Santuari editoriali e dintorni
Luciano Parinetto
Apriamo il vecchio Compedium maleficarum di fra’ Francesco Maria Guaccio (prima edizione: 1608), squallidissima epitome persecutoria certo cara alla inquisizione milanese (importante per gli specialisti, ma assolutamente appassito per il gusto d’oggi) e leggiamo, nel Primo libro, il capitolo: An verum sit, quod dæmones fiant succubi et incubi. Proprio nella frase d’inizio, Guaccio esordisce: «Solent Malefici, et Lamiæ cum Dæmonibus, illi quidem succubis, had vero incubis actum venereum exercere».
Chi sappia appena uno scarso latino è in grado di tradurre: «i malefici e le lamie (cioè stregoni e streghe) usano compiere l’atto sessuale quelli coi demoni succubi, queste con i demoni incubi».
Apriamo adesso la lussosa edizione dei Compendium da poco messa in libreria dalla casa editrice Einaudi e leggiamo la traduzione dello stesso passo: «Nel rapporto sessuale di maghi e streghe coi demoni, i primi sono Succubi, le seconde incubi».[1]
Luciano Tamburini (il curatore e traduttore einaudiano) che cosa fa dire al povero fra’ Guaccio? Esattamente il contrario di quello che il suo latino (qui elementare) recita, e cioè che i “maghi” (se si conserva la traduzione einaudiana), nel rapporto carnale coi demoni, sono succubi e le streghe, invece, incubi. Ne viene fuori un Guaccio inedito, molto più perverso (e teologicamente deviante) di quanto non sia effettivamente, perché gli si fa dire che gli stregoni avrebbero un rapporto omosessuale passivo coi demoni, mentre le streghe, coi demoni, farebbero da maschi!
Lungi da me denegare che, al Sabba, la libido omosessuale (e di ogni altro tipo) non avesse gran ruolo. Ma il fatto è che qui fra’ Guaccio non si sogna neppure lontanamente di fare simili affermazioni, ligio com’è alla tomistica teologia degli incubi e dei succubi (gran cavallo di battaglia anche del Malleus maleficarum, da Guaccio citatissimo), secondo la quale il diavolo incubo è quello che ha rapporto con le donne (e con gli stregoni invertiti, se proprio si vuole!) e il diavolo succubo è quello (come dice il termine) che sta sotto ai maschi femmineamente. Che poi ondivago sia il sesso dei diavolo ed esso si compiaccia di mutarlo spessissimamente è altra questione, che qui non entra; perchè qui è santa grammatica che è stata stuprata, e, con essa, anche santa intelligibilità dei testo, il cui contenuto (e ciò è ancor più grave) non concerne un passo qualunque o trascurabile, ma uno dei capisaidi della teologia della stregoneria: era infatti solitamente l’accusa di coito col diavolo che portava sul rogo stregoni e streghe, e i teologi da secoli ne avevano studiate le modalità, e, da persone “normalissime” (come sono tutti gli inquisitori) non facevano che proiettare solitamente nel Sabba il “normale” rapporto sessuale consentito e diurno, anche se, in questo caso, sconsacrato (anzi, indemoniato); sicché, insomma, facevano copulare i maschi con demoni (provvisoriamente) femmine e le femmine con demoni (provvisoriamente) maschi: salvo eccezioni!
La teologia di fra’ Guaccio qui rigurda proprio questa “normale” concezione dei coito col diavolo, anche se ovviamente i teologi, dottissimi in materia, non ne ignorano affatto altre.
Luciano Tamburini le fa dire esattamente il contrario: cioè che gli stregoni fanno da femmine e le streghe da maschi, nel coito diabolico!
Questo traduttore non a torto cita il parere di Sergio Abbiati, che cioè la precedente traduzione (Milano 1967) del Compendium fosse «parziale e da usarsi in ogni caso con molta cautela»;[2] e infatti pure questa traduzione, in questo caso, è indubbiamente errata: a maggior ragione Tamburini avrebbe dovuto sorvegliare la propria; né avrebbe dovuto dare, sul testo, notizie false, come quella secondo la quale, nella secondo edizione del Compendium, «il primo libro ha un numero invariato di capitoli e corrisponde quindi ai testo del 1608» [3], quando chiunque apra questa prima edizione può constatare che i capitoli di quel libro sono diciannove anziché venti, come nella seconda!
