporti di forza che arriva ad imporre. Sono decisi dalla capacità di un organismo semico di sottometterne altri, alleandosi con le formazioni vincenti in altri ambiti storici. La poesia si forma agendo il più generale agonismo esistente tra i materiali significanti (concetti, immagini, contenuti valoriali, altre figurazioni sensibili non elaborate, ecc.): affermandosi e vivendo della sua autonomia, o, viceversa, essendo inglobata in corpi espressivi estranei. Il posto della poesia rispetto alle altre pratiche segniche, il connotato preso dalle proiezioni tetiche che ne pongono i movimenti testuali, è il segno della sua costituzione storica, il risultato di un confronto che la costringe sempre sulla terra lacerata tra libertà o sottomissione. Come ogni pratica, il contesto dei segni è caratterizzato da rapporti di potere. La dominanza è la motrice che li aggancia in configurazioni regolate, scisse e pure salde nella morsa che incorpora elementi dominati a significanti prevalenti, mettendoli al lavoro. In ambito capitalistico è il segno “denaro” che decide forme e modalità delle catene di produzione del segno. Le posizioni gerarchiche della formazione da esso governata sono imposte dal processo di produzione semantica di cui è fautore, tenutario e garante. L’identità delle macchine poetiche è definita da questa ingiunzione esterna, vibrazione agonistica effetto delle oscillazioni telluriche con cui il segno – denaro si confronta con elementi a lui avversi, riattivando lo scontro che li assoggetta mentre produce il corpo espressivo che sagoma e controlla. Produrre poesia è un fatto politico, un momento della vicenda politica del segno, sintomo delle giunzioni che ne allestiscono i dispositivi attivati dalla miriade di fronti in cui si affrontano costrutti avversari in conflitto. La poesia, che Deleuze, commettendo uno dei suoi geniali errori, chiamava “grande lamento”[1] è la torsione di uno scacchiere strategico. Lo spasimo che l’attraversa è lo stridio che si alza dalle operazioni chirurgiche con cui il verso, disarticolando e lacerando altri corpi segnici, dà forma alla forma generando la parola sovrumana di un “Io” assoluto, o le fuoriuscite impossibili di un soggetto plurale e senza nome che si libera urlando la sua inconsistenza, franando sulle sue rovine.
È la qualità di questa contrazione, la sua collocazione rispetto al problema storico del dominio, che ne definisce capacità e senso: dove si ponga nella catena forzosa che unisce le pratiche espressive e come interagisca con essa. Spostate sul versante del segno dominante, sottoposte a un ordine del senso che le assegna voce e significato, le soggettività patetiche della poesia sono astratte dalla pressione delle forze vincenti e rese l’ingiunzione di una parola segreta ed imperativa. La totalizzazione del significante monetario, segno supremo che trae forza dall’alleanza con il processo di estrazione di valore, che domina i procedimenti del modo di produzione capitalistico generandone gli apparati, cattura il verso risuonando attraverso un Io proiettato al di là della storia, al di là della sua immanenza, per ergersi a voce dell’Essere, eco di una coscienza sapienziale partecipe dell’essenza e melodia promanante dal fondamento originario. L’ermetismo, in particolare quello montaliano, ha rappresentato questa vocalizzazione autistica di un Io perso alla sua autonomia, che disgrega la sua possibilità di dire esaurendosi in gergo pensoso, muta articolazione di una coscienza oltremondana: “…Entra la luna/ d’amaranto nei chiusi occhi, è una nube/ che gonfia; e quando il sonno la trasporta/ più in fondo, è ancora sangue oltre la morte”[2]. Non c’entra, come vuole Luperini[3], il richiamo ad una condizione concreta che il poeta prenderebbe ad oggetto restituendone le connotazioni per rappresentarne il senso intimo e essenziale. La poesia non è un’operazione teorica compiuta con l’ausilio di figure o espedienti estetici. Una poesia non è mai allegorica, se non quando è sterile, ripiegata su se stessa a risuonare delle sue parti come un accordo senza respiro. Una poesia è un organismo significante, aggancia segni – musicali, iconici, sintattici – per