philosophy and social criticism

Dal corpo grottesco al mondo grottesco

Antonio Attisani

Michail Bachtin spiega che al tempo di Rabelais il corpo grottesco era una celebrazione della vita intesa come ciclo nascita-morte, affermazione e negazione insieme, materialismo integrale e al di là del principio di piacere.

Ebbene, la conquista ermeneutica di Bachtin ci permette di comprendere, con alcuni necessari aggiustamenti, il più vitale movimento teatrale del Novecento e di distinguere tra la tensione che ancora lo nutre e le varie declinazioni che ha conosciuto nelle culture nazionali e nell’opera di diversi artisti. Per tenere la rotta del grottesco, però, bisogna fare riferimento anzitutto a un altro russo, V. E. Mejerchol’d, perché è al grande regista che dobbiamo la messa a fuoco decisiva del tema, la sua attualizzazione e attivazione nella rivoluzione teatrale.

Per Mejerchol’d il grottesco è l’essenza del teatro nel mondo moderno, rispetto al quale i vari realismi assumono un atteggiamento servile. Dice bene Bernard Noël: «Il realismo non è che un interdetto contro la realtà. Il realismo è sempre la lingua del potere: riduce la realtà a se stesso, e che non se ne parli più!».[1] La complessità del mondo contemporaneo per Mejerchol’d s’accompagna alla decostruzione giocosa operata attraverso un grottesco inteso come «un eccesso premeditato, una ricostruzione, uno sfigurare la natura, un accostamento di oggetti che sarebbe ritenuto impossibile tanto in natura che nell’esperienza quotidiana, con una decisiva insistenza sul lato sensibile e materiale della forma in tal modo creata. […] Nel campo del grottesco si realizza la sostituzione alla composizione prevedibile di una composizione esattamente contraria, o l’aggiunta di alcuni procedimenti conosciuti, adatti alla rappresentazione di oggetti contrari a quello cui si applica il procedimento della parodia. Il teatro, in quanto combinazione extra-materiale di fenomeni naturali temporali, spaziali e numerici che costantemente contraddicono la nostra esperienza quotidiana, è nella propria essenza stessa un esempio di grottesco. […] In quanto carattere fondamentale del teatro, il grottesco esige per esistere una inevitabile ricostruzione di tutti gli elementi esterni introdotti nella sfera teatrale, compreso l’elemento umano che gli è necessario e che esso trasforma in attore […] Questa trasformazione ha lo scopo di preparare l’elemento sensibile e materiale della combinazione extra-naturale del grottesco ed esclude, tra le abilità sceniche dell’attore, tutta una serie di loro manifestazioni in favore di un solo loro gruppo ben determinato, destinato a fare occupare al singolo attore un luogo teatrale preciso e a metterlo in condizione di esercitare una precisa funzione». [2]

Non è un caso che Mejerchol’d sia anche uno dei principali riferimenti di Carmelo Bene e tutta l’opera del più grande autore teatrale italiano, e non solo, del XX secolo può essere posta sotto l’insegna del grottesco, da intendere non nella dimensione limitata della satira ma come gamma che spazia dal comico al sublime, senza mai cedere alla corruzione della sintesi. Come tutti i sommi, Bene fa storia a sé, vale a dire esce rumorosamente dalla storia, ma per uscirne bisogna averci abitato, nel luogo male-detto, e quindi essere capaci di sfondare la porta aperta.

Ebbene, per prendere le distanze dal realismo, Bene innanzitutto studia la “casa comica” in cui è nato e da qui, dal paese di Totò e dei comici del sud, guarda al mondo.

C’è un breve testo del 1964, un manifesto non raccolto nelle sue Opere, nel quale l’Attore enuncia i principi ai quali resterà fedele per tutta la sua vita artistica. È un testo che dovrebbe essere studiato in tutte le scuole, soprattutto laddove si volesse tentare di capire come la stupefacente ondata sperimentale che ha percorso l’Italia prima del 1968 abbia proposto temi e procedimenti con la cui bruciante attualità sarebbe opportuno fare i conti, ché ci aiuterebbe a sfondare la porta aperta, ma quanto difficile da oltrepassare, e ci consentirebbe di uscire dal mefitico condominio dell’Italia MediaRai e del teatro-serioso-di-Stato.

