Dove si nasconde l’Occidente. Intervista con Alberto Abruzzese
Marco Dotti
Tira una brutta aria, per capirlo basta guardarsi attorno. A Pontoglio, paese al confine tra Brescia e Bergamo, sono alcuni cartelli stradali a segnare il passo: “Paese a cultura Occidentale e di profonda tradizione Cristiana”. Maiuscole e minuscole sono lì, a ricordarci con chi o con che cosa abbiamo a che fare. Ma non spetta a noi scegliere il tempo in cui vivere. Ci capitiamo dentro. A noi, però, spetta tentare di capirlo. Ne parliamo con Alberto Abruzzese, professore emerito di sociologia, “archeologo” dell’immaginario.
Abruzzese ha insegnato alla Sapienza di Roma e allo Iulm e, sulla questione, ha da poco pubblicato Punto zero. Il crepuscolo dei barbari
L’Idra occidentale
Professore, tornano vecchie parole, tornano vecchi ritornelli, tornano canti di guerra e canzonette di pace. Tornano, però, anche vecchie questioni. Aperte come ferite. Partiamo dalla prima: “Occidente”.
I “canti di guerra” e le “canzonette di pace” non sono mai scomparse ma la loro percezione e conseguente attività sull’intera crosta terrestre è stata oscurata dalla potenza selettiva dell’immaginario collettivo che i vincitori della storia hanno via via steso sul mondo intero. Per troppo lungo tempo – prima che internet segnasse una sostanziale differenza espressiva nel suo riuscire a liberarsi delle qualità accentratrici dei media tradizionali (senza tuttavia potersene privare) – il sentire globale ha spento il sentire locale, situato, privandolo della sua luce e calore.
La centralità dell’immaginazione sociale ha sommerso i sensi di ogni sua piega o periferia o vuoto. Seppure in diversa misura, diversa intensità, l’Occidente è dovunque.
Che cos’è, oggi, questo “Occidente”?
Non è più o non è più soltanto una estensione di territori geopolitici e economici, ma – in virtù delle sue capacità di astrazione e insieme radicamento – s’è fatto “spirito del tempo” dotato di una immane memoria storica e ideologica che dilaga al proprio esterno e che dall’esterno si riversa al suo interno. L’Occidente è senza misura, smisurato, sfrenato. L’Occidente – divenuto ben presto sinonimo di modernità, democrazia e imperialismo – è ora sconfinato ed è proprio questa caduta dei suoi confini, questo suo potere di contaminazione al di là di ogni sua e altrui barriera, a costituire il maggior rischio di vita anche per le civiltà, i soggetti e i sistemi che lo hanno fondato. La sua natura onnivora, necessaria alla sua stessa sopravvivenza, l’obbliga a continui giochi di guerra (simulazione di guerre che costruiscono tregue e tregue che costruiscono guerre: i regimi di pace sono stati sempre guerre condotte con armi particolari, fredde). E ora non c’è guerra di cielo o di terra che possa competere con le reti digitali, con la loro capacità di portare a compimento le matrici ancora silenti dell’Occidente, le potenzialità più nascoste del mondo di conflitti che l’Occidente ha messo a “sistema”.
Lo “spirito occidentale” possiamo rappresentarlo come una grande Idra: mostro che avanza nel mentre le sue tante teste s’azzannano tra loro per alimentare uno stesso, unico ventre. È obbligato a intrattenersi con civiltà che, spinte da una medesima necessità di dominio, lo contrastano volendo esse stesse farsi storia del mondo, mondo della storia.
Oppure culture che, appena giunte all’alba del proprio risveglio non possono resistere alle sue seduzioni. Su questo “passaggio a occidente” di ogni Oriente che viene, s’aggrumano tante diverse narrazioni del passato e del futuro. Un pensiero immediato, tutto al presente da realizzare, è condizione di questo passaggio. Il tempo della occidentalizzazione estrema, per quanto sempre penultima, è un presente iper/temporale che accende e per ciò stesso consuma, brucia, ogni memoria e identità: locale, urbana, nazionale, istituzionale, culturale e quindi anche familiare e personale. L’Occidente si lancia in avanti per riannodarsi sempre al proprio fulcro: là dove l’essere umano ha trovato le condizioni più favorevoli e costituirsi in sovranità sul mondo.