allestire traiettorie affettive singolari sotto forma di “ego”. Nessun rapporto incide una presunta “realtà” esterna, vista come un tutto omogeneo e compatto, su un organismo che ne riproporrebbe per metonimia la totalità assumendo esso stesso una dimensione totalizzante. La poesia è un insieme sempre particolare d’ingranaggi mossi dal conflitto e dalla sua capacità produttiva. Rispetto a questa duplice azione, attivata dal conflitto e conflitto essa stessa, le componenti prendono senso: vale a dire acquistano una funzione, un ruolo e un movimento. Non basta fare riferimento alla logica dialettica di cui sarebbe specchio fedele per fare della poesia un’opera concreta. Piuttosto, in questo modo se ne fa la serva di un “tema” già scritto, una filosofia sotto falso nome che occulta ipocritamente le sue ragioni dietro le lusinghe del gusto. Già lo è, concreta, come concreti sono i segni, materiata da quella consistenza data dall’essere fattore di produzione e oggetto di variazione. L’immanenza del lavoro poetico, la sola che ne può rispettare la vitalità, viene offesa dalle sintesi idealistiche. L’elaborazione esclusivamente intellettuale delle operazioni liriche, interpretandole come epifania di una verità universale che presiede ai corsi storici, schiaccia la pratica del verso su sterili ruminazioni introspettive. La poesia di Montale è la massima espressione, e la più colta, di una poetica che, musicazione di uno scavo metafisico, funziona per riduzione della realtà e spiritualizzazione dell’Io. Poesia quanto mai profetica, espressione esclusiva, universale e conclusa di un’affermazione totalitaria. Metri ed immagini sono “indicatori”, hanno il compito riduttivo di segnalare la distanza siderale assunta dall’Io immergendosi nelle cose per toccarne l’origine, tanto più lontana quanto meno contaminata dall’insignificanza della realtà.
Questo modo di agire la poesia nasce ben prima di Montale. Se gli attributi concettuali ne sono stati definiti da Dante, è Petrarca che ne raffina stilemi ed criteri d’espressione. Rende l’endecasillabo uno strumento di purificazione linguistica che, nell’estensione potenzialmente inesausta della canzone, riduce la lingua alla concentrazione dell’essenza. In fondo, le innovazioni metriche montaliane, espedienti per ricomporre le esplosioni metriche e contenutistiche di cui i “Vociani”, ed in particolare Rebora e Jahier, si erano resi protagonisti, non ne sono altro che ulteriori prolungamenti. Una stessa operazione li sottende, l’invocazione iniziatica che ripete rituali linguistici di elevazione continuando a concepire poesia come voce austera di un’ascetica introiezione.
Le ritmiche condensate dalla frase ermetica portano l’Io a sovrastare la vita, osservandola dal punto di vista dell’Essere. Figure congruenti con la forza generalizzatrice ed uniformante del significante dominante, la moneta, si addensano saturando i metri con il tono monocorde di una litania ossessionante. L’astrattezza che lo rende equivalente generico, la funzione di misura e attribuzione del valore con cui sancisce l’esistenza delle cose, la capacità imperialistica che gli permette di piegare ogni elemento ai suoi procedimenti, risuonano nella rarefazione metafisica dell’Io e nella sua attività “creatrice”. Essa si caratterizza per il suo carattere sanzionatorio, morale. Nel momento in cui estrinseca la preminenza ontologica dell’Io – coscienza, pone gli ordini della realtà, salva e assolve calando i versi come giudizi inappellabili, continuando l’opera di rinominazione autoritaria con cui rende il mondo metafora di se stessa ed immagine evanescente del suo essere simbolo vivente. Metri e figure “classici”, della cui “modernità” dava notizia Montale verificandone la presenza nelle nuove generazioni di poeti[4], dalla terza rima al dodecasillabo (per quanto spurio), dal sonetto alla canzone, marcano gli elementi con la forma ed il tono di una misura che si pretende diretta emanazione della Verità in nome della quale l’Io lirico emette le sue sentenze. Conferiscono loro quell’andamento enfatico, quella supponenza torva che ogni espressione che si vuole profetica rivendica come prova della sua dignità.