Nel 1964, in occasione dell’allestimento di un non memorabile copione di Roberto Lerici, il nostro enuncia in rapida successione il palinsesto del suo vangelo.[3] Mettiamo dunque l’introvabile apocrifo in nota e limitiamoci a qualche sottolineatura.[4]

Due i concetti messi davanti a tutto: poesia e tragedia essenziale. Laddove la poesia è irrappresentabile, ma proprio per questo è la sfida costitutiva del teatro; e la tragedia è aperta, priva di sintesi e di catarsi, paesaggio grottesco, appunto, percosso dalla frusta di una crudeltà intesa come rigore (quattro anni prima che il testo di Artaud fosse pubblicato in italiano!). Il cannibalismo è insieme il contenuto e il paradigma di un teatro così inteso, che mostra la realtà delle relazioni umane e significa il rapporto dell’attore-autore con i testi, respingendo gli alibi dell’interpretazione e della rappresentazione e conquistando quella vera solitudine che si concretizza in suono e immagine, canto e maschera che non esprimono la personalità (dell’attore) bensì il mondo reale che si mostra attraverso di lui, divenuto portatore e interpellante. E tutto ciò avviene, per Bene, utilizzando la moltitudine di linguaggi che percorrono la scena, senza mai mimarne il congiungimento ma al contrario dando libero corso al permanente, irriducibile alterco tra loro.

Pochi paragrafi di glosse sarebbero sufficienti a dimostrare che questi principi hanno informato tutta la produzione di Bene, fino alle prove finali, caratterizzate da una straziante solitudine, dal dominio della voce umana (audè, non più phonè) e da un accentuato lirismo. Ciò perché l’estremo approdo altro non è che la decantazione di un processo avviato in gioventù dalla volontà di potenza e nella maturità invece governato da una stoica noluntas.

Cosa volevasi dimostrare con ciò? Che il mondo grottesco del XX secolo – il mondo reale, sottratto dall’arte alla riduzione del realismo – ha trovato in ogni paese i propri cantori e Carmelo Bene, assieme, tra gli altri, a Leo de Berardinis, Carlo Cecchi e la coppia Remondi & Caporossi, ha sviluppato questa fenomenologia nel solco della grande tradizione comica (nella doppia accezione) italiana. Due almeno le deduzioni che più urgenti. La prima di ordine critico: il sentimento grottesco non è una poetica e non produce uno stile, ma si declina in ogni paese e in ogni artista secondo coordinate assolutamente individuali. La seconda di ordine culturale e politico: il “mondo grottesco” continua nel XXI secolo e dunque la lezione di Bene, comprensiva del bisogno di fare storia a sé, è destinata ancora per molto a essere attuale.

Note

[1] Bernard Noël, Journal du regard, P.O.L., Paris 1988, p. 24.

[2] Vsevolod Ėmil’evič Mejerchol’d, Ecrits sur le Théâtre – Tome II, 1891-1917, trad. préf. et notes de B. Picon-Vallin, La Cité-L’Age d’Homme, Lausanne 1975, pp. 84-85.

[3] Carmelo Bene, La prima rappresentazione, in Roberto Lerici, La storia di Sawney Bean, Lerici, Milano 1964, pp. 55-56.

[4] «Spettacolo di poesia non è mai un avvenimento anti-teatrale, ma tragedia essenziale. La presente messinscena ha voluto sperimentare: 1) Un modo teatrale che finalmente tenda a chiarire la differenza tra CRUDELTÀ e GUIGNOL. 2) Il cannibalismo come dimensione estrema in un rapporto d’amore fino all’assorbimento del prossimo e finalmente redenta in solitudine noumenica, non mai come ferocia patologica, equivale teatralmente a chiarire il concetto di CRUDELTÀ. 3) La poesia non conclusa, non finita del testo, ma continuamente PROPOSTA DI POESIA corrisponde a un tappeto ideale per un teatro di PRETESTO come discorso continuo e non interpretazione di un fatto specifico. 4) Il trucco facciale dei due amanti, lungi dal rapportarli a un ambiente e identificarli, attraverso l’irriconoscibile, come orrore teatrale, li trascinerà alla maschera sulle cui labbra il discorso non finisce mai. 5) Una rappresentazione attraverso la quale ci si convinca che la poesia è irrappresentabile in senso positivo, cioè teatrale e quindi sola grande possibilità drammatica: «non esiste teatro se non teatro irrappresentabile». 6) Una scena dove l’azione discute il testo, mai sottolineandolo, mai rappresentandolo. Un testo di monologhi, ma che rimbalza in un dannato alterco critico tra l’azione, la parola e la luce» (in Bene crudele, a cura di Antonio Attisani e Marco Dotti, Stampa Alternativa, Viterbo 2004) .