Occidente è la parola di un coacervo di visioni, di simboli invasivi, che legano tra loro natura e civiltà. La parola richiama, ammantandosene, il sole che finge di girare continuamente intorno al pianeta e in ogni suo punto celebra il tempo ciclico della natura, tempo segnato dalla necessità al pari di quello umano.
La definizione geo-astrale di Occidente ha in sé l’immagine illusoria di un sole che, raggiunto il proprio culmine, è destinato infine a cadere nel proprio stesso tramonto per poi spegnersi oppure perdurare come luce diffusa, boreale. Ed essere così perso di vista sino a quando, dalla sua notte e dall’incertezza dell’alba, non emerga un nuovo sole. Il Re è morto, viva il Re. Dunque una immagine – questo sole, che appare e sul suo apparire significa le cose, in paradossale analogia con il tempo della storia occidentale, segnato sin dall’inizio dal suo necessario tramonto e ora dal suo travaglio più drammatico, appunto quello della sua perdita di orizzonte. Soggetto afflitto dalla domanda, sempre rimossa, se sia possibile vedersi rinascere dopo la propria notte. Tempo che per sopravvivere ha dovuto costruire la sua notte artificiale producendo i sogni ad occhi aperti dell’immaginario collettivo.
“Occidente” è, solitamente, un termine in uno scenario, non particolarmente complesso, che implica la compresenza di altri due termini che, se non definiscono a pieno la questione, quanto meno ci fanno capire in che maglie o in che briglie siamo costretti: “Civiltà” e “declino”.
Occidente è la parola di una forza economico-politica che ha ritagliato il suo spazio in positivo e in negativo su tutto il mondo rimanente, tempi e luoghi in attesa della sua potenza. Ed ha di molto anticipato il proprio sopravvento sull’altrove dello spazio facendovi penetrare i suoi raggi ancora prima che la sua sfera visiva, il suo globo, apparisse pienamente su tutte le terre del pianeta. Occidente è parola che s’è dissipata nel mondo al di là di ogni frontiera geopolitica e culturale. La radice universalista e assolutista della modernità (sovranità, scienza, progresso tecnologico, mondanizzazione e disincanto) – divenuta al suo stesso apparire specifica cifra dell’Occidente – ha confermato la sua originaria inclusione di tutte le culture di insopprimibile vocazione al dominio. Vocazione che da politeista, greco-romana, s’era fatta monoteista, ebraico-cristiana, poi civiltà urbana, estetica e politica dell’umanesimo. Infine, all’alba dell’industrializzazione, illuminista e di lì a poco romantica: spirito identitario delle nazioni e destino metropolitano della vita quotidiana. Al culmine, vocazione al consumo. La civilizzazione – come arma di persuasione delle moltitudini (guerre e più avanti, ora più che mai, appunto consumi) e come comunità/società ad essa sottoposte in forme dolci o violente, alternative o asservite – riguarda non solo la vita quotidiana delle genti ma ogni “cosa” del mondo: l’Occidente ha invaso anche gli oggetti d’uso; gli effetti della sua tecnologia sono entrati a modificare gli ambienti prima ancora che i loro abitanti e utenti si accorgessero di vivere di beni di sopravvivenza che non erano già più di loro proprietà. Lo spirito proprietario è il manto che – con i suoi secolari ritmi sincronici e diacronici – l’occidente ha steso sull’istinto proprietario della singola persona. Progressione civilizzatrice che né il francescanesimo della povertà né il comunismo della politica sono riusciti a impedire e tantomeno ad arrestare.
L’attuale scenario mondiale, trafitto dallo stesso fallimento, dimostra quanto sia difficile, impraticabile, occuparsi della persona dimenticando i suoi vincoli societari, la vita obbligata in cui essa è corazzata, e occuparsi della società dimenticando la vita nuda delle persone.
Siamo davvero al “declino dell’Occidente”, al “declino di una civiltà”? O, come sembra suggerire una lettura del suo recente Punto zero, siamo al contempo in una “fase aurorale” che è nostro compito affrontare e capire? Ma con quali strumenti?
Bisognerebbe rileggersi la grande letteratura che – non parlo solo di filosofia ma anche narrativa, poesia e persino arti – ha prodotto lo spirito dell’Occidente e vi è riuscito non solo e semplicemente assecondandolo ma soprattutto criticandolo. Dandolo precocemente in declino, quasi da subito inadempiente rispetto ai suoi fini. Un ripensamento nato dunque assai prima del declino presente, quello che ci riguarda tutti da vicino e che ci minaccia e minaccia il mondo.