Con la stessa disinvoltura, Tamburini scrive poi, alludendo a un’opera di Wier: De Lamiis liber unus, pseudomonarchia dæmonum, come se si trattasse di una stessa opera! La Pseudomonarchia dæmonum non è affatto (come sembrerebbe da questa citazione) un sottotitolo del De Lamiis e neppure una sua appendice. L’edizione Amsterdam 1660 apud Petrum van der Berge, per esempio, la pone infatti dopo il Liber apologeticus, che segue il De præstigiis, ed è lo stesso Wier a dichiarare qui: «in huius Operis de Dæmonum praestigiis calce annectere volui»[4] appunto la Pseudomonarchia! Dei resto, lo steso Bodin scriveva che Wier aveva steso l’inventario degli spiriti maligni «à la fin de son livre de Præstigiis».[5] Già che ci siamo, precisiamo anche che l’asserzione: «lo controbatté punto per punto Jean Bodin nella Démonomanie» [6], riferita da Tamburini al De præstigiis, sarebbe molto più visto che Bodin dedica tutta l’appendíce della Dámonomanie (un’ottantina quasi di pagine!) alla Réfutation des opinions de Jean Wier occasionata dalla recente pubblicazione del De Lamiis (anche se in essa ovviamente non trascura la discussione pure nel De præstigiis): l’obiettívo di polemica attuale è, per lui, il De Lamiis.
Tamburini probabilmente era poi intento alla meridiatio (pennichella, per chi non conosca Cicerone) quando andò traducendo «interdum etiam conveniunt in meridie, quo refertur illud, de Dæmonio meridiano» con: (i sabba) «a volte avvengono nel pomeriggio, com’è detto del demone pomeridiano» [7] perché, com’è evidente, il testo di Guaccio parla di sabba che si svolgono a mezzogiorno, sotto l’auspicio dei ben noto demone di mezzogiorno! Qui sarebbe stato di sicuro giovamento leggere il cap. VII del leopardiano Saggio sugli errori popolari degli antichi!
Ma non è questa la svista peggiore! Tamburini si permette, per esempio, di tradurre (sempre nella frase iniziale dei capitolo citato sopra) non stregoni ma maghi, come non fosse noto lippis et tonsoribus, che i maghi (e la tradizione colta che li riguarda) sono tutt’altra cosa, in questo periodo storico, rispetto agli stregoni (e alle streghe): gente senza libro e, per quanto se ne sa, priva di alta cuitura. Si veda.da quanto il mago Enrico Cornelio Agrippa pensava dell’ignoranza delle streghe (che pure difendeva strenuamente dalle grinfie degli inquisitori) in una nota lettera all’abate Tritemio. Ricordare Agrippa a chi si occupa di filosofia e magia rinascimentale sarebbe superfluo; il fatto è che per Tamburin i«Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheirn […] fondò a Padova un’accademia per lo studio delle scienze occulte. Fu autore di trattati specifici quali […] De præstigiis Dæmonum»!!! [8] Tamburini farebbe bene a maneggiare fonti biografiche un po’ meno indecenti.