Anche Pasolini pratica poesia impiegando uno strumentario metrico classico. L’uso della terzina incatenata rimane suo tratto caratterizzante: “Tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo./Scelte, dedizioni…altro suono non hanno/ormai che questo del giardino gramo//e nobile, in cui caparbio l’inganno/che attutiva la vita resta nella morte./Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno//(…)”[5]. Il linguaggio “petrarchesco”, alto, sfuggente il tono medio per tendere ad una spirituale raffinatezza, ne rivela la matrice colta, così come lo spessore concettuale dell’elaborazione consapevole ed edotta di materiale bruto. Di questo Pasolini è stato accusato dalla maggior parte dei suoi critici, tra i quali Fortini[6] e Giuliani[7], per non fare che due nomi: di offrire una poesia che impiegava umili materie per trovare nella suggestione dell’idillio populistico la forza espressiva di cui non era dotata[8]; versi pretenziosi ma d’ispirazione piatta, palesata dai tic accademici mal occultati dalle appassionate cadenze veristiche. La domanda corretta da porre al progetto poetico di Pasolini, rispetto alla quale è possibile stabilirne o meno la riuscita, è un’altra. Interrogarne la rispondenza all’umanità che si dà la missione di rappresentare intera con l’esserne il canto profondo[9], significa mancarne completamente l’impianto e i movimenti. Verificata l’artificiosità della mimesis che porta il poeta ad assimilarsi al suo oggetto, fino a divenirne il vocalizzo più che il cantore, si è ancora solamente sorvolata la questione essenziale che muove la fabbrica stilistica pasoliniana. L’interrogazione che, sola, permette di aprirne lo chassis, è: dove si colloca il verso di Pasolini? Quale pratica di produzione assume come propria? Quale modello d’ipseità patetica agisce? Ossia, quale ne è il portato, figurativo come linguistico, e quale la modulazione ritmica? Quale rapporto tiene con i segni dominanti, e quale posizione assume rispetto ad essi?
“Nel tremito d’oro, domenicale/ di Valle Giulia, la nazione è calda/silenziosa: la sua innocenza è pari//alla sua impurezza. Sembra arda/di popolare gioia, ed è noia/irreligiosa che solare si sparge//sui floreali gessi e i gran ventagli/degli scalini. Non è questo/che l’atto in cui si sbriciola un’Italia//istituita, un anonimo ed onesto/atto di civiltà…(…)”[10]. È un verso che martirizza la forma, il suono e il contenuto. La terzina di endecasillabi ha la cadenza di un cuneo che si pianta su una materia d’immagini alte e miserabili. La prerogativa del giorno santo é degradata a celebrazione di un rito prosaico e volgare. Così la nazione del cui lavoro dovrebbe essere la festa é perduta alla sua dignità, alla identità civile di popolo ormai moderno. Risuonano con precisione gli accenti di sesta e di decima, ma il verso prende una battuta regolare solo in apparenza, perché l’endecasillabo cede e sfugge da tutte le parti, spostando le cesure, variando la misura per corromperne la continuità in una somma sghemba di quinari e settenari, di quaternari e senari. Uniti dal cadere lento del tono giambico, si sbriciolano in enjambements che ne staccano le cadenze bruscamente, infliggendo ai rapporti interni tra sequenze sintattiche la frattura provocata dalla rigidezza grammaticale dell’”a capo” dell’intero gruppo al genitivo (preposizione + nome). Il procedere sistematico e ordinato del verso scorre in superficie, una pellicola sottile che ne ricopre le giunture trascinata dal il carattere piano ed isosillabico degli endecasillabi. Eppure le inflessioni si scompongono, si disaggregano, si ritrovano per linee “coliche” indotte dal costrutto poetico, richiamando risonanze