Una gloria bagnata dal sudore degli altri
Marco Dotti
Chi potrebbe dire, in tutta buona fede, di conoscere, ricordare o avere pronunciato anche una sola volta i nomi di Auguste Arnould, Narcisse Fournier, Félicien Mallefille e Pier Angelo Fiorentino? Eppure fu proprio a loro, con un gesto di insperato – e per alcuni critici inspiegato – buon cuore che Alexandre Dumas padre decise di dare un giusto riconoscimento pubblico, semplicemente firmando con il loro nome, piuttosto che con il suo, alcuni racconti inclusi nei tomi sette e otto dei Crimes célèbres, usciti a Parigi tra il 1839 e il 1840. Il fatto che Dumas si servisse di «negri», di archivisti, di scrittori pagati a cottimo – quindi poco e soprattutto male – era un fatto ben noto. Noto a tal punto che, nel 1845, quando la fama di autore di successo era oramai un fatto acclarato, un certo Eugène de Mirecourt pensò bene di dare alle stampe un documentato e ovviamente caustico pamphlet, dal titolo quanto mai irriverente: Maison Alexandre Dumas et Cie, fabrique de romans. A Dumas non ci volle molto per capire che, dietro quel nome di fantasia, si nascondeva Charles Jean-Baptiste Jacquot, il maggiore fra i suoi numerosissimi detrattori.
Una accolita di adepti
Prete mancato, fuggito anzitempo dal seminario, Jacquot coltivava ambizioni da letterato, ma dovette presto rassegnarsi a un più modesto destino di critico letterario e pubblicista. Nonostante il processo e una condanna scontata con ammende varie e quindici giorni di galera, Jacquot-Mirecourt si guadagnò la reputazione di vero e proprio specialista del genere «biografia non autorizzata», attirando su di sé le ire di Georges Sand, Pierre-Joseph Proudhon e Jules Janin, ma dando pure alle stampe interessanti lavori su Heine, Blanqui, Rothschild, Nerval e Eugène Delacroix. Fu comunque attraverso opere come quelle di Mirecourt che il termine «nègre» cominciò a circolare nel mondo delle lettere, con una sorta di calco umoristico sul lessico ridondante della retorica coloniale.
A un grande «maître des lettres» corrispondevano evidentemente uno o più «nègres», come a un colono corrispondevano i suoi schiavi, ma la «fabbrica» di Dumas a Mirecourt sembrava avere superato i limiti di ogni decenza, e forse era proprio così. Théodore de Banville, anch’egli non troppo tenero con i Dumas (padre e soprattutto figlio), arrivò persino a scrivere un’ode funambuleque appassionata, Le Mirecourt, nella quale si lodava il coraggio che aveva spinto Jacquot-Mirecourt ad alzare la voce rompendo schemi, protocolli e tutta una serie di oramai insopportabili e insulse connivenze fra critico e autore. Leggiamola:
Un jour Dumas passait: les divers gens de lettres
Devant son gousset plein s’inclinaient à deux mètres,
En murmurant: ” Ils sont trop verts! ”
Un Mirecourt soudain, fait comme un vilain masque,
Fendit la foule, prit son twine par la basque,
Et lui fit ce discours en vers:
” Alexandre Dumas, compresse de la presse,
Emplâtre qui toujours guéris cette Lucrèce,
Moxa qu’elle se met partout,
Écoute-moi, pacha de ces Maquets sans nombre,
Ombre de Scudéry, qui de Gigogne est l’ombre,
Tu n’es qu’un Pitre et qu’un Berthoud!
Tu gâtes le papier de quatre Lamartines.
Comme un Augu trop plein tu répands tes tartines
Sur Carpentras et Draguignan;
Ta machine à vapeur fait marcher trois cents plumes,
Et tu fais un gâchis en trente-deux volumes
Des mémoires de d’Artagnan.
Mais ton jour vient. Il faut dans Le Siècle, qui tombe,
Que le premier-Paris sous lui creuse ta tombe!
Dieu te garde un carcan de bois
Dans La Démocratie, un journal de dentiste,
Dans les entre-filets du Globe, et dans L’Artiste,
Feuille qui paraît quelquefois!
Porcher te dira: Baste! En des recueils intimes,
Tes vieux ours écriront les noms de tes victimes;
Tu les entendras te crier:
Mort et damnation! et te traiter de cancre,
Tous ces foetus caducs, ces vieux ours teints de l’encre
Qui n’est plus dans ton encrier!