Ma si torni ai maléfici. Il termine latino, che la traduzione Einaudi rende con mago, è maleficus (generico, ma spessissimo traducibile con stregone). Anzi, pertinacemente essa rende solo con mago i vari magus, sortilegus, maleficus, sortiarius disseminati nel testo di Guaccio, quasi fossero sinonimi; così dicasi per saga, talvolta resa con strega, talvoita con maga, come se fossero lo stesso: traduzione dei tutto insipiente, a quanto pare, o comunque incurante circa la specificità che distingue e divarica, nei significato, quei termini. Così dicasi per la traduzione di Masquillon (che Guaccio volta, dai francese di Michaelis, in parvus Sortiarius) qui impropriamente reso con Maghetto, mentre sortilegus e sortiarius (da sors, come aveva ben spiegato Bodin) sono gli antenati linguistici di sorcier cioè stregone; e dunque la traduzione esatta di Masquilion (dal latino masca, nome altro per strega) è streghetto! È vero che Guaccio non vive più nell’età del Rinascimento e che la cultura cattolica post-tridentina tendeva a unificare in un’unica ideologica condanna, in quanto connesse al diavolo, specificità tanto riccamente diverse come magia e stregoneria (con tutte le rispettive varissime sfumature), ciò non toglie che, traducendolo, si debba tentare di riportare al significato più congruo ogni termine che ad esse si riferisca, senza ulteriormente confonderle. I risultati di tutte queste traduzioni approssimative o addirittura errate sono desolanti e per la esatta comprensione dei testo e per la precisone storica. Basti pensare che la famosa bolla di Innocenzo VIII Summis desiderantes, che apre ufficialmente, per la chiesa, la grande caccia rinascimentale alle streghe (immediatamente dopo scatenata dal Malleus maleficarum), e che correttamente Guaccio nomina «Bulla [ … ] contra Maieficos», sotto la penna di Tamburini diventa : «Bolla […] contro i magh»,[9] tradendo non solo Guaccio, ma papa Innocenzo VIII, che mai si era sognato di fuminare questo documento ufficiale contro i maghi, più che bene accetti nelle corti rinascimentali e la cui cultura (e diversità rispetto alle streghe) era ovviamente ben nota nell’età dell’Umanesimo e dei Rinascimento: non per caso Innocenzo VIII lasciava che il “mago” Ficino gli facesse l’oroscopo!
Contro i maghi questa bolla non ha niente da dire: bastava, del resto, averla letta, per rendersene conto. Ma si ha l’impressione che non molte siano le letture, concernenti questo periodo e cose stregoniche, fatte da Tamburini, visto che si permette anche di attribuire a Giovanni Pico della Mirandola un’opera di Giovanfrancesco Pico, suo famigerato nipote e (costui sì) persecutore di streghe! Infatti il De imaginatione, attribuito genericamente a Picus Mirandulanus dal buon fra Guaccio (proprio all’inizio dei primo capitolo dei primo libro del Compendium) è del funesto nipote di suo zio e non del grande umanista, (che, tra l’altro, la magia aveva esaltato come culmine della filosofia cristiana), come consta e dall’Opera omnia dei due Pico (Basiiea 1572) e da un epistola dello stesso nipote di suo zio a Lilio Gregorio Giraldi.
D’altra parte, come chiedere una distinzione fra zio e nipote a chi, non una sola volta, continua a scrivere (a margine del testo), invece che De (rerum) prænozione (un testo di Giovanfrancesco), De prænotazione? Se il rozzo Guaccio era grossolano nelle citazioni, perché seguirlo?
Tornando a maghi e stregoni, poco male, dirà qualcuno, confonderli: si tratta sempre di gente data al demonio. Forse per il teologo questo può andar bene; non per lo storico, che deve essere attentissimo alla specificità e deve distinguere. Anche se è vero che ben noti storici ancor oggi manco si sognano di distinguere magia da stregoneria. Valga l’esempio di Ruggiero Romano e di Alberto Tenenti, che sono riusciti a scrivere un testo [10] in cui si trova un paragrafo sull’astronomia di quel periodo (indubbiamente importante), ma non sull’astrologia o sull’alchimia, allora forse ancor più essenziali per definire la cultura di quel momento storico. Dei resto, in questo testo certo si parla degli umanisti, ma non della loro magia: Ficino o Hermes Trismeghistos – tra gli altri – sono nomi che qui invano si ricercherebbero. Eppure questi signori storici si permettono di affermare che la bolla Summis desiderantes di Innocenzo VIII (capitale, come si ricordava, nella caccia alle streghe) sarebbe rivolta alla «repressione della magia», [11] mentre non aprono bocca sulla stregoneria, come se la sua cruenta persecuzione, che proprio in questo periodo dilaga, non fosse mai esistita!
Tamburini non deve dunque perdersi d’animo: è in buona compagnia!