Semplificando al massimo: l’idea di declino occidentale s’è sviluppata parallelamente alla fase del suo pieno decollo in modo da potere legittimarne e purificarne i valori. In questa sostanziale “copertura” della volontà di potenza espressa dalla occidentalizzazione del mondo, l’Umanesimo ha svolto un ruolo fondamentale.
Si può dire che la civiltà umanistica (dal centro del vecchio mondo alle frontiere dei mondi “nuovi” del pianeta) è stato la potenza di pensiero che ha cercato di affrontare gli stessi nodi critici che oggi stiamo tentando di affrontare. Questo basta per ammettere che, volendo ora ridare una qualche vita possibile alla civilizzazione occidentale, sarebbe un errore fatale tornare a usare lo stesso antidoto umanista che a suo tempo ha mostrato non tanto di fallire nel proprio scopo ma piuttosto di essere l’ingrediente necessario a trasformare la civilizzazione in un destino umano inarrestabile? A me pare proprio di sì.
Torna il circolo dei combattenti
Quello occidentale sembra più uno stallo, che un terreno comune. O meglio, sembra qualcosa che riaffiora solo quando a riaffiorare sono la paura è il terrore…
Veniamo al rumore di voci del presente.
Lo stallo mentale degli occidentali, oggi impegnati a parlare del rischio mortale che corre la loro civiltà, consiste nel non riuscire a pensare gli strumenti da dovere utilizzare separando l’elaborazione delle idee da inventare dalla discussione sui fatti che si impongono come necessari a garantire la sopravvivenza dell’essere umano in quanto società. Si stenta a capire che queste idee, perché siano davvero senza precedenti, senza vincoli obbligati, possono venire soltanto da una coscienza personale opportunamente liberata della sua “falsità” e quindi liberata della educazione sociale ricevuta.
Una effettiva coscienza, effettivo disincanto, dell’Occidente – e non il nuovo incantamento che cresce ora sotto la minaccia islamista – dovrebbe spingere ad avere eguale consapevolezza del pericolo estremo di una violenza in tutto contraria alle leggi della convivenza civile, tanto quanto dell’obbligo alla violenza socialmente imposto dal proprio stesso sistema d’appartenenza. È per questa cruna dell’ago che è necessario passare per potere vivere lo stato di necessità che ci obbliga a non soccombere, morire, e a difendere gli affetti che ci legano e ai quali siamo legati: stato di necessità nostro – occidentale – al pari di quello espresso da altre necessità in tutto contrarie alle nostre eppure inseparabili da noi stessi proprio in quanto parimenti umane. Se mi dichiaro responsabile di avere contribuito alla nascita di un mostro e addirittura capisco e dichiaro che sono io stesso il mostro che ho prodotto al di fuori di me, dovrebbe bastare il buon senso della vita quotidiana a farmi dire che farò di tutto per difendermi dal mostro che mi sta davanti e che lo farò a mia volta con la violenza necessaria allo scopo.
C’è un margine di maggiore responsabilità nei confronti del dolore umano se tengo insieme coscienza e violenza? Credo di sì. Nell’opinione pubblica mediata dai mezzi di comunicazione e ai vertici della politica e delle istituzioni, i più parlano invece a partire da un realismo in tutto diverso, totalmente privo della capacità di maturare una autocritica dettata dal diritto alla vita della persona: non il diritto del soggetto identitario che sono e al quale sono affezionato (e insieme di cui sono affetto), ma il diritto di qualsiasi persona a non soffrire e a non morire.
Si può pensare come persone e insieme dovere agire come soggetti legati alle nostre proprietà (beni, valori, costumi)?
