La doppia aura di Topolino
di Raffaele K. Salinari
Più di ogni altro tratto grafico sono le orecchie la «figura segreta» di Topolino. Nelle esplicite intenzioni del suo creatore, il criptomassone Walt Disney, infatti, esse dovevano rappresentare la determinante simbolica essenziale del personaggio: una vera e propria «doppia aura» – ovvero quella che poi diventerà l’aureola – che lo astrae dalla temporalità contingente per farne un essere esemplare, un modello da seguire dotato di manifesto carisma. È questo specialissimo simbolo che lo porta nell’Olimpo degli Eroi immortali mercé la sua carica sacrale.
Immortali
Il mito dell’immortalità, anche fisica, ha attraversato tutta la poetica e la vita di Disney sino alla sua leggendaria ibernazione sotto l’attrazione Pirati dei Caraibi a Disneyland dopo la sua morte. Ma, prima che egli creasse il suo stesso mito, furono i suoi personaggi più importanti ad anticipare e testimoniarne l’immortalità spirituale attraverso un serie indovinata e sottile di segni grafici che li rendessero parimenti essoterici ed esoterici, in altre parole attraversati da una doppia lettura: al medesimo tempo palese e celata. La bara di cristallo della Bella Addormentata nel Bosco – in originale la Bella nel Bosco addormentato – ed il suo magico risveglio dalla morte sono una vera e propria resurrezione della carne dal sepolcro, come pure la risoluzione dell’animazione sospesa di Biancaneve tra i suoi Sette nani ha del miracoloso; queste sono solo alcune delle doppie tracce lasciate dal mago del «Se puoi immaginarlo puoi farlo».
«C’è molto di me in lui», disse Disney in una intervista su Topolino, arrivando a dichiarare che il volto del suo personaggio gli rassomigliava. Ed è decisamente la «doppia aura» di Micky Mouse, figlio primogenito e prediletto, capostipite di tutto il Mondo disneyano, a simboleggiare al meglio questo messaggio di immortalità psico-fisica, ottenuta proprio attraverso l’ostensione del simbolo della sacralità per eccellenza.
L’aureola, infatti, il segno pittorico che rende l’essenziale dell’aura, nasce come motivo iconico già nelle religioni pre-cristiane. La troviamo intorno alle teste delle divinità greche, induiste, e poi di personaggi cristiani, a partire dalle figurazioni del Cristo sino ai santi. Particolare importanza riveste in epoca rinascimentale la collocazione dell’aureola in quanto la scoperta della prospettiva apre problemi di posizionamento e dunque anche di riconoscimento prospettico delle varie figure.
Qui l’aureola diventa non solo simbolo di santità ma anche segno di riconoscimento individuale dello status del personaggio. È stato proprio un conviviale scambio sull’uso prospettico dell’aureola intavolato con il geografo Franco Farinelli a suggerire l’ipotesi che essa fosse stata utilizzata anche come motivo iconico per le orecchie di Topolino.
Genealogia delle orecchie di Topolino
La prima marcatissima evidenza di questa operazione iconica, è che le orecchie di Topolino vengono sempre e da sempre disegnate di fronte, qualunque sia la postura del personaggio. Questa costante è immutabile ed immutata nel tempo e non risente dei vari disegnatori che negli anni e nei continenti si sono avvicendati nel tratteggiare il topo più famoso del mondo. L’archetipo grafico, per così dire, fu tramandato ai suoi successori da Disney stesso che lo pretese come condicio sine qua non prima di affidare la sua creatura ad altre mani.
Nelle tavole originali che abbozzano Topolino vediamo chiaramente tutti i tentativi di zio Walt per mantenere inalterate le caratteristiche delle orecchie indipendentemente dalla posizione del resto del corpo. Con questi artifici Walt Disney dotò Topolino della sua «doppia aura» permanente che, come vedremo, lo pone non solo al riparo della tesi di Walter Benjamin sul «decadimento dell’aura» nell’opera d’arte al tempo della sua riproducibilità tecnica, ma anzi lo propone come vero e proprio tedoforo di un rinascimento dell’aura attraverso i cartoni animati.
