philosophy and social criticism

Verso Damasco

di Marco Dotti

«All’incirca verso il 1972, Mahmoud el Hamshari mi condusse a casa dello scrittore italiano Alberto Moravia, per incontrare Wael Zuaiter, che venne assassinato nel 1973. Curiosamente, l’Italia, in altre occasioni così dolce e leggera, mi sembrò pesante se confrontata alla vita errabonda dei fedayn. Me ne tornai quindi in mezzo a loro, nel maggio dello stesso anno, passando per la Turchia, la Siria e, infine, la Giordania». Sono ricordi sbiaditi e imprecisi, nelle date, e forse anche nei luoghi, quelli che Jean Genet affida alle pagine di Un captif amoureux, il libro di «souvenirs» dalla gestazione più che ventennale, pubblicato nella primavera del 1986, poche settimane dopo la sua scomparsa, e alternativamente accolto – senza troppo clamore critico, a onor del vero – come improbabile testamento politico o come sua «ultima dissidenza poetica». Ricordi offuscati, quelli di Jean Genet, più che dalla malattia e dal presentimento di una fine imminente, dalla lucida esigenza – già messa all’opera, con sovrabbondanza barocca, nel Diario del ladro – di rovesciare all’infinito le carte imponendo a sé e al lettore uno scarto radicale rispetto a ogni finalismo biografico e memorialistico.

Palinsesto di memorie che non tornano, di situazioni narrative disordinate, di falsi-piani stilistici, di registri informali e di relazioni sintattiche distorte, grazie alla sua logica scombinata Un captif amoureux è capace, tuttavia, di suscitare – secondo l’opinione di un osservatore entusiasta come Félix Guattari -, una disposizione alla lettura attiva, intensa, orientata alle «singolarità molteplici» (donne senza voce, uomini senza volto, un popolo senza terra) che compongono il reticolato di una contro-memoria eccentrica sulla Palestina e dintorni. Questa sottospecie di “finzione storica” introduce continue interferenze e sfasature nel rapporto tra immaginario e livelli molteplici di realtà, attraverso quattro snodi esistenziali, quattro follie critiche che si incrociano nei poli di «sex, desire, death and revolution», provocando quel cortocircuito tra vita e opera che da sempre appare caratteristico e peculiare dello scrittore francese.[1]

In Un captif amoureux, senza rinunciare a nessuna di queste follie – «di desiderio, rivolta, bellezza» – tra i nomi dei compagni di viaggio, o di sventura, sottratti a un oblio quasi certo, episodi che affiorano «par vagues» per essere scritti e riscritti una, due, dieci volte, Genet disegna il «reportage» della sua lunga espatriazione. «Come nasce un viaggio?», si chiede, indicandone la motivazione nell’unico «punto fisso», la «stella polare sulla quale mi orientavo», nell’intricata costellazione mediorientale. Si tratta di Hamza, un ragazzino palestinese che, con la madre, gli offrì ospitalità e riparo nel dicembre del 1970, a Ajlun, nei pressi della giordana Ibrid. Quella stella, ricorda Genet, «fu sempre Hamza, sua madre, la scomparsa di Hamza, le sua torture, la sua fine quasi certa. Questo punto fisso ha forse un nome, amore… » Il rapporto tra Hamza e la madre, Genet lo descrive e lo immagina completamente scisso da vicende temporali, assolutamente libero da legami con la morte. «Più reale, forse, del reale stesso», quindi irrappresentabile, se non in una pagina vuota, trasparente, con cui infatti il libro si chiude, e sui cui margini il “testimone” inscrive i segni della propria solitudine. A partire dall’incontro con il diciassettenne in armi, e con la madre, che Genet cercherà senza sosta di rintracciare (riuscendovi, e sarà la fine del viaggio), si instaura ciò che Guattari definisce «un operatore o sinapsi esistenziale», una frattura, in altri termini, che costituisce la precondizione materiale, psichica e sociale, per attivare un «tipo nuovo di produzione di soggettività».