erompenti da scissioni che tagliano le immagini in sviluppi antitetici, trascinandole per periodi prosastici complicati da rientranze, parentesi, specificazioni, richiami. Le frasi poetiche sono trapassate da eccentricità metriche, così come la regalità o il prestigio storico di luoghi ed occasioni, di cui Roma è effigie perfetta e sfondo ideale, sono ferite dalla barbarie della miseria, dal piatto, squallido quotidiano di un popolo inglobato nel corpo che lo consuma, quello del capitale: “Ecco qui ad attestare il seme//non ancora disperso dell’antico dominio,/questi morti attaccati a un possesso/che affonda nei secoli il suo abominio//e la sua grandezza: e insieme, ossesso,/quel vibrare d’incudini, in sordina,/soffocato e accorante – dal dimesso//rione ad attestarne la fine./ Ed ecco qui me stesso…povero, vestito/dei panni che i poveri adocchiano in vetrine//dal rozzo splendore, e che ha smarrito/la sporcizia delle più sperdute strade,/delle panchine dei tram, da cui stranito/è il mio giorno”[11]. Piaghe si aprono sulle frasi: ridotte a un grado di zero di complicazione sintattica, si scuotono sofferenti delle tensioni che ne aprono la superficie. Il verso di Pasolini non si ripiega su se stesso seguendo gli effetti stranianti della metalessi, dell’ipallage o dell’iperbato, né sfrutta la musicalità della rima per tracciare rispondenze sonore che aggiungano significato al segno. Pasolini è avverso a ogni sperimentalismo, anche e soprattutto rinnovato, di stampo avanguardistico, di matrice ermetica come espressionista[12]. Solo un pervicace idealismo può sterilizzare il verso forzandolo a fluire nelle involuzioni linguistiche di un Io onnipotente che ne domini i periodi così come il suo intelletto l’essere.
Il linguaggio produce l’Io a misura dell’apparecchio stilistico che ne raccoglie i materiali e ne attrezza le figure. La rima pasoliniana è una pressione dolorosa esercitata sul fremere dei nervi del verso. L’ordine che gli viene imposto non è tollerabile, se non al prezzo di una dissonanza radicale e di un altrettanto radicale scatto d’insofferenza. Sempre cruda è la rima di Pasolini, un tocco di sonorità delicata che si afferma fuori contesto, in controtendenza, in contrappunto rispetto alle slabbrature metriche che spingono la materia del verso, come sangue, fuori dei suoi margini. Attenuazione squisita, che proprio per questo assume un’icasticità trasgressiva, un’alterazione contraria e sviante che disorienta la drammaticità dei distici, presentando una luminosità raggelante: “Eppure senza il tuo rigore, sussisto//perché non scelgo. Vivo nel non volere/ del tramontato dopoguerra: amando/il mondo che odio – nella sua miseria//sprezzante e perso – per un oscuro scandalo della coscienza…[13]”.
Le sonorità instabili passano come una lama di rumore nell’epidermide del brusio quotidiano. È il suono che guida l’immagine, non il contenuto. L’immagine si raccoglie intorno alle lacerazioni della melodia, a sviluppi metrici che inchiodano figure con il pestare dei timbri. Il realismo “poetico” pasoliniano non si riduce a un calco lasciato dal peso della realtà, anche sotto specie individuale[14]. La lettura tutta morale, estrinseca, dei suoi versi, manifesto di passione civile, assunzione di responsabilità tutta intellettuale, che, dallo scandalo della miseria, si concretizza in domanda di senso[15], ha condotto a prese di posizione ideologiche più che a indagare le strategie stilistiche. Caso emblematico é l’accusa che muove Fortini, di tradire la pretesa a farsi “storia di popolo” riproducendo i sintomi del culturalismo borghese, quell’idealismo solipsistico che ne tradisce la collocazione sociale e la funzione politica.