A completamento di questa «figura segreta» Disney inserì un «particolare», e cioè che l’attaccatura della capigliatura costituisce una sorta di triangolo perfetto, non a caso il simbolo del cosiddetto «terzo occhio» o Anja Chakra dal cui centro, proiettato posteriormente, parte il disegno dell’aureola dei santi o delle divinità che circonfonde loro la testa di luce. L’attivazione di questo chakra coincide appunto con l’apparizione di una luce abbacinante, una corrente luminosa; il «terzo occhio» di Topolino è localizzato esattamente dove la tradizione yogica lo pone: tra le sopracciglia, in mezzo alla fronte.
Questo è il centro che dà il via, l’assoluta potenzialità, come dice il nome stesso, Anja, «centro del comando». Il chakra rappresenterebbe quindi anche il potere di vedere-sapere ciò che non è ancora accaduto, ma sta per accadere, una dote di premonizione. Se pensiamo alle capacità intuitive di Topolino, ed al suo mestiere di detective, la grafica del «terzo occhio» sembra assolutamente connaturata al personaggio. Se ciò non bastasse è sufficiente notare come sin dalle sue prime presentazioni nei cartoni animati il volto di Topolino compariva sempre in primo piano, sorridente come un Budda e circonfuso di raggi giallo arancioni che emanavano dalla sua nuca. E allora, se le cose stanno così, cos’è mai un’aureola, cosa simboleggia originariamente quando appare nella storia della cultura e, soprattutto, perché quella di Topolino non «decade» ma anzi si esalta, contrariamente a ciò che invece sostiene Benjamin?
Il mito di Aura
La prima citazione dell’aureola, cioè dell’Aura, la troviamo in un antichissimo testo sacro indiano, il Shatapatha Brahmana, il più ampio ed esauriente dei Brahmaṇa, ovvero di quei testi composti in sanscrito vedico tra l’XI e il IX secolo a.C.. Come, e forse più degli altri Brahmaṇa, esso è soprattutto un compendio di procedure sacrificali. Nel XI 4.3, a proposito del mito dell’Aura, esso afferma: “Prajapati (Il Padre degli esseri temporali) si infervoro e creò gli esseri viventi. Da lui esausto e accaldato si alzò l’Aura. Era splendida, rilucente e trepida. Vedendola cosi spendente, rilucente e trepida, gli dei la presero di mira spogliandola di ogni cosa. Lei allora disse all’Essere primordiale «mi hanno preso tutto!». Egli disse: «fattelo restituire mercé un rito sacrificale»”. Così, secondo la cosmologia induista, nasce il gesto sacrificale: il riconoscimento e la conseguente restituzione (il sacrificio) all’Aura della sua centralità nel processo cosmologico attraverso un gesto che rende testimonianza all’essenza spirituale della Creazione, alla sostanza irriducibile e incondizionata che accomuna ogni essere temporalmente condizionato a ciò che non lo è, la patina che rende brillante di luce propria la realtà fenomenica.
L’Aura è, infatti, al tempo stesso ciò che permane oltre la vita materiale, oltre la creazione dei singoli esseri, ma che altresì consente loro di esistere come unicità nel tempo che gli è concesso di vivere.
La caratteristica di base di yajnã (sacrificio in sanscrito) sembra dunque essere quella di «un’azione che giunge dove intende giungere» dice Raimon Panikkar nel suo commento ai Veda, che realmente e veramente estende e amplia se stessa sino a comprendere ed unificare queste due sfere, il temporale e l’eterno. In altre parole, il sacrificio originariamente inspirato dal mito di Aura sembra suggerire un’azione che effettivamente «ricongiunge», vale a dire agisce, è efficiente e produce quindi ciò che intende. In questo senso il gesto sacrificale non e qualcosa che, una volta compiuto, rimane sospeso, per cosi dire, indipendente dall’azione, ma è un’azione che modifica la nostra percezione della realtà fenomenica. Per questo, sostiene ancora Panikkar, «all’origine di ogni essere c’è un sacrificio che lo ha prodotto».
Compiere il sacrificio non significa dunque partecipare ad una buona azione o far del bene agli dei, al genere umano, o a se stessi: significa invece semplicemente vivere, «realizzare» congiuntamente la propria sopravvivenza e quella dell’intero universo. E così, conclude Panikkar, attraverso il mito dell’Aura capiamo che «la cosmogonia è liturgia e la liturgia è cosmogonia».