Io credo di sì, anzi credo che si debba riuscire a vivere proprio dentro l’intervallo tra persona e soggetto. Il discorso sulla fase aurorale che staremmo attraversando impone la consapevolezza di essere a un bivio esistenziale che rende in tutto particolare la nostra esperienza: vivere impegnandosi ancora una volta nella ricerca di strumenti adatti a risalire la china delle fortune occidentali, oppure vivere nella intuizione e – se possibile – produzione di strumenti assolutamente inediti? Praticare una rivoluzione paradigmatica? Questo dilemma dipende dalla analisi che facciamo del declino occidentale, magari badando a non confondere del tutto il declino occidentale (in quanto sistema mondo) con il declino dell’Occidente (in quanto “fronte” delle nazioni storicamente occidentali). È un dilemma, ripeto, che non può essere affrontato in spirito di rassegnazione e sacrificio ma neppure con gli stessi strumenti emotivi e mentali usurati dalle stesse culture occidentali (una umanitaria resa al nemico o una guerra senza reale fondamento sono ambedue scelte disastrose per la persona umana (carne e vita), soggetto che non dovrebbe essere sottoposto ad alcuna eccezione di parte, anche la più terribile).
Un dilemma che non può essere affrontato è forse già più è già oltre il dilemma… È un nodo che, come il celebre nodo di Gordio, possiamo solamente recidere, non sciogliere…
Il dilemma che ci attanaglia non può essere affrontato con le parole di cui l’Occidente dispone, tanto più nel caso che questo fine d’epoca si mostri in tutto diverso dai precedenti e cioè a tal punto brutalmente irreversibile da bloccare ogni sostanziale mutamento qualitativo, impedendo tanto una mossa restauratrice, un passo indietro, quanto una inaspettata “mossa del cavallo”, un passo avanti. Se – come si ha ragione di credere – siamo davvero di fronte a questo specifico e inedito finale d’epoca, allora non si può continuare a ragionare parlando di declino della civiltà ma soltanto di irreversibile declino proprio dei valori con i quali si continua a credere di poterla risanare. Al momento, infatti, il declino di questi valori non viene riconosciuto come oggettivo ma sempre di nuovo affidato a un soggetto che si ritiene responsabile della sua sopravvivenza. L’intero sistema sociale opera direttamente e indirettamente come intervento formativo sulla persona al fine di parlo partecipare alla sua soggettività.
Dove si nasconde il sociale?
In un’intervista che ci ha concesso l’antropologo Jean-Loup Amselle, si rimarcava che, in questa società che si pretende “sotto controllo” e si sente “sotto assedio”, mancano le strutture di incardinamento. In sostanza, i giovani soffrirebbero della mancanza di una narrazione condivisa, di una pratica di formazione comune, incarnata un tempo dal servizio militare, dalla scuola e, oggi, si forse, ma solo in embrione, da un servizio civile reso però mera burocrazia. Afferma Amselle: “Il problema, allora, è che le società occidentali, la Francia tra le altre, non offrono alcuna prospettiva e alcun futuro ai giovani. Non parlo solo in termini di impiego e lavoro, ma anche in termini di incardinamento intellettuale. Non c’è più un «racconto nazionale» coerente, non ci sono più partiti, niente sindacato, niente scuola, niente servizio civile o militare, niente che sia capace di dare un senso all’esistenza di questi ragazzi. In un contesto simile, il culto del denaro promosso dal liberalismo non basta per dare ordine alla vita di queste generazioni. Questo vuoto spalanca le porte a ideologie di tipo spiritualista e new age che oggi sono rigogliose e fiorenti”.
In questo senso, anche in questo senso, Amselle affermava che la guerra è oggi “guerra al sociale”. Lei che ne pensa? Anche tralasciando le vecchie diatribe (Touraine, etc) sulla sua morte o sul suo stato comatoso, il sociale è una categoria che può essere presa acriticamente o, anche qui, dobbiamo affilare gli artigli della critica?
Per molti aspetti l’apporto dell’antropologia è stato, al pari della semiotica, un toccasana per la sociologia più vicina al razionalismo strumentale dei sistemi sociali che pure essa tendeva a criticare per liberarli dei loro difetti e per migliorarne gli strumenti e gli obiettivi. Antropologia e semiotica hanno infatti rimesso in campo le strutture espressive che soggiacciono e insieme sovrastano le strutture sociali. Recentemente mi sembra che alcuni antropologi stiano imboccando una strada diversa – a mio parere regressiva (penso non solo a Jean-Loup Amselle ma anche, ad esempio, a Marc Augé – in cui il sociale, anche e forse soprattutto quando è criticato, viene trattato restando all’interno delle più classiche dicotomie moderne. Entrando nel merito: a me pare che lo smarrimento dei giovani – e dunque delle generazioni che da qui a poco s’apprestano a costituire il corpo della società e i suoi ceti dirigenti – abbia ragioni in tutto diverse da quelle dichiarate nell’analisi di Amselle. Riprendo la mia idea che sia proprio il perdurare dell’Umanesimo nelle nostre istituzioni a bloccare ogni via d’uscita dalla crisi attuale di governabilità del mondo: i giovani non hanno trovato “incardinamento” nel sociale a motivo della stessa società che ha preteso di educarli sulla base di valori “scaduti”. Sono proprio le agenzie di socializzazione (condivisione) elencate da Amselle sotto il cappello di “racconto nazionale” (lavoro, partiti, sindacati, scuola, servizio civile o militare, ecc) a fare dei giovani degli “scardinati” dal mondo di chi pretende amministrali. Tra questi e loro c’è il silenzio.
