Giustizia
Hugo von Hofmannsthal
Ero seduto in mezzo al giardino. Dinanzi a me correva il sentiero coperto di ghiaia, tra due prati di un pallido verde, fino a perdersi dietro il sommo del poggio, e la staccionata dipinta in verde scuro si precisava sul chiaro cielo primaverile. Al termine del sentiero si apriva nella palizzata un cancelletto. Nell’aria limpida e sottile ronzavano le api, tra la rosea e inesauribile fioritura dei pesieri. Ed ecco stridere il cancelletto e un cane saltare per primo nel giardino: un grande levriero leggiadro, dalle lunghissime zampe. E dietro il cane, richiudendo accuratamente il cancelletto, entrò un angelo: un giovine angelo biondo e snello, uno degli agili paggi del signore. Portava scarpini a punta rialzata, al fianco gli pendeva un lungo stocco, alla cintura un pugnale. Cingeva omeri e petto una fine corazza di un azzurro metallico e su di essa giocava il sole; e candidi fiori cadevano sull’oro dei lunghi e folti capelli. Così egli scendeva per il sentiero, l’esile e delicata persona tutta chiusa in un farsetto smeraldino, rigonfie le maniche dalle spalle al gomito e strette poi sino alle nocche delle belle mani. Lento avanzava e leggiadro, la mano sinistra si trastullava con l’elsa del pugnale; e il cane saltellava nell’erba, lungo il cammino del suo padrone, guardandolo di tanto in tanto con amore. E ora egli non era più lontano da me di quanto un bimbo di cinque anni possa lanciare la palla. Mi parlerà, quando sarà qui? Nel prato giocava coi fiori caduti il figlioletto del giardiniere. Traballò sino all’angelo e gli guardò i piedi. ‘Che belle scarpe hai, proprio belle!’ gli disse. ‘Eh, disse l’angelo, lo credo bene. Vengono dal manto della Madonna’.
E allora mi avvidi: le scarpe erano di broccato d’oro, intessute di non so quali fiori o frutti purpurei. ‘Una volta l’Apostolo Pietro rincorreva la Madonna’, disse l’angelo al bimbo. ‘Aveva qualcosa da dirle, e lei non sentiva e non si fermava. Allora lui, correndole dietro, le strappò nella fretta col piede un lembo del manto. Così esso fu messo da parte e ne furono ritagliate tante scarpe per noi’. ‘Proprio belle, sai, le tue scarpe!’ ripeté il bimbo. Poi l’angelo proseguì, lungo il sentiero che lo conduceva diritto al mio banco. Un’indicibile esaltazione mi pervase all’idea che anche a me egli avrebbe parlato. Poiché sulle parole che gli uscivano semplici dalle