Questo mito ci dice dunque della irriducibilità dell’Aura, della sua sacralità: nemmeno spogliata di tutto essa cessa di splendere, anzi è proprio questa la sua condizione essenziale.
Scendendo lungo il filo del tempo, molti millenni dopo il mito di Aura, troviamo una eco fortissima, anzi una vera e propria consonanza, nella definizione di «aura» data da Walter Benjamin nel suo Baudelaire e Parigi: «L’aura ha a che fare con l‘essenzialmente lontano, con la sua inaccessibilità, e questa è a sua volta una qualità essenziale dell’immagine di culto». Siamo così arrivati al passaggio fondamentale, quello che lega l’essenza con la sacralità. L’aura è dunque un simbolo del «sacro» inteso come essenza irriducibile ed accomunante tutta la realtà immanente e trascendente, visibile ed invisibile. I santi, le divinità, in questo senso altro non sono che esseri che hanno realizzato questa unione. Ma per il nostro scopo, a questo punto, è necessario indagare un passaggio ulteriore, quello tra sacralità ed opera d’arte.
La memoria involontaria di Proust
Le osservazioni di Valéry sull’aura dell’opera d’arte vanno in questa direzione: «Riconosciamo l’opera d’arte dal fatto che nessuna idea che essa suscita in noi, nessun atto che essa ci suggerisce, può esaurirla o concluderla. Si respiri finché si vuole un fiore gradito all’olfatto: non si arriverà mai a esaurire questo profumo, di cui il godimento rinnova il bisogno; e non c’è ricordo, pensiero o azione che possa annullare l’effetto o liberarci interamente dal suo potere. Ecco il filo che persegue chi vuole creare un’opera d’arte». E ancora, Novalis: «La percettibilità è un’attenzione». Questa percettibilità non è altro che l’aura, sostiene Benjamin, che puntualizza a questo punto la sua riflessione sulla natura dell’aura nell’opera d’arte affermando: «Chi è guardato o si crede guardato alza gli occhi. Avvertire l’aura di una cosa significa dunque dotarla della capacità di guardare», ed riprende subito dopo un concetto che si rivelerà fondamentale per comprendere la permanenza della «doppia aura» di Topolino: «Ciò è confermato dai reperti della mémoire involontaire – essi sono irripetibili e sfuggono al ricordo che cerca di incasellarli. Così vengono ad appoggiare il concetto di aura per cui si intende, con essa, l’apparizione di una lontananza».
Questa figura della «lontananza essenziale» è mutuata da Benjamin dalla celebre definizione proustiana di «memoria involontaria», di quella cioè che inerisce ciò che non è stato vissuto consapevolmente. L’esperienza della madeleine è la quintessenza di questa mémoire fatta di immagini auratiche, di impressioni senza ricordo che sorgono improvvisamente alla coscienza come qualcosa che sembra non essere mai stato ma, una volta riapparso, ci fa capire come abbia invece impresso profonde tracce nella nostra maniera di vedere il mondo, di esprimerci.
Per Baudelaire, come per Benjamin, la fotografia, ed ancor più il cinema, rappresentano strumenti di «decadimento dell’aura», perché lo sguardo che coglie le immagini non viene da esse ricambiato e dunque scompare così la percezione auratica. Le immagini cinematografiche sono distanti in quanto riprodotte meccanicamente, serialmente; non sono avvolte da quello che Proust chiama «il velo delicato che hanno tessuto intono a loro l’amore e la devozione di tanti ammiratori nel corso dei secoli». Quando l’autore della Recherche accusa l’insufficienza e la mancanza di profondità delle immagini che la mémoire involontaire gli offre di Venezia, dice che alla sola parola «Venezia» questo repertorio di immagini gli era apparso «vuoto ed insipido come una mostra di fotografie».
L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
Questa linea di ragionamento sul «decadimento dell’aura» viene completata da Walter Benjamin nel suo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica del 1936, in pieno Nazismo. Qui la critica alle nuove forme d’arte viene svolta in termini più propriamente politici, cercando di dare un senso al cinema come strumento che può, al tempo stesso, essere usato dalla propaganda fascista come forma di indottrinamento di massa attraverso la «estetizzazione della politica», spengendo così totalmente l’aura, il sacro eterno che emana delle immagini, per sostituirla con la pura ideologia della distruzione immanente – il fine del fascismo come del nazismo è la guerra dice Benjamin – oppure transitare verso la sfera rivoluzionaria nella quale è il lavoro che si fa immagine dispiegando così il suo potenziale di liberazione.