La scrittura, il confronto con un popolo «disorientato» e, soprattutto, una «lunga ricerca di sogni e rivoluzioni perdute», concorrono al rafforzamento di questa frattura produttiva. Dovremmo leggere Un captif amoureux come un libro gioioso, talvolta sarcastico, attraversato da una marcata linea nera, ma in cui prevalgono, a ben vedere, i toni meno scuri. Il gergo della rivolta, infatti, vi si declina con precisione solo nelle lunghe descrizioni di gesti quotidiani – la preparazione di un tè, la danza, una partita a carte – che sanno restituire la dignità laica di un oriente non velato da ombre, e che alla miseria dei campi profughi contrappone una sua forma di impercettibile resistenza. Resistenza ben simbolizzata dall’ordito e dal colore dei tessuti con cui, «nutrendo la gioia quotidiana degli occhi», le donne palestinesi esibiscono una naturale eleganza anche al cospetto della morte più indegna e oscena. Al pari del vangelo della pietà contadina dell’omonimo racconto di Marcel Jouhandeau, la resistenza è declinata al femminile, secondo la madre, nella forma «semplice e gentile» di una «palestinese del popolo»: «H. mi presentò sua madre, era il periodo del Ramadan. Quando le dissi di non essere musulmano, e di non credere nemmeno in Dio, mi guardò senza stupore e senza sdegno. Era una vedova di cinquant’anni. Era quasi mezzogiorno. “Se non crede in Dio, bisogna dargli qualcosa da mangiare”. Preparò un pasto. Il fatto che fossi un miscredente nel bel mezzo del Ramadan, le aveva dato la risposta: il pranzo. Lei non mangiò che dopo le sei di sera».

Se del rapporto tra Genet e il mondo arabo-palestinese conosciamo il punto di arrivo, rappresentato dall’adolescenza limpida, non criminale, di Hamza, dalla dolcezza della madre e dalle essenze e dal profumo di agrumi, dolorosamente mischiati alla polvere da sparo, della Palestina, è altrettanto importante accennare al punto, o ai molteplici punti, di partenza di questo insolito viaggio. Anche in questo caso, la lettura di Un captif offre indizi preziosi, e forse proprio sui nomi, indicati in apertura, di Mahmoud el Hamshari e Wael Zuaiter, che ricorrono una sola volta nelle oltre seicento pagine del libro, e su “John” Hanna Mikhail, alias Abu Omar, conviene soffermare per un attimo l’attenzione. Non in funzione biografica, sia detto, ma perché tramite certe sfumature sottili della storia, Genet introduce infinite varianti e linee di fuga. Così, alla «moltitudine anonima» che, a partire dal 1970, aveva segnato i suoi primi lavori sulla Palestina, si sostituisce ora la piega particolare dei “nomi propri” (Hamza, Mubarak, Hamshari, Abu Omar…), portatori di vicende non sempre minime, ma ampiamente indifferenziate, che costringono il lettore.

Figure pur diversissime tra loro, proprio sul finire degli anni Sessanta, mentre la Guerra dei sei giorni e la repressione giordana rendevano ancor più incerto ogni discorso sull’avvenire, Zuaiter e Hamshari offrirono a Genet (e a molti altri, come lui interessati ad andare al cuore del problema) la possibilità di confrontarsi in maniera intellettualmente aperta con la cultura, e il dramma, palestinese. Un confronto più militante, ma non strettamente ideologizzato, nel caso di Hamchari, rappresentante dell’Olp a Parigi, più sottile e raffinato, nel caso di Zuaiter, intellettuale atipico che, notava Moravia, si poteva definire, in senso forte, un letterato, per quella forte «ammirazione per la letteratura che gli intellettuali non hanno spesso». Nato a Nablus il 7 gennaio del 1934, figlio di uno dei giuristi più raffinati del suo tempo, Zuaiter era giunto a Roma nel 1963, spinto dalla passione per la musica e l’arte. Conosceva come pochi la grande tradizione poetica orientale, a cui univa una non indifferente padronanza della letteratura europea. Per due volte aveva accompagnato Moravia nei suoi viaggi in Oriente, e Genet si illudeva potesse fare altrettanto con lui, sperando, inoltre, di coinvolgere entrambi nel progetto di un gruppo di lavoro sulla Palestina, pensato sul modello del Group d’information sur les prisons.

