Aleksandr Lurija, archeologia del labirinto
Francesco Paolella
Nota su: Aleksandr Lurija, Un mondo perduto e ritrovato, Adelphi, Milano 2015
Al di là di ogni significato scientifico, questa storia clinica rappresenta due esperienze estreme coesistenti in una sola persona: da un lato, la caduta nella disperazione e nel caos, una caduta che non finisce mai e anzi pare accelerare; dall’altro lato, il tentativo titanico di non scomparire del tutto, di non perdersi davanti all’assurdo dell’anormalità e dell’impotenza.
Nel 1943, un giovane ufficiale dell’Armata Rossa, Lev A. Zaseckij, già brillante studente di ingegneria, viene colpito alla testa da una pallottola: non muore, si riprende anzi e mantiene intatta la consapevolezza di ciò che gli è accaduto a causa del ferimento. I frammenti del proiettile, però, provocano terribili conseguenze: la sua mente “esplode”, precipita in un caos da cui è impossibile uscire. Perde la memoria, completamente; torna a essere del tutto analfabeta. I suoi occhi e il suo cervello non comunicano più fra di loro: gli oggetti che egli riesce a vedere sono instabili, fluttuanti; non vede più la parte destra del campo visivo.
Cade in uno stato di «afasia mentale» permanente. Così comunicare diventa per lui impossibile: ha dimenticato praticamente tutte le parole; le parole degli altri sono suoni vuoti, non rimandano ad alcun significato. Zaseckij non riesce che a cogliere brandelli dei discorsi altrui; non riesce ad ascoltare la radio e non capisce la trama di un film; non riesce a rispondere a tono alle domande più semplici. E’ un ingegnere che non sa più risolvere i calcoli più semplici, che non distingue la destra dalla sinistra, il sopra dal sotto. Non sa più leggere, né tenere una matita in mano.
La sua memoria è, soprattutto nei primi tempi dopo il ferimento, azzerata. Cosa significa vivere senza passato? Zaseckij deve rinascere. O meglio: dovrebbe rinascere, il che si sarebbe rivelato, nonostante tutti i suoi sforzi e il suo accanimento, comunque una illusione. Piccoli progressi, continui fallimenti.
Aleksandr Lurija, il neuropsicologo russo che è riuscito, pur fra mille difficoltà e censure, a mantenere viva la sua attenzione di ricercatore alla realtà concreta della persona umana studiandone la memoria e il linguaggio, ci consegna in questo libro, uscito nel 1972 e ora tradotto per Adelphi, le parole stesse del soldato ferito. Raccontandoci della sua malattia e della sua lunghissima, interminabile convalescenza, Lurija decide di trascrivere ampi stralci dal diario che lo stesso Zaseckij ha tenuto con ostinazione, fatica e dolore per venticinque anni almeno. Zaseckij ha dovuto ricominciare letteralmente dall’ABC. Ogni giorno, nonostante i disturbi invalidanti di cui soffriva, ha cercato di raccontare se stesso e la sua storia sulle pagine di un quaderno. Non si è trattato semplicemente di un diario, di un esercizio terapeutico o, tanto meno, di un passatempo. Scrivere, e scrivere di sé, era per Zaseckij forse l’unico contatto rimastogli con la realtà, con il mondo. Egli ha voluto con la scrittura offrirsi come una specie di “cavia attiva”, a vantaggio degli studiosi, cercando affannosamente di descrivere la sia incredibile condizione, rincorrendo semmai per ore, per giorni, un vocabolo assolutamente banale.
Possiamo così percepire appena qualcosa dell’incubo in cui quell’uomo ha vissuto per decenni. Viveva costretto in un labirinto da cui soltanto a momenti usciva. Zaseckij era colpito da una sorta di invalidità “metafisica”: sentiva il proprio corpo confusamente, non poteva orientarsi nello spazio, ridotto a essere come un neonato, senza più la capacità di memorizzare a lungo le informazioni e senza la possibilità di recuperare i meccanismi logici più complessi.
Eppure Zaseckij non ha voluto rimanere solo una vittima. Si è fatto in un certo qual modo ricercatore. Lurija ha riconosciuto in lui, nei tanti anni della loro frequentazione e della loro amicizia, questa disperata lotta per la sopravvivenza, per una via d’uscita (per quanto precaria e intermittente) dal buio. Cosa c’è di più terribile di non poter più pensare, di non avere più a disposizione le parole che servono per pensare? Zaseckij ha lottato nonostante i fallimenti e i nuovi impedimenti che nel tempo si sono aggiunti. Ha costruito un proprio mondo minuscolo, fatto di parole scritte a fatica, ha cercato di aggirare l’incomunicabilità radicale a cui è stato condannato. Si è votato a «un lavoro da archeologo sulla propria memoria» (p. 144); anche se percepiva perfettamente la condizione in cui si trovava, non poteva più affidarsi alle immagini e ai suoni confusi e nauseanti che la sua mente gli restituiva. Per questo ha scavato in sé, ha coltivato le poche immagini, le poche parole, i minimi concetti che, di tanto in tanto, riemergevano dalla sua vita precedente; e ne ha fatto tesoro, ci si è aggrappato come ci si aggrappa agli ultimi legami con la vita.
Purtroppo questa storia clinica non ha avuto, e non poteva avere, un lieto fine; non c’è, in un certo senso, nemmeno una fine vera e propria. Zaseckij in un certo qual modo è morto nel 1943, pur sopravvivendo alla sua ferita. Da quel momento, è rimasto come congelato, rinchiuso in uno spazio angusto e buio, in uno stato di perenne dormiveglia, di cui possiamo comprendere ben poco, e già quel poco può farci fuggire terrorizzati.
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
vol. 24, issue no. 34, march 2016
issn: 2037-0857
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