Ma prima di arrivare a queste conclusioni Benjamin riprende il problema del «decadimento dell’aura» in primis precisandone ulteriormente la definizione: «L’hic et nunc dell’originale costituisce il concetto della sua autenticità», dunque della sua aura. L’opera riprodotta o riproducibile, allora, si sottrae a questo hic et nunc perdendo di conseguenza le sue caratteristiche auratiche, poiché: «L’autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che di essa, fin dalla sua origine, può essere tramandato, dalla sua durata materiale alla sua testimonianza storica. Siccome quest’ultima è fondata sulla prima, nella riproduzione, in cui la prima è sottratta all’uomo, vacilla anche la seconda, la testimonianza storica delle cosa. Ciò che viene meno, insomma, può essere riassunto nel concetto di aura e si può dire: ciò che viene meno nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte è la sua aura. Il processo è sintomatico; il suo significato rimanda al di là dell’ambito artistico… La tecnica di riproduzione, moltiplicando la riproduzione, pone al posto di un evento unico una sua gran quantità».
E poi conclude: «Il suo agente più potente [della distruzione dell’aura n.d.a.] è il cinema», che egli finisce per considerare positivamente in quanto, se è pur vero che distrugge l’aura degli oggetti e delle immagini viste nella loro unicità e lontananza, avvicina al tempo stesso la percezione «spazialmente ed umanamente» alle masse, proponendosi così come una operazione catartica, e dunque potenzialmente rivoluzionaria, che potrà portare una nuova visione del mondo all’altezza delle modificazioni sociali della modernità, ove vige la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dato tramite «la ricezione della sua riproduzione».
Il cinema e le masse
E così, se le modificazioni del medium della percezione di cui noi siamo contemporanei possono intendersi come «decadenza dell’aura», si può anche indicare le condizioni sociali per un suo uso liberatorio. Il «decadimento dell’aura» è dunque un fatto che ha delle grandi potenzialità ma anche dei grandi rischi poiché si parla sempre di masse e non di singoli individui e, si sa, tra massa ed individuo vive uno scollamento incolmabile.
Insomma, nel pensiero, ma soprattutto nella sensibilità profonda, religiosa, del filosofo dei Passagenwerk, questa evenienza di decadimento auratico sembra più subita che cercata: lo sbocco rivoluzionario viene costruito come una possibile consolazione, il rimediare ad una necessaria evoluzione della Storia più che come un fine da raggiungere. Ed infatti egli parla di «adeguamento della realtà alle masse e delle masse alla realtà», ricordando come in origine l’opera d’arte avesse un valore cultuale all’interno di un rituale religioso e come la sua riproducibilità abbia fatto prevalere il valore espositivo su quello sacrale. Ciò avviene massimamente nel cinema, in cui la sacralità dell’immagine, legata al rituale e dunque ad una serie di gesti codificati e collegati tra di loro, viene stravolta dalla stessa tecnica cinematografica in cui: «L’uomo viene a trovarsi nella situazione di dover agire sì con la sua intera persona vivente, dovendo rinunciare però all’aura. Poiché l’aura è legata al suo hic et nunc, non si dà alcuna raffigurazione dell’aura. L’aura che sul palcoscenico circonda Macbeth non può venir distinta da quella con cui il pubblico vivente avvolge l’attore che lo interpreta. La peculiarità delle riprese negli studi cinematografici consiste però nel fatto che esse pongono l’apparecchiatura al posto del pubblico. L’aura che circonda l’interprete deve così venir meno, e con ciò deve venir meno anche quella che circonda il personaggio interpretato… La scenografia, le luci, gli studios, sono le necessità elementari dell’apparecchiatura che scompone la recitazione dell’interprete in una serie di episodi montabili».