Ogni flessione tonale è un foro in materie sonore che si rapprendono, come fasci di nervi, intorno alle ferite che li percuotono. La scissione di cui Pasolini produce il canto non si svolge tanto, come vuole Cerami, tra popolo e storia, o tra poeta–intellettuale borghese e popolo[16]. La scissione si apre nel linguaggio stesso che porta la poesia nel momento in cui ne diviene il veicolo. Nel fremere dei toni inflittegli la lingua si scuote nel suo corpo significante. La musica straziata che ne sale si schiude da una parte verso le punte che ne lancinano le trame, dall’altre si addensa in un rumorio che si accumula dietro ed intorno le percussioni del ritmo. La lingua di Pasolini si dona alla realtà che essa stessa produce in quanto dolore vissuto. Essa canta soffrendo, dando la propria voce al suono che sorge dal suo proprio sussistere. Il realismo pasoliniano non si basa sulle alchimie dialettiche in cui un dato é percettivamente introiettato, elaborato in contenuto ideale e restituito sotto forma di concetto. Più evacuazione ideale del reale che rispecchiamento, il sociologismo iconografico si riduce alla fine ad una forma di sfogo lirico. Ripetendone le formule, l’autore si trasfigura in principio spirituale. Pasolini mette in poesia la distanza del suo schema di lavoro da tale prospettiva: “Diede, quello stile,/alla lingua un numero infinito di parole,/che di nuovi apporti di realtà riempirono/il vuoto senile dell’Erario: fu questa,/ forse, nel realismo italiano, ambizione?/Esso esprimeva il dolore del proletariato/piangendo col suo pianto: io direi/ch’è ambizioso, al contrario,/che si smorza e si umilia nel lirismo/della prosa interiore, del socialismo bianco…”[17]. Un’unica giacitura fonetica stratifica un’epidermide semantica, livida e dolente, che si distende attraverso le eccitazioni di un nocicettore[18]. L’”io” è un conduttore puntiforme, il fattore melodico – semico che, vedendo, sentendo, parlando, pensando, vivendo, risponde ai fremiti della parola. L’”Io” pasoliniano non è immagine della “coscienza” del poeta, né il segno della sua vicenda esistenziale, né tanto mento metafora storpia della sua capacità raziocinante. È un riflesso spastico dei nervi del linguaggio. La lingua, a ogni ferita, scopre di essere carne segnica, presenza concreta, agente, immediata del tessuto semantico della parola. Le infinite sequenze in cui muore al suo stesso sussistere sono flessioni sensibili della sua presenza sonora, del suo essere a se stessa mondo: “ Non sanno che è proprio la morte/(loro alibi di cattolici servi)/che disgrega, corrode, torce, distingue:/anche la lingua./La morte non è ordine, superbi/monopolisti della morte,/il suo silenzio è una lingua troppo diversa/perché voi possiate farvene forti:/proprio intorno ad essa vortica//la vita!”[19]. L’”Io” è polarizzatore semico e scotoma. Circoscrive uno spazio sensibile passando attraverso aggregati materici. Essi non gli appartengono, ma, toccati dalle sue vibrazioni emotive o intellettuali, rivelano la propria consistenza reagendo sulla nuda fisicità della sua voce[20]. Sull”Io”, coscienza deflettente, cui ogni appercezione, in senso kantiano, è negata, s’imprimono le piegature carnose del linguaggio. La poesia si vive, si agisce, si pensa, pure, muovendo il corpo che ne satura l’espressione. La poesia non è canto della vita, in Pasolini, né è voce pudica o orfica per la vita. La poesia è la vivente fisiologia del suo corpo segnico: l’”Io” ne costituisce il terminale propriocettivo. L’”Io” è il contro – canto, diffrazione germinata da impulsioni disarticolate, che dipana il turbinìo sensoriale di cui la poesia trema. Come un reticolo di venature s’insinua in tutti le stratificazioni del metro: dalla superficie cutanea, in cui prende forma drammatica[21], teatrale o raziocinante, ai livelli più profondi del derma, in cui si disperde in una profonda tramatura di pulsazioni affettive, disarmonie emozionali stillate dalla linfa musicale che echeggia attraverso le cavità della parola. È qui che la metrica delle cose si prolunga senza soluzione di continuità con la ritmica della coscienza: “Sì, nella luce che disossa/con la sua felicità primaverile/le giornate di questa mia Canossa.