Cela doit t’arriver, Yacoub, sans que Chambolle,
Solar ni Girardin te soldent une obole
Sur le dernier trimestre échu;
Lors même que Dumas, ainsi qu’Abdolonyme,
Vieux et plantant ses choux, prendrait le pseudonyme
D’Almanzor ou de Barbanchu! ”
Dumas avait un jonc en bois de sycomore,
Et ce poing de Titan qui sur la tête more
Fait cinq cent vingt pour son écot:
Docile au Mirecourt, il lui laissa tout dire,
Pencha son front rêveur, puis avec un sourire
Fit: ” As-tu déjeuné, Jacquot?
A dodici anni dal «misfatto», Mirecourt prese carta e penna e scrisse una lettera all’apparenza accorata a Dumas figlio, spiegandogli che la sua esistenza era in tutto e per tutto simile a quella di un frate benedettino. «Sempre al lavoro» – scriveva Mirecourt – «non frequento né il mondo, né le cose, né gli uomini. Scrivendo, da una pagina all’altra, mi limito ad ascoltare il rumore della vita parigina. Tutto mi giunge come un’eco nel fondo del mio rifugio. È forse questo il modo più vantaggioso per meglio comprendere e giudicare? La calma ha i suoi vantaggi, come il tumulto ha i suoi inconvenienti». La lettera, datata 16 febbraio 1857, precede di un paio di mesi quella inviata a Dumas padre. Altri toni, più forte il sarcasmo, diverse le recriminazioni, da una parte e dall’altra. È un bene, osservava Mirecourt, che Dumas pubblichi e soprattutto pubblichi molto, dato che «non si conoscono mezzi migliori per deriderlo un poco».
«Fanfarone, mentitore, stordito, sbruffone, sono troppe accuse per un uomo solo», ma Dumas – questo il punto dolente della questione – non era un «uomo solo» e nessuno meglio di Mirecourt poteva saperlo. Dietro di lui e attorno a lui lavorava tutta una serie di adepti più o meno votati alla ben poco nobile arte della scrittura di seconda o terza mano. All’epoca della pubblicazione dei Crimes célèbres, Dumas era già noto come scrittore, per via dei successi riportati alla Comédie-Française. Successi che gli permisero di abbandonare i saltuari impegni come calligrafo e copista per dedicarsi così alla complicata stesura dei suoi lavori più noti. Per non logorarsi in estenuanti ricerche d’archivio preliminari alla scrittura dei feuilleton storici che a quel tempo potevano fruttare soldi e lettori e perseguire così una personalissima brama di grandezza, Alexandre Dumas capì che sarebbe stato meglio affidare ricerche e stesure di canovacci a fidati e silenziosi collaboratori per poi – come quel Giotto immaginario a cui amava spesso paragonarsi – rivedere e ritoccare tutto.
La continua ricerca di una «grandeur» teatralizzata all’estremo fece sì che costruisse a sue spese un castello dedicato al conte di Montecristo – dopo il successo dell’omonimo romanzo – e un Théâtre-Historique presto dissestato dai debiti, imprese che portarono Alexandre Dumas sull’orlo di una completa bancarotta. Robert Louis Stevenson, che a Dumas, nel 1887, dedicò un appassionato ritratto, non senza retorica ricordava che «l’onore può sopravvivere a una ferita, può vivere e prosperare anche se mutilato», subito aggiungendo però che «avvinghiarsi a quello che rimane di una reputazione danneggiata è una virtù dell’uomo, ma forse cantare le proprie lodi non può definirsi moralità dello scrittore». Quanto a Dumas, fu un infaticabile cantore di se stesso. Dopo il disastro del Théâtre-Historique, però, si ritrovò nella necessità di scrivere e riscrivere di continuo per far fronte al disastro. Il ricorso al lavoro dei «nègres» si intensificò deprezzando irrimediabilmente – se non nel pubblico, quanto meno fra critici e malelingue – la sua reputazione di «autore». Che cosa rimane infatti di un autore se questi non è una persona fisica? Il titolo del libro di Eugène de Mirecourt, in questo, mostrava una certa efficacia: quel «Dumas & Cie» che faceva bella mostra di sé sul frontespizio non poteva che alludere a una sorta di società anonima dotata di una mera personalità giudirica, dove il nome «Dumas» aveva lo stesso effetto pratico di un marchio, ossia carpire la buona fede del prossimo per garantire efficacia e «genuinità del prodotto».