E allora, in conclusione, la massa è una matrice dalla quale attualmente esce rinato ogni comportamento abituale nei confronti dell’opera d’arte, in cui la quantità si è ribaltata nella qualità: «Le masse sempre più vaste dei partecipanti hanno determinato un modo diverso di partecipazione»; l’umanità che ai tempi di Omero era uno spettacolo per gli dei dell’Olimpo ora lo è diventata per se stessa, ed il comunismo risponde all’estetizzazione della politica da parte del fascismo con la politicizzazione dell’arte da parte dei lavoratori. In tutto questo, ed a causa di tutto questo, l’aura è pur sempre perduta ma, forse, essa si riprodurrà nel prossimo futuro generato dall’apocatastasi rivoluzionaria, momento sacrale per eccellenza in cui la liberazione del lavoro dalle regola di produzione capitalista significherà anche un ritorno alla sacralità immaginale, cultuale, di quella «lontananza» che avvicina lo sguardo all’essenza sacra, auratica, di ogni cosa in noi stessi e di noi stessi in ogni cosa.
Topolino e il mago dell’aura
Ma le cose stanno così? L’aura dell’immagine cinematografica è perduta sino alla redenzione rivoluzionaria? Forse non proprio. Le critiche di Baudelaire, di Valéry, di Benjamin, di Proust verso un arte riproducibile, specie verso quelle forme che nascono strettamente ed indissolubilmente legate alla loro riproducibilità tecnica – fotografia e cinema – non tengono conto di un prodotto tecnologicamente particolare che è l’immagine animata: il cartone animato. In termini popperiani questa evidenza falsifica alla radice le tesi benjaminiane. A differenza del cinema, infatti, in cui ogni immagine fotogrammatica può essere vista come una istantanea che si imprime qualche attimo nella retina sino a dare l’illusione del movimento riproducendo, secondo l’estetica dell’Ottocento, tanti quadri in movimento, il cartone animato è, nella sua stessa essenza, un prodotto artistico che nasce nel e dal cinema, concepito e poi generato dalla sua cinesi, cioè dal movimento intrinseco che solo la tecnologia può dare ai personaggi: è la loro specifica modalità di motion che produce l’emotion, il dialogo auratico tra immagine e spettatore. In concordanza con questo si sviluppa anche una forte alterità tra personaggio animato e spettatore: l’altro da sé totale, il totaliter aliter, apre scenari psichici molto più profondi che un qualunque personaggio umano.
L’aura dunque non decade poiché il movimento del cartone è animato mercé il suo stesso movimento: è la sua anima ad esistere – cioè letteralmente ad avere l’essere da un altro esterno a sé – in virtù del movimento. La maniera di muoversi, di vivere la loro peculiare esistenza, è allora informato dall’anima che nasce dalla e nella cinesi, ben lontana dunque da quella particolare forma di finzione cui il cinema “umano” abitua da subito gli spettatori. Il patto sotteso tra cinema e pubblico, infatti, è: non è vero ma ci credo.
I cartoni animati, invece, sono veri, non finzioni, essi nascono e vivono la loro vita autenticamente in quella forma: non sono imitazione di vita, trucchi cinematografici che fanno sembrare vero ciò che non lo è, sono altre forme di vita animata; in sintesi: loro sono hic et nunc, come una immagine originale; si espongono allo sguardo riguardandolo, ricreando così esattamente quel «velo delicato» che avvolge l’opera d’arte nel suo ruolo cultuale, sacrale.
Ecco l’arcano disneyano, la sua magia. Questa verità aveva intuito e coltivato Walt Disney nella sua poetica: un mondo di immagini che potessero, per le masse, proporre in ogni momento la permanenza dell’aura attorno all’immagine e dunque mantenere il senso del sacro, dell’infinito, dello stupore per le cose elementari, pur all’interno di opere destinate al grande pubblico.
Ed ecco allora spiegata la «doppia aura» di Topolino, il capostipite di ogni cartone animato di massa, il tedoforo dell’aura animata, rappresentata dalla sue orecchie. Quando Topolino apre il corteo dei personaggi disneyani sono i movimenti delle sue orecchie a scandire il ritmo della marcia; dietro di esse vengono tutti gli altri, meno carismatici di lui ma comunque avvolti dallo stesso sguardo dello spettatore incantato in quell’aura mai decaduta, mai decadente, che l’immaginazione poetica ritrova e rinnova attraverso lo scorrere di ogni fotogramma.
tysm literary review
vol. 14, no. 20
november 2014
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2 Responses to “La doppia aura di Topolino”
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