//Eccomi nel chiarore di un vecchio aprile,/a confessarmi, inginocchiato,/fino in fondo, fino a morire.//Ci pensi questa luce a darmi fiato,/a reggere il filo con la sua biondezza/fragrante, su un mondo, come la morte, rinato.//Poi…ah, nel sole è la mia lietezza…/quei corpi, coi calzoni dell’estate,/un po’ lisi nel grembo per la distratta carezza//di rozze mani impolverate…Le sudate/comitive di maschi adolescenti,/sui margini di prati, sotto facciate//di case, nei crepuscoli cocenti…/l’orgasmo della città festiva,/la pace delle campagne rifiorenti…”[22]. La linea dello sguardo si spezza nel contrappunto di accenti tonici che s’inseguono elidendosi a vicenda. L’endecasillabo sposta le sue chiusure su posizioni inedite facendo cozzare i toni in un susseguirsi di coloriture vitali ma estenuanti. L’”Io” che si dice morire sfibrato dal calore che pulsa dalla vita stilla i suoi rivoli disperso in sonorità tracimanti, in cui la rima è più la chiave ritmica che raccoglie e rilancia le disarmonie provocate da assonanze imperfette che una rotonda chiusa isotonica. Se Pasolini conserva l’ispirazione delle innovazioni pascoliane[23], ossia l’introduzione di una plurivocità di gradienti melodici, di frasi e figure ritmiche discontinue[24], ne piega l’uso in un senso molto più vicino alle proliferazioni barocche di Campana che non ai sottili giochi tonali del Pascoli. Si può ammettere un debito di natura tecnica, ma l’impianto della metrica di Pasolini risponde a tutt’altre condizioni generative. Mai idillio sonoro, accompagnamento delicato che segue come un découpage decorativo i contorni di un’immagine squisita[25], il ritmo pasoliniano è un produttore di stanze asimmetriche i cui piedi, spesso dilacerando l’endecasillabo in misure spezzate, si inarcano nell’accento per far cozzare armonie diffratte. Il verso si solidifica precipitando l’urto dei toni, lo strappo dell’enjambement, nella compattezza di percetti materici. Palazzi, case, si accavallano su strade riarse o umide su cui corpi senzienti si ammassano, piagati da emozioni che ne solcano la pelle come tagli, parlando una lingua ibrida che cola come il liquor di questo corpo poetico vivente: “ Il sole, il sole. Come già in fondo a Marzo,/nei meandri d’Aprile. Corri, mia macchina azzurra,/dove vuoi, per le strade segnate da un altro sole,/il Monteverde dei poveri, tra sfondi straripanti/di case a strati, riarse – un pino sull’asfalto – /file di bar e macellerie con sola cliente la luce – /e un altro versante del quartiere, con la luce di striscio – /una strada in salita – il Sanatorio, coi giardini neri – /la Portuense…/Al Trullo il sole, come dieci anni fa./«Fermete, a Pa’, dà du’ carci co’ nnoi!»/Giorgio, Giannetto, Carlo, il Moro,/e gli altri, i pigri venticinquenni,/già un po’ stempiati, con qualche annetto di galera;/i fratelli minori di primo pelo, chi/come un lieto pagliaccio dentro i panni del padre,/chi elegante nella sua miseria, gli occhietti/come due foglioline umide colpite dal sole./La partitella, nel cuore della borgata,/tra i lotti che oltre al sole, e a qualche figura di lavoro,/ non hanno nulla da offrire alla nuova primavera” [26]. I dettagli fisici in chiave umorale o affettiva, le sensazioni che solcano la scena lasciando striature dolorose, i ritratti puerili e insieme invitanti, i contatti delicati e gli avvitamenti pensosi, il pugno della politica che spazza gli anditi consunti di una quotidianità lacera, patologia della vita incorporata agli organi del capitale[27], sono concrezioni, coagulo dei fiotti irregolari erompenti da una lingua che si offre come corpo.