Il corpo di Wael Zuaiter

Il corpo di Wael Zuaiter

Si illudeva, perché il 16 ottobre 1972, mentre rientrava a casa, Wael Zuaiter venne assassinato da una squadra del Mossad con dodici colpi di una Beretta calibro 22. Due mesi dopo, Hamchari venne ferito da un ordigno esplosivo, nascosto accanto al telefono di casa. Morirà, a causa delle lesioni, nel gennaio 1973. Genet ne fu scosso, nuovamente turbato da un conflitto che ora toccava anche i suoi affetti più cari. Cercò allora di ripartire per la Giordania, proprio alla ricerca del giovane Hamza. Ne venne espulso, e non vi fece ritorno che dieci anni più tardi.

Con Hanna Mikhail il rapporto fu radicalmente diverso. Compagno di studi di Edwad Said, allievo di Henry Kissinger, per qualche tempo docente all’Università di Washington, nonché autore di uno studio sulla “teologia politica” di al-Mawardi,[2] nel 1969 Mikhail sposò la causa del nazionalismo arabo e lasciò tutto, moglie e incarico universitario, per trasferirsi ad Amman e entrare nella resistenza. Assunse il nome di battaglia di Abu Omar, ed è così che Genet lo ricorda nelle pagine più intense del suo antiromanzo. Sarà proprio Abu Omar a offrirgli una delle argomentazioni più convincenti a favore della sua decisione di scrivere, servendosi di una retorica “bassa”, priva di ogni ricorso all’argot e alla densità orfica dei primi romanzi, confidandogli che, per la troppa luce, i militanti stavano, a poco a poco, diventando “commedianti” e «la rivoluzione rischiava, a forza di enfasi retorica – immagini sullo schermo, metafore e iperboli nel linguaggio di ogni giorno – di irrealizzarsi (s’irréaliser). Le nostre battaglie sono sul punto di diventare pose, all’apparenza eroiche, ma interpretate alla perfezione. E il nostro gioco interrotto, dimenticato e… sprofondare infine nell’immondizia della Storia». «Abbiamo avuto la fortuna», dichiarerà infine Omar (poco prima di sparire, in circostanze mai chiarite, nel 1976), «di individuare i nostri tre principali nemici, in ordine di importanza: i regimi reazionari arabi, gli Stati uniti, e infine Israele».

Quella di Genet, chiosa Said, fu la scelta «politicamente più pericolosa, il viaggio più spaventoso» che si potesse intraprendere nel decennio tra il 1970 e il 1980. Del tutto diverso dal viaggio – è Genet a parlare – delle troppe « “larve” innominabili che si spostano in Concorde da Londra a Rio, da Los Angeles a Roma, e vivono in avenue Foch o ai Parioli». Genet è «un uomo innamorato dell'”altro”, fuoriuscito e straniero a sua volta, che prova la più profonda simpatia per la rivoluzione palestinese, come rivolta “metafisica” di fuoriusciti e stranieri». La sua guerra «sans merci» contro un imperialismo inteso come imposizione, «esportazione di un’identità», e la rinnovata «consapevolezza di essere un truffatore, una personalità instabile, costantemente al limite» rappresentano «l’esperienza cardine del suo libro».