Situazione che qualsiasi docente e formatore in questi anni ha provato (la porzione di giovani inquadrati ancora nei vecchi ruoli sociali è una eccezione che conferma la regola e per di più una eccezione che spesso ripercorre aspirazioni e obiettivi della tradizione oppure adotta innovazioni che tuttavia alla tradizione restano vincolate). Ripeto: è il sociale che si impossessa della persona proprio nel momento in cui essa è sottoposta alla sua tras-formazione in cittadino e in identità di ruolo. Dunque è nella persona umana che va letta la sua resistenza al linguaggio della società. Tra la lunga durata di persone che hanno corrisposto all’inquadramento e radicamento predisposto per loro dalle istituzioni civili e la rapida e rovinosa frattura che si è aperta ora, gli “artigli della critica” non dovrebbero avere dubbi nel separare il senso degli sradicati dal corso delle sorti occidentali. E non bastano “gli artigli”: c’è un lento lavoro da fare non per colmare il silenzio che ho detto, ma per costruire la persona e sottrarla all’esilio al quale è stata condannata. Questo significa ripercorrere tutte le tappe del tempo comunitario e societario in senso anti-umanistico. Il pagano Graal di questa ricerca è la cognizione – da parte della persona – non della impossibile libertà del suo corpo dalla sovranità del desiderio, ma della sofferenza della sua carne, del vivente, come unica certezza del destino umano. Unica “verità”, unico “fatto”.
Questi “giovani” senza incardinamento alcuno sarebbero dunque i nuovi “barbari”? Alla fine, sono arrivati?
Da come mi pare giusto definire i giovani, mi sembra che essi sfuggano alla dicotomia storica tra barbari e civilizzati, legata come è a un divario di capacità espressive misurato comunque sul metro della civilizzazione. I giovani – o almeno i giovani definiti da Amselle come “non incardinati” – sono fuori della civilizzazione occidentale. Non sono né barbari né civilizzati. Avendo in mente che i bisogni nascono da condizioni di necessità per la sopravvivenza, nel mio Punto zero. Il crepuscolo dei barbari già dicevo che i civilizzati – per quanto sempre pronti ancora a rivendicare forme e valori della loro struttura verticale e selettiva per mantenere i propri privilegi – non hanno più bisogno del barbaro per rigenerarsi essendo ormai oggettivamente caduta la dialettica politica su cui il fantasma del barbaro è stato costruito. E soprattutto è il barbaro a non avere più bisogno del civilizzato per emanciparsi in quanto è proprio quest’ultimo ad avere perduto la capacità di farlo nei propri stessi confronti. Semmai è appunto il civilizzato ancora tanto convinto della rivendicazione della propria supremazia a dovere porsi il problema del suo imbarbarimento.
Veniamo ai fatti di Parigi. Un dato proveniente dal Dipartimento di Stato americano rileva che il 45% dei terroristi ha una laurea. I restanti hanno comunque un titolo di istruzione superiore. Qualcosa, tutto questo, ci dovrà pur dire… Siamo dinanzi forse a una nuova configurazione oscena tra “alfabetizzazione”, “integrazione” (questi “terroristi” non vengono da fuori, ma da dentro. Li abbiamo fatti in casa e li esportiamo in Siria) e violenza?