Importante lavoro di ricerca sarebbe ripercorrere la genealogia del mondo fremente pasoliniano, seguire le traiettorie dei tracciati sonori solidificarsi in figura per trasfigurarsi sulla scorta delle corruzioni del verso: il cammino doloroso che conduce dalle terzine alte e snervanti delle Ceneri, in cui l’impossibile armonia delle loro dissonanze si serra sull’evanescenza di un popolo che manca, alle avversioni riflessive e imploranti in cui si ripiegano le lasse della Religione: “E non ci voleva nulla, ahi, a deformare/questa sua forma, già incerta ai loro sguardi/di anime sicure, ironiche, ignare,// – come bambini sotto gli occhi dei padri/bonari verso le loro antiche/crudeltà, le loro stupide rabbie…//E fu facile trovare i complici del mito:/questi “più realisti del re”, questi strazianti/confinati di Ina – Casa e borgate, col corpo nutrito//di povere minestre, da grassi umilianti, la camicia con un filo di sporcizia/sul collo, i figli urlanti//in fondo a caseggiati neri come ospizi,/le deboli nuche gialle di brillantina,/o tormentate da precoci calvizie,/la loro nazionale assassina….”[28]; fino ai tumulti dolci e sgraziati di Bestemmia[29], e alla violenza tutta politica, ai pugni menati dai versi dismetrici di Trasumanar: “Anime belle del cazzo, per cos’altro moriranno/i due fratelli Kennedy, se non/ per un’istituzione? E per che cos’altro, se non per un’istituzione,/moriranno tanti piccoli, sublimi Vietcong?”[30].
Il corpo della lingua si compone membro a membro sul dolore del verso. La poesia di Pasolini è il dono che fa si di sé la parola consacrandosi alla sua presenza vivente. La parola non è Verbo divino incarnato nella contingenza del finito, è l’attualità sacra di un’originaria, aurorale germinazione di vita. La poesia è la carne del Verbo, vita che dà la vita perché grembo creatore del segno vivente, e il Verbo è il sacrificio della parola vivificatrice sulla croce del verso. Il cattolicesimo “luterano” di Pasolini, se visto dal punto di vista della poesia, è l’atto di fede rinnovato verso un principio creatore che il cammino interno alla parola riconosce come sostanza e origine del dire, ma è anche il culto consacrato e ripetuto della transustanziazione immanente del segno, trasfigurazione che non assimila le sostanze ma ne reitera la natura, come una divina litania che rilasci ab eterno la sua semenza significante. L’aura mitica, più o meno sottolineata da tutti i commentatori, il carattere estraniato e spirituale delle figure che ne animano i versi, l’incedere ieratico delle metriche pasoliniane non sono solo espedienti estetici di una poesia che vuole sacralizzare il proprio essere profano. Sono le risonanze che promanano dall’invocazione che la parola offre a se stessa per aver fatto offerta del suo corpo. Essa si dona alla vita rendendo grazie a tutti i nomi che ne costituiscono la materia. È il nome di tutti i nomi, il geroglifico primo che custodisce il codice da cui trovano composizione infiniti organismi segnici. La parola poetica, manifestazione più pura perché più compromessa con la concupiscenza peccaminosa di questo Verbo carnale, è il Cristo, il segno divino che, buona novella donatrice di vita – Vangelo – , nasce all’esistenza di cui è fondamento e substrato. Come dice Paolo: “Umiliò se stesso facendosi obbediente sino alla morte e alla morte in croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre“[31]. Questo corpo sacro incede innocente. Fa libagione dei segni che ne santificano la venuta. Essi ne riecheggiano la giovinezza perenne, essendo il suo natale la festa di ogni momento, e l’immemore