Fabbricanti di storie
Pubblicati nel 1839-40 in otto tomi, i Crimes célèbres raccolgono diciotto storie dedicate a famose vittime e a non meno famosi assassini. Solo che i delitti dei deboli non attraevano quanto quelli dei potenti, a meno che il potente non fosse il carnefice e il debole la vittima, cosa che in qualche modo garantiva, anche nello spazio apparentemente neutro dell’immaginario, una corrispondenza con l’ordine e la diseguaglianza sociale esistenti. A lungo sottovalutati nel loro insieme, i Crimes vengono ora considerati per quello che realmente sono: una sorta di palestra preparatoria per i romanzi storici pubblicati da Dumas a partire dal 1844-45. In effetti, il criterio di scelta dei delitti e dei fatti raccolti dallo scrittore francese insieme agli apprendisti della sua «usine à écrire» sembra improntato più alla notorietà dei casi, che a una precisa delimitazione temporale. Si passa dunque dal parricidio compiuto da Beatrice Cenci nella Roma del XVI secolo, ai crimini dei Borgia, dal rogo che accelerò l’ascesa al creatore del prete cattolico Urbain Grandier, accusato di stregoneria e patti col diavolo nella Francia del diabolico Richelieu, alla fucilazione di Murat (episodio sul quale più che notizie d’archivio, influirono le memorie dirette di Dumas). Resta il problema dei sei episodi scritti in collaborazione con i «negri» e cofirmati con loro.
A chi attribuire, in questi più che in altri casi, la paternità dei racconti? Se Dumas firmò con Auguste Arnould gli episodi dedicati a Derues, La Constantin e L’homme au masque de fer (da non confondere con l’omonima figura del romanzo Il visconte di Bragelonne), con Félicien Malefille e Narcisse Fournier contrassegnò rispettivamente Martin Guerre e Ali Pacha. Più singolare e interessante, invece, il caso dell’ultimo racconto, Nisida, «napoletano» per ambientazione e stile, attribuito alla penna di Pier Angelo Fiorentino. Attraverso la figura esemplare di Pier Angelo Fiorentino, tra i pochi capaci di guadagnarsi fama non riflessa, è forse possibile comprendere meglio le complesse alchimie della nascente «officina» di Alexandre Dumas. Nato nel 1810, coltissimo e poliglotta, Fiorentino era una penna irriverente capace di fondare a soli ventuno anni due quotidiani di stampo liberale, l’«Omnibus» e «Il Vesuvio».
Trasferitosi a Parigi, in seguito a una strana vicenda di offese regolate a duello, Fiorentino si trasformò in commediografo e autore di testi per il Grand Guignol, dedicandosi soprattutto alla difficile impresa di tradurre la Commedia di Dante, apparsa con una sua lunga introduzione da Hachette nel 1846. Alcuni anni prima, un’altra versione di Fiorentino, stavolta dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis era stata attribuita guarda caso proprio a Dumas. Fiorentino si riservava il «merito», tutto suo, dell’introduzione. Peccato che più che a Foscolo, spazio e elogi venissero riservati al «traduttore ufficiale», Alexandre Dumas.
Fiorentino e Dumas si conobbero nel 1835, in occasione del passaggio a Napoli dello scrittore francese e la loro collaborazione si estese dai Crimes célèbres alla stesura di alcuni capitoli del Conte di Montecristo e, soprattutto, di Corricolo, il libro apparso nel 1843 e dedicato proprio al soggiorno nel Regno di Napoli risalente a otto anni prima. Nella premessa a una «moderna» edizione del Corricolo, pubblicata da Ricciardi nel 1950, lo scrittore Gino Doria definiva Pier Angelo Fiorentino come un «Dumas in sedicesimo». Il suo temperamenteo artistico, il suo modo di vita, il suo spirito «avventuroso, gaudente, attaccabrighe e – diciamolo pure – profittatore della penna» lo facevano in tutto e per tutto simile al suo «maestro» francese.
Gli italiani badino a se stessi
Grazie a Dumas, Fiorentino riuscì a guadagnare una discreta fortuna e alcune letture attribuiscono alla sua penna tutti i tomi dei Crimes Célèbres. Difficile, a questo punto, capire dove si fermi l’opera del maestro e dove cominci quella dell’allievo. Di certo, nelle sue Causeries, Dumas dovette premurarsi di smentire certe voci che – almeno dal 1848, quando Fiorentino tornò in Italia per prendere parte ai moti della Repubblica Romana – cominciavano a circolare. Nelle sue note dedicate allo Stato civile del Conte di Montecristo, Dumas precisava: «Perché mai nessuno crede che io abbia scritto la Divina Commedia? Eppure, giusto per riferirmi a un solo caso, in Italia tutti pensano che a scrivere Il conte di Montecristo sia stato tal Fiorentino. Fiorentino ha letto Il conte di Montecristo, come tutti, ma non l’ha letto prima di tutti gli altri. Sempre che l’abbia letto davvero».
Gli italiani, concludeva Dumas, dovrebbero accontentarsi delle opere di Manzoni e D’Azeglio, eventualmente meditare sui loro plagi e sui loro «negri», lasciando perdere il resto.