Suppongo che sul campo di guerra questi dati siano ben noti. Dietro al silenzio sulla composizione sociale dei terroristi da parte dei più chiamati a fare opinione e soprattutto dei tanti che se ne lasciano influenzare, a me sembra che si nascondano pregiudizi, rimozioni e esorcismi di ogni tipo e tra loro contrastanti. Sentimenti raccolti intorno ad una sorta di razzismo che fa del terrorista il grado più basso della scala sociale … quasi che il buon cittadino d’Occidente pensi che gli orrori compiuti dal terrorismo non possono che essere frutto di ignoranza. Persino la convinzione che dietro ai loro atti vi siano credenze in grado di legittimarli e culture in grado di condividerli, non basta a convincere che istituti come la scuola e sistemi professionali possano produrre stragi e comandare sacrifici di sangue ai propri “soldati”. Al contempo, anche quando è riconosciuta la natura culturale se non razionale delle azioni “contro-natura” dei terroristi, tale convincimento non indebolisce ma anzi rafforza l’idea che essi vadano eliminati con una violenza pari alla loro.
Eserciti per metà fatti di ceti colti sono testimonianza che non si tratta di semplici rivoltosi ma di uno stato in nuce. Uccidere straccioni armati appare più facile di quanto sia uccidere gente che, a parte costumi e religione, ti è simile.
Tralascio le tante considerazioni che si potrebbero fare su momenti della storia in cui avanguardie sociali – di popolo e di élite – sono apparse come scellerate forme di malvivenza e criminalità per il fatto di operare contro l’ordine costituito. Tralascio anche una riflessione, che pure andrebbe fatta, sul giudizio da dare a manifestazioni di crudeltà efferata sulle quali bisognerebbe ragionare sapendo leggere e separare tra loro i dati qualitativi e quantitativi. Senza nulla togliere all’orrore che costituiscono o dovrebbero costituire per ogni persona in grado di immaginarne e misurarne l’effetto sulla propria carne, andrebbe detto che una sola morte violenta vale un eccidio. E un eccidio una sola morte violenta. E tutte valgono indipendentemente dalle motivazioni.
Ancora la guerra, dopo la guerra
Guerra “da destra”? Destra, sinistra… le polarità sembrano saltate, eppure orientiamo ancora il mondo in base alle polarità più convenzionali … Queste funzionano forse nel campo del discorso intellettuale, ma nella realtà il mondo sembra non solo disorientato, ma diversamente orientato.
Sempre più incerta e contraddittoria la democrazia, sempre meno credibili le distinzioni tra destra e sinistra su cui essa si è basata. Bisognerebbe riuscire a tracciare graficamente la storia dei rapporti tra destra e sinistra a partire dal loro inizio per arrivare sino al presente. Ne risulterebbe una trama complessa di linee che, nel loro progredire, si fanno sempre meno definite mano a mano che si allontanano dalla loro radice. Dalle occasioni primigenie del loro avvenire. Destra e sinistra sono la definizione di reazioni di opposto segno vissute in virtù della civilizzazione e che via via si sono incorporate in tradizioni e sensibilità nazionali e internazionali.
Di certo si tratta di distinzioni frontali che, in base a contenuti emotivamente vissuti sul territorio, ai suoi vertici e alla sua base, hanno però facilitato l’acquisizione di capacità di orientamento del cittadino, non solo per quanto riguarda l’espressione del voto ma anche il suo vissuto. La politica sopravvive o pretende di sopravvivere grazie alla resistenza delle sue mappature identitarie, mentre invece la vita quotidiana queste mappature le piega e le adatta ai propri bisogni. Nobili o ignobili che siano. E tuttavia seppure in modo molto complesso destra e sinistra continuano a funzionare proprio in quanto semplificazione dei conflitti di opinione.
Ciò che di innovativo si è manifestato in movimenti di opinione come le leghe, il berlusconismo e il grillismo è stato assorbito e mortificato dal fatto che rispetto a loro sono risultate assai più forti le mappe dicotomiche del pensiero oppositivo facente capo alla differenza tra destra e sinistra instaurata in Italia soprattutto nel dopoguerra grazie a partiti che seppero lavorare in modo potente sui propri stereotipi. Sta di fatto che a me non pare qualunquista (del resto tipica accusa di una tradizione politica elitaria) l’idea di chi vorrebbe vedere spazzata via la distinzione. E’ ragionevole pensarlo, meno ragionevole sperarlo senza avere una matura e responsabile idea della politica nelle condizioni attuali del mondo (cosa diversa da avere una idea politica da contrapporre ad un’altra idea politica).