Aspetti, questi, che rimangono preclusi allo sguardo di Ivan Jablonka, giovane storico il cui lavoro Les vérités inavouables de Jean Genet,[2] a dispetto del comprensibilissimo interesse

Jean Genet in Palestina

Jean Genet in Palestina

– visti i tempi da “caccia alle streghe”- che ha suscitato al momento della sua pubblicazione, appare viziato da innumerevoli petizioni di principio, da sviste testuali e da un intento demistificatorio troppo dichiarato per risultare minimamente credibile. Non stupiscono le generiche accuse di antisemitismo, alle quali si aggiungono quelle, all’apparenza più motivate, ma assolutamente slegate da una problematizzazione interna, di essere portatore di una sorta di “mistica del vuoto” o di “estetica fascista”. Stupisce, semmai, che un editore solitamente rigoroso come Seuil, che pure ha in catalogo un buon libro di Hadrien Laroche sull’argomento (Le dernier Genet del 1997), pubblichi un testo approssimativo come quello di Jablonka. Basterebbero, per smontare il fastidioso castello psicologizzante di Jablonka, le parole di Oshima, che su Genet lavorò realizzando una versione del Diario del ladro, grazie alla sceneggiatura del comune amico Adachi Masao, parole – che sembrano calcate, ante litteram sul rapporto tra Genet, Hamza e sua madre – secondo cui «il desiderio di rovesciare l’individuale nell’anonimo, la brama di abbandonare ogni sporcizia per ritornare al grembo materno possono apparire sì atteggiamenti mentali inclini al fascismo, ma senza che per questo sia possibile stabilire connessione diretta tra la loro rappresentazione e il fascismo stesso». È proprio la mancanza di questa connessione, diretta o indiretta, tra la rappresentazione di un eros “deviato” (quello di Pompe funebri) e una prassi fascista, che rende vane le acrobazie a cui si piega Jablonka per giustificare il proprio salto logico. Non c’è possibilità di colmarlo, questo salto, neppure rivolgendosi, come fa Jablonka, a “documenti inediti”, nella fattispecie un dossier dell’Assistance publique. Meglio sarebbe stato, seguendo il dettame della “microstoria” a cui Jablonka dichiara di attendersi, rivolgersi agli indizi che Genet abbandona, non dopo averli “deformati”, tra le pagine del suo ultimo lavoro, il più scombinato e compromettente, ma anche il più ricco di spunti e risorse.

Al di là delle intenzioni, quindi, lo studio di Jablonka rimane inesorabilmente a metà, né testuale, né comparatistico, disarmato dinanzi a pagine che richiederebbero, anche solo per essere smontate, un esercizio di critica rigorosa, e incapace, infine, di aggiungere alcunché alle generiche accuse di “fascismo rosso” a suo tempo rivolte, con ben altra consapevolezza e in ben altro contesto storico-ambientale, da Maurice Duverger e Jacques Ellul. Eppure Genet, ricordava ancora Edward Said, non fu mai, in alcun modo, la variante eccentrica dell’ordinary visitor, esangue tipo-occidentale, dandy, questo sì protofascista, alla disperata rgeneticerca di «luoghi e popolazioni esotiche da incensare nel suo prossimo libro». I suoi spostamenti tra la Palestina, la Giordania e il Libano hanno tutta la sostanza, oltre che l’aspetto, di una scelta radicale, di un viaggio attraverso, e contro le identità. «Facile», scrive Genet, «aiutare i ribelli, ma resta impossibile diventare palestinese: l’isolamento splendido, è il carattere stesso di questa rivoluzione». La sfida consegnata ai suoi ultimi scritti è tutta lì, in questa “impossibilità”, e nel contraddittorio processo che lo induce a «sposare solo le cause altrui», anche se sono, il più delle volte, anche stilisticamente, cause perse. Eppure, in un contesto di orientalismo dominante, capace di articolare e codificare a priori ogni esperienza “occidentale” del mondo arabo-islamico e dell’altro, suggeriva Said, «c’è qualcosa di pacifico ma anche di eroicamente sovversivo nello straordinario rapporto di Genet con gli arabi». Qualcosa, converrebbe aggiungere, di lucidamente etico.

Note

[1] Cfr. Stephen Barber , Jean Genet, introduzione di Edmund White, Reaktionbooks, London 2004.

[2] Cfr. Hanna Mikhail, Politics and revelation, Edinburgh University Press, Edinburgh 1995, con una nota di Biancamaria Scarcia Amoretti.

[3] Ivan Jablonka, Les vérités inavouables de Jean Genet, Seuil, Paris 2004.