Anche di quella nota erudita, impennacchiata di bibliografie, che tuttavia prende lucciole per lanterne, quando parla dei ben noto Canon Episcopi, scambiando la notturna cavalcata di donne, di cui parla, per una periformance sessual-sabbatica di incubi e succubi e del cui libro [12] in questa rivista si è a lungo parlato. [13]
Inutile dire che la sensibilità storica di Tamburini è non molto rilevante: come quando la sua traduzione si imbatte nel circulator (per il latino di Guaccio) Trois-Echelles, il quale (almeno per chi abbia letto la Démonomanie di Bodin) è il rinomatissimo sorcier della corte di Carlo IX di Valois, che, pentito, denuncerà, per salvarsi la vita, migliaia di stregoni. Come traduce circulator (con cui il latino di Guaccio, a sua volta, traduceva il fist un traict de son mestier del francese di Bodin e che il cinquecentesco traduttore italiano Ercole Cato rende con un fece un tiro della sua arte) Tamburini? Con l’edulcorato termine giullare! [14] Eppure il sostantivo latino (per chi conosca la storia di Trois-Echelles) evoca un raggiratore, che circuisce (eventualmente con incantesimi); il francesce direbbe anche con tours de passe-passe (diabolici). Circulator non è iocularis né scurra; è più vicino a prætigiator, nel senso – qui -di ciarlatano, ma connesso agli inganni diabolici.
Il cinquecentesco Trescale di Ercole Cato aveva almeno il diritto di non essere degradato a giullare, tenuto anche conto, tra l’altro, che la sua storia serve a Bodin per insinuare un velenoso dubbio sulla connivenza della corte dei Valois con l’eversiva stregoneria del tempo.
Ma si veda un’altra perla di Tamburini: «San Gerolamo scrive, nella vita di Sant’Ilario, che un giovane, innamoratosi della Santa Vergine […] per farla cedere alle sue voglie ricorse ad incantesimi»! [15] Chiunque legga, nella Santa Vergine individua la madonna …. se però prende in mano Le vite de’ santi padri di Domenica Cavalca (che forse il latino lo capiva meglio che non Tamburini) e consulta la Vita di sant’Ilarione, apprende da questo classico della nostra letteratura medievale, che il giovane che compiva fatture era attratto da «una santa vergine di Cristo», cioè al massimo da una suora (e non certo dalla madonna)! Nella stessa maniera, Tamburini, quando si trova davanti a un ex quodam Pauli libello, molto inventivamente lo trasforma in «da uno scritto di San Paolo», [16] mentre il testo non permette affatto questa identificazione! A una madonna tutta d’invenzione, qui fa da pendant un San Paolo del tutto falso! Ma le stranezze di questa traduzione non sono finite: perché, per esempio,[17] informa che ippomane sarebbe un «liquido vischioso gocciolante dalla vagina delle cavalle in fregola», quando, parlando di esso, Virgilio scrive «nascentis equi de fronte revolsus/et matri præreptus amor» (Æneis, IV) e Plinio conferma: «Censent equis innasci amoris veneficium, hippomanes appellatum, in fronte, caricæ magnitudine, colore nigro» etc.etc. (Hist. nat., VII, 42, 66); e, del resto, la stessa cosa Tamburini si vedeva spiegata da Guaccio con «pellicina che si stacca dalla fronte del puledro appena nato»(come egli stesso traduce)? Ma de hoc satis, anche se non mancherebbero altre cose da osservare! Si lasci dunque Tamburini che, in una confezione di lusso, consegna una traduzione non certo di lusso (monito a tutti i cultori – gazzettieri compresi – del libro/feticcio) e si dia un’occhiata al Preambolo di questa stessa traduzione, dove, sulla fine, Carlo Carena (di cui non si vuole affatto qui porre in discussione la bontà delle traduzioni, dal greco e dal latino, di molti testi classici) intona il consueto compianto sulle «sventurate messe alla berlina e al rogo»,[18] come se la stregoneria (e la sua persecuzione) non riguardasse che le donne! Senza neppure un dubbio (sorretto magari dalla più recente bibliografia), se la indemoniata categoria destinata ai supplizi non fosse molto più vasta e surdeterminata di quanto un