L’autorità di “coloro che soffrono” – di cui lei parla nella prima parte di Punto zero – oggi sembra ridotta a caricatura. Ci sono “riti piaculari”, per citare Durkheim, ci sono marce, hashtag, commozione, ma sembriamo incapaci di farci carico di questa parte dell’umano – che è parte di noi – che sulla sofferenza potrebbe edificare qualcosa…
“Caricature” del dolore nel senso che caricare di dolore le immagini è pratica usuale nell’informazione quotidiana, in forme tendenzialmente più strumentali e elementari, spesso ciniche, di quanto siano state quelle del cinema e della letteratura come forme espressive. In ogni caso si può dire che lo spazio del dolore è stato ed è quello della fiction. E si può dire che questo slittamento del dolore dalle rappresentazioni civili, dal senso comune delle istituzioni, dentro grandi finzioni collettive sia accaduto – similmente al culto della morte – quanto più il dolore s’è fatto assente nelle pratiche della razionalizzazione sociale: dalle leggi (si pensi alle condizioni di estrema sofferenza della carceri), alle politiche sociali (si pensi alla tendenziale scarsa considerazione della povertà e della salute), alle reazioni contro temi come l’eutanasia, alle politiche internazionali a fronte del sottosviluppo e della fame di interi popoli), alla scuola e all’istruzione.
Si pensi a quanto poco presente sia l’attenzione a considerare il dolore come tema integrante di ogni disciplina. E questa frigidità scientista del sapere istituzionale sta rincarando le sue dosi strumentali in tutto l’Occidente, comprendendo in sé anche le ultime mosse riformiste, oltremodo maldestre, della nostra università, in cui l’Umanesimo viene emarginato, riducendolo a senso comune, invece di essere “distrutto” – si potrebbe dire decostruito, se l’operazione non gli facesse da riparo – da una visione in tutto diversa delle scienze umane.
Dopo la strage nella redazione di Charlie Hebdo, il sociologo Michel Maffesoli offrì una sua lettura molto interessante di questo fenomeno…
Leggi: Michel Maffesoli, Riti comuni oltre il fanatismo ateo e devoto
È in tal senso che Michel Maffesoli – proprio per questo aspramente criticato dalla sociologia accademica – ci offre una lettura del presente estremamente più sensibile nei confronti della dimensione “sacra” che va sempre più caratterizzando i comportamenti collettivi: nelle sfere della vita quotidiana invece che ai suoi vertici politici e sapienziali. Maffesoli è un maestro nel rileggere le fonti originarie del pensiero sociologico (a partire da quelle sulla elaborazione del lutto, su una sfera simbolica rigeneratrice delle ferite sociali) in una direzione radicalmente opposta ad ogni “laicità dogmatica” e “razionalismo sterile”. Si domanda e risponde così: “Non si era detto che la modernità aveva avuto inizio con la fine degli angeli e dei demoni? Eppure eccoli di nuovo, nel bene e nel male, pronti a tornare nella nostra nascente postmodernità”.
L’incapacità che i regimi sociali dimostrano nel non riuscire a riprendersi dai traumi di questo nostro finale d’epoca, restando così inchiodati all’aspetto catastrofico della crisi economico-politica del nostro tempo, proviene proprio dalla difficoltà che i ceti dirigenti incontrano nell’interpretare la complessità di un mondo senza senso che appare rivoltarsi contro di loro.
Paradossalmente – e a dimostrazione di quanto sia povera e ottusa la lettura di coloro che lo criticano – è proprio Maffesoli a offrire la consapevolezza necessaria a chi pretende di rinnovare la modernità. Mentre invece, è proprio la sua piena aderenza alla sostanza più profonda dell’Occidente, alla sua potenza metamorfica, a costituire per me un limite della sua filosofia. Che continua a ragionare sulla traccia nicciana meno radicale, quella della con-fusione tra mondo dionisiaco e mondo apollineo, tra regimi del disordine e regimi dell’ordine, invece di romperne una volta per tutte la dialettica.
Un terrorismo radicato
Isis e immaginario. Non crede ci sia stata una fascinazione perversa rispetto all’immaginario tanatologico dell’Isis? La capacità di radicarsi di questa compagine terrorista sembra senza precedenti: radicamento nell’immaginario, radicamento territoriale. Non so per quale ragione, ma credo che tutto questo abbia a che fare anche con la pornografia, e qui torniamo al “noi” all’attitudine del nostro sguardo…
Vero, la traccia può essere il noi occidentale che fa parlare la nostra persona, la nostra maschera, il nostro vuoto. Un “noi” illuso d’essere mondo e dunque espressione del “tutto” e di “tutti”. Si può capire così quanto sia di per sé “religiosa” questa dipendenza istintiva da una sovranità tanto assoluta da richiamare quella di un dio o di un impero. E dunque quanto siano fuorvianti le distinzioni che si fanno nel nome del “noi” occidentale pretendendo di opporre credenti a laici, o credenti in un dio piuttosto che in un altro.