vecchiezza, l’aurea di morte che sale dall’interno della parola stravolgendola. Il duplice volto che ogni piede pasoliano assume, la dicotomia che ne scinde i significati in una lenta, interminabile processione di sineciosi – espediente stilistico che ne rende la lettura un esercizio di umiltà penitenziale – è l’inno disperato che sale da versi. Mentre si protendono verso l’eterno, cadono vittime della condanna che destina il sensibile alla morte, cui loro stessi, essendone la materia, sono vittime e responsabili. L’”Io”, melodia sintomatica che contrae e distende le sistoli di un mondo benedetto e dannato, é l’arcangelo che annuncia la vita tra le moltitudini del segno, forza morale araldo della potenza creatrice del verbo – movenza che mostra in modo evidente il debito contratto da Pasolini con Dante – . L’Io, cifra concreta dell’esistenza del Verbo, è la ferita che marca i segni con il battesimo del dolore. Sulla croce del mondo creato dalla divina volontà della parola, fraseggi pietosi esalano materni e mortiferi, concentrando il significante in imago personali che inchiodano gli arti febbrili, e pure emaciati, del significato. Essi condannano la creazione al supplizio dell’offerta. L’Io pianta le mani e i piedi della parola viva sul corpo del segno, facendone il martirio che da cui, solo, può scaturire una produzione di senso. Una ferita è il dire, il Verbo una piaga da cui una volta e sempre scorre il sangue che dona la lingua al mondo, sostenendo all’esistenza la parola: “E io qui, con questa scheggia/immateriale in cuore, quest’involuta/coscienza di me, che si ridesta a un attimo/della stagione che muta./Insufficienza ormonica in cui vaneggiano i sensi? Indebolimento dei battiti/ del cuore, o eccesso dei vitali atti/dell’intelligenza? Ah, certo qualcosa/che va in rovina.(…)//Da questo inesprimibile attrito/nasce la prima larva della Passione:/tra il corpo e la storia, c’è questa/musicalità che stona,/stupenda, in cui ciò che é finito/e ciò che comincia è uguale, e resta/tale nei secoli: dato dell’esistenza./Il confine tra la storia e l’io/si fende torto come ebbro abisso/oltre cui talvolta, scisso,/alla deriva, è il glorioso brusio/dell’esistenza sensuale/piena di noi: dinanzi a questa fisica/miseria non può che ritornare/ogni storico atto irrazionale…”[32] Il sacrificio, il dono di sé che la poesia, musica essenziale che sottende ogni produzione segnica, fa senza riscattarsi, ma anzi perdendosi nella caduta delle sue involuzioni concupiscenti, è il grido di dolore che la violenza del farsi “Io” strappa al mondo incidendo i nervi di una lingua altrimenti muta. Il significare, gesto disarmonico e pure bello – nel senso di Leopardi[33] – che feconda il soggetto, è l’apertura inesausta e incessante di uno scotoma, foro oscuro e pure scarlatto da cui, scorrendo la parola, il non – dire e il dire entrano l’uno nell’altro riconoscendosi della stessa sostanza: quella carne che, orfana che agisce senza potersi fare viva, si dona morendo la possibilità di farsi storia. Compattandosi sui dissidi del segno, la poesia segna il limite del possibile, le scissioni che martirizzano la parola mentre partorisce, producendo i conflitti che la perdono, il corpo che la salva.
[33] “Una lingua non è bella se non è ardita, e in ultima analisi troverete che in fatto di lingue, bellezza è lo stesso che ardire”, G. Leopardi, Zibaldone, V, 2415, 3, Ed. tem. A cura di F. Cacciapuoti, Roma, Donzelli, 2002, p. 276.
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tysm literary review, Vol 1, No. 2 – 28 january 2013
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