malinteso e antiquato femminismo vorrebbe ancor oggi far credere. la stessa importantissima iconografia del Compendium (riprodotta anche dalla edizione Einaudi) basterebbe a sfatare simile leggenda: essa infatti raffigura imparzialmente streghe utriusque sexus (come dicono anche le bolle papali), cioè uomini e donne, stregoni e streghe! Vero è che Carena pare mettere le mani avanti e rimanda all’antifemministico cap. XIII dei I libro dei Guaccio, dove dichiaratamente si sostiene come «le femmine sopravanzino i maschi» nelle stregonerie: ma allora avrebbe almeno dovuto costituirgli problema il fatto che i capitoli (o le parti di capitolo) più accesamente antifemministici dei Guaccio (il XIII del primo libro e l’VIII del secondo libro) sono aggiunte che appaiono solo nella seconda edizione (1626) e non esistono nella prima edizione (1608) di quest’opera (genericamente antifemminista per evidente influenza del Malleus). L’iconogralia (eguale per ambedue le edizoni) rispetta dunque molto più l’impostazione della prima, piuttosto che della seconda edizione! Dunque Guaccio avrebbe maturato il suo antifemminismo più deciso e convinto nel tempo che passa fra le due edizioni del Compendium e solo nel 1626 sarebbe stato portato a vedere molto più nella donna, che non nell’uomo, il prototipo della strega: era questo un non piccolo problema esegetico su cui un preambolo al Compendium avrebbe potuto soffermarsi; invece che sostare su maghe, streghe e dee dell’antichità, che, col povero Guaccio, hanno poco da spartire. Segnalo poi un periodo di questo stesso Preambolo (p.XIV: «La meraviglia etc.etc.») che pare non reggersi sui propri piedi. Malefizio che perseguita l’edizione Einaudi di quest’opera? Oppure allegra correzione di bozze?
Spiace davvero tutta questa serie di osservazioni poco positive su un testo di una illustre casa editrice, che alla cultura (e non solo all’industria culturale) ha dato non poco e non trascurabile incremento, giovando, tra l’altro, anche al lavoro universitario; ma è proprio alla serietà e al rigore delle edizioni Einaudi che, credo, saranno utili queste annotazioni.
Come sarannno utili, per diverse ragioni, a tutti quei gazzettieri che, da qualche tempo, pare si divertano (invece di indicare i pali negli occhi delle grandi industrie editoriali) a puntare il dito sui fuscelli dei piccoli o minimi editori, lievitandoli ad alberi.
Pare infatti che i Fafner della industria editoriale si siano svegliati, sbadigliando, dopo secoli di beati sonni (e guadagni), ed abbiano inviato, quasi cani da guardia, loro portavoce (più o meno velati) a vomitare dai giornali ingiurie, dei tutto gratuite il più delle volte, contro che cosa? Contro volumetti da mille lire, Che, come il lupo diceva all’agnello che si abbeverava più a valle, gli intorbidano i… bilanci!
Cani da guardia che sussiegosamente e solennemente pretendono dai piccoli milIelire quei rigore che invano li si vedrebbe ricercare, nelle loro recensioni, per i prodotti delle industrie editoriali.
Vi sono poi personaggi (almeno se si prende per vero il Corriere della sera del 19 febbraio 1993) che, in convegni sui tascabili, giudicano, per esempio, i Frammenti di Eraclito (edizione milielire/stampa alternativa di Marcello Baraghini) nientemeno che «una traduzione vergognosa, che pare uscita da una scuola marxista leninista ddel ’68»! Francesco Cataluccío, che ha partorito (certo con fatica!) questa curiosa opinione, forse, in pieno 1993, avrebbe dovuto maggiormente preoccuparsi della scuola tangentista: ma ognuno ha i fantasmi che ha, e non se ne può fargliene una colpa! Non si vede, comunque, che male ci sia in una traduzione che si ispiri, posto che sia vero (e resta tutto da dimostrare), a criteri interpretativi marxisti-leninisti, visto che sia Marx che Lenin si sono intelligentemente occupati di Eraclito. Certo resta una succulenta e sconvolgente ipotesi storica quella che vede, nella marxista-leninista, una scuola di traduttori!
Forse Cataluccio ha letto solo frettolosamente la nota introduttiva dell’Eraclito/milielire, ma la sua valutazione (se cosi si può chiamare), che si limita a porre fra gli eretici (da mettere al rogo) un traduttore senza specifiche osservazioni sul complesso della sua traduzione, è cosa antiquata: proviene dalla Controriforma (e, ancor prima, dalla Santa Inquisizione); mentre si direbbe che siamo nel 1993! Una traduzione va giudicata non a partire dal fatto che il suo autore sia ugonotto, o musulmano, o cattolico, o ateo, o uomo, o donna; ma per la sua maggiore o minore esattezza, sensibilità, felicità. Sono cose talmente ovvie, che non dovrebbero neppure essere scritte, ma in un’aura di Controriforma, come quella di oggi, certamente vanno ribadite.
Lo stesso articolo dei Corriere poi rivela che Cataluccio è «editor della Feltrinelli». Questo era dunque des Pudels Kern! Qui pare presumibilmente si annidi il pudore per le vergogne di Eraclito: in una sorta di ritorno del rimosso, ovvero della memoria denegatal di chi parrebbe volere ignorare che una certa industria editrice, qualche lustro fa, ha incrementato i propri capitali proprio con la vendita di opere di Marx, Lenin e financo Stalin (nella qual cosa ovviamente non v’è proprio nulla di male, tranne la fatale mercificazione dello spirito). Si è perciò tentati di leggere in chiave, diciamo così, marxista-leninista (proprio perché denegata) l’opinione di Cataluccio: anche alla luce di quanto quello stesso articolo rivela, che, cioè, le collane […] Feltrinelli […] raggiungono le cinquemila» copie di libri venduti. Famiglia cristiana (se non erro), verso la fine d’anno, ha scritto, d’altra parte, che l’Eraclito/milielire aveva venduto, in pochi mesi, duecentocinquantami la copie…È questo che è vergoginoso? Che un piccolissimo editore snobbi, nella concorrenza, un editor, dimostrandogli di attingere un numero sterminato di lettori a confronto del limitatissmo pubblico raggiunto da una eminente industria editoriale? E con una traduzione che, fino a prova contraria, è esente quanto meno dai grotteschi difetti che l’industria culturale purtroppo ci ha propinato, anche nelle edizioni di lusso? Ma l’Eraclito/milielire è, si vede, dialetticamente (e fecondamente) provocatorio, visto che, se ad uno appare (del tutto a torto) marxista-leninista, all’altro appare (sempre del tutto a torto) incomprensibile: segno che il supposto marxismo-leninismo non è poi così vergognosamente esibito! Il riferimento, questa volta, è all’Espresso (14 Marzo 1993), dove qualcuno giudica (si fa per dire, perché non giudica che se stesso!) i Frammenti di Eraclito: «un’edizione in cui il testo a fronte, quello incomprensibile, è quello italiano»!
Invece di elogiare Marcello Baraghini, che, per mille lire (meno di un caffè), mette in circolazione non solo la traduzione, ma il greco attribuito ad Eraclito, costui si vanta di comprenderlo meglio direttamente, che non nella traduzione. Complimenti! Si sa che Aristotele (che forse il greco lo sapeva!) non era in grado di punteggiare esattamente Eraclito, onde coglierne il senso; invece il giudice dell’Eraclito/milielire capisce, a millenni di distanza, quel greco al volo! Che i gazzettieri di oggi non sappiano l’italiano (e dunque fatichino a comprenderlo) era noto a tutti: stupisce invece positivamente che sappiano il greco antico meglio di Aristotele! Quanto poi al fatto che la traduzione di Eraclito gli sia incomprensibile (posto che non sia mera maldicenza), non v’è che da rimandarlo a Diogene Laerzio o a Cicerone (o a sfogliare Mondolfo): che dicono che l’oscurità di Eraclito fu intenzionale, studiata apposta per tenere lontani gli incompetenti! E dunque gli danno dell’ignorante! Se poi chi l’ha tradotto ha rispettato quell’oscurità; se, anzi, ha reso Eraclito ancor più oscuro, allora gli è stato paradossalmente fedelissimo, più eracliteo di Eraclito! Complimento più grande di questo non si poteva fargli! Ma non è vero che questa traduzione di Eraclito sia oscura: ès olo essenziale e poetica. Ma chi corre dietro, forse per denaro, o per inclinazione, alle maldicenze, è giusto non abbia orecchio per la poesia, gli sia incomprensibile, e dunque non abbia riguardi per chi se ne occupa. La sua stessa sordità lo punisce!
Gli esempi di chi fa il rigoroso con i piccolo editori ed èv olutamente cieco davanti ai prodotti delle industrie ediitoriali potrebbero essere tranquillamente moltiplicati; ma è certo che costoro dell’operazione Baraghini non hanno capito proprio nulla, perché essa pare antifeticistica per eccellenza. vuole che il libro circoli indipendentemente dall’infernale dialettica che conduce le merci sul mercato, che fa dei libro una merce, che ha reso mercato la cultura. Per questo suscita la canea delle (interessate) obiezioni!
V’è poi chi, davanti a un milielire, che da traduzione e testo greco di Eraclito, vuole (nonostante la crisi) di più! Vi sono principesse del pisello (dell’industria culturale), che sotto il settimo materasso (del fatturato delle loro case editrici) sentono prudergli il minuscolo milielire e allora strillano che i classici non vanno dati alla plebe, oppure, se, in via eccezionale, le sono concessi (octroyés!), visto che la plebe è un sempiterno bambino, le vanno almeno biascicati con commento ed apparato critico! Se no, la povera plebe, opina un altro, rimane analfabeta, anche se pensa di aver acquisito cultura! Se prima ci siamo incontrati nella Controriforma, qui incappiiamo nello spettro dei paternalismo: chi avrebbe creduto di trovare tanti papà, preoccupati per il neonaito/popppolo, nei vassalli dell’industria editoriale, alla fine dei ‘900?
Per non dire di altri, che, non dialetticamente, contraddiicono questi: Inclita, la critichessa coi baffi, che nell’etere (allo spirito sacro, bocca alla verità) talvolta (grazia non cercata) sentenze effonde, ha un giorno concesso: validi sono i millefire/Baraghini, ma (ohibò) solo quasi per giovani (analfabeti o semi); restano, certi testi (edizioni di lusso delle industrie culturali, probabilmente), per i colti (di sorpresai?), che certamente, a nostro parere li meritano!
V’è ancora chi, non contento dei feticismo delle merci (che uccide), brama invece il libro/feticcio e cerca godimenti nella sua palpazione e nella lascivia della sua estetizzante contemplazione; non nei suoi contenuti di pensiero: ed è chiaramente un infelice, cui non si può che augurare (visto che siamo in Italia) che si penta e… viva (se ne è in grado) palpando cose più godibili.
Viene da chiedere a tutti costoro, con indignazione davvero plebea: ma che volete, per mille lire? Volete che Baraghini, col testo, distribuisca, in omaggio, anche un preservativo?
È un fatto che, nell’italia in cui i santuari della politica crollano, la campagna delle industrie culturali contro i milielire ha tutta l’aria di rivelare una crepa.
Note
[*] Articolo apparso sul numero 7 (luglio 1993) del quadrimestrale La Balena bianca (Antonio Pellicani editore, Roma).
[1] Francesco Maria Guaccio, Compendium maleficarum, a cura di Luciano Tamburini, Preambolo di Carlo Carena, Einaudi, Torino 1992, p. 83.
[2] Ivi, p. XXXII.
[3] Ivi, p. XXXIII
[4] Johannes Wierus, Opera, Amsterdam 1660, p. 649.
[5] Jean Bodin, Démonomanie des sorciers, Paris 1587.
[6] Francesco Maria Guaccio, Compendium maleficarum, trad. cit., p. XIX.
[7] Ivi, p. 101.
[8] Ivi, p. 306, nota 2.
[9] Ivi, p. 101.
[10] Ruggiero Romano e Alberto Tenenti, Alle origini del mondo moderno (1350-1550), Feltrinelli, Milano 1967.
[11] Ivi, p. 273.
[12] Paola Zambelli, L’ambigua natura della magia: filosofi, streghe, riti nel Rinascimento, Il Saggiatore, Milano 1991.
[13] Luciano Parinetto, “Molto fumo (di streghe) e poco arrosto”, La Balena bianca, n. 4 (marzo 1992), pp. 45-58.
[14] Francesco Maria Guaccio, Compendium maleficarum, trad. cit., p. 28.
[15] Ivi, p. 201.
[16] Ivi, p. 227.
[17] Ivi, p. 202, nota.
[18] Ivi, p. XVI.