Si tratta quindi di cogliere nel nostro “noi” una volontà di potenza – volontà istituzionalmente e socialmente disposta e educata dentro la persona – che comunque si riferisce e affida ad una potenza preesistente, innata e senza fine. Questa operazione è inclusiva a misura della sua natura perfettamente (delittuosamente) esclusiva. Praticata dal linguaggio del “noi” occidentale, è una rimozione mentale di tutto ciò che è restato escluso dal significato universale del “noi” della storia scritta dai suoi vincitori. Si può dire che non riusciremmo più a pensare e comunicare senza appartenere a questa rimozione.
Anche quando si cerca di affrontare gli altri “noi” che sono esistiti ed esistono nel tempo e nello spazio – dai “noi” delle comunità del mondo e del presente al “noi” dell’Islam fondamentalista – lo facciamo a partire dallo stesso ordine del discorso che ci detta la nostra rimozione della seconda persona e inclusione totalitaria della terza. Qui si spiega il “radicamento” del terrorismo nei territori mediatici dell’immaginario.
Ogni grande rimozione produce disturbi emotivi dell’immaginazione e quindi del desiderio, ecco allora che l’orrore del terrorismo, percepito e/o reale, si sovrappone ad ogni distinzione razionale e assume il carattere di una ossessione necessaria, di una fascinazione, attrazione, liberatoria: il “noi” della civilizzazione riesce a includere gli esclusi della terra solo come fantasma di un orrore senza barriere, universale.
A causa della debolezza e della mancanza che contraddistingue il nostro corpo di carne – da bestia che era, fattosi progressivamente uomo in virtù della sua intelligenza tecnologica – l’agire sociale non sfugge allo stato di necessità di ogni cosa vivente, ma dovendo supplire all’ordine (pur relativo) della natura, entra in una dimensione sempre più perversa, tanto aperta cioè necessità di violenza da spingersi sino alla violenza per la violenza. E al tempo stesso farne un atto da negare e di conseguenza sanzionare come colpa. L’animale carnivoro è spietato – non può che essere tale – nel soddisfare la sua necessità di uccidere in un sistema in cui parimenti necessaria è la vittima. Al contrario l’essere umano ha inventato la pietà. Di conseguenza ha potenziato l’eros.
Lo slittamento nella dimensione sado-maso delle immagini del martirio del San Sebastiano e dell’estasi di Caterina da Siena mi sembra esserne una molto esplicita rappresentazione. La retorica cattolica del martirio dei santi – comunque inscritta nella centralità data al sacrificio dal cristianesimo – nasce nello stesso humus che ha visto le deliranti forme di erotismo espresse da alcuni santi. E di fatto queste sono state forme estreme di avvicinamento al divino attraverso il piacere-sofferenza della carne.
In che senso allora può essere ritenuto pertinente il riferimento alla pornografia nell’analisi delle dinamiche del nuovo terrorismo?
Non tanto o non soltanto perché nelle sue rappresentazioni e azioni ogni logica – morale, etica, sociale, estetica – viene smentita. L’attrazione per i suoi rituali mette in campo un desiderio che gioca su continui scambi tra significati e significanti. Proprio come accade nell’invasione del terrorismo sui media. Paura e attrazione qui si con-fondono tra loro (meccanica del piacere che del resto è la cifra dominante nell’arena simbolica nel grande cinema di spettacolo). Ma il rimando alla pornografia è secondo me ancora più calzante se consideriamo la sua recente fortuna digitale su un numero sempre più vasto di persone:
come e più radicalmente accade per il gioco d’azzardo, qui la pornografia è lo strumento di dissipazione della coscienza individuale, l’alterazione del proprio corpo sino a dissolverlo nella carne.
In questo senso può essere ancora esemplare la lettura del romanzo di Joseph Conrad Cuore di tenebra.
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
vol. 28, issue no. 31 december 2015
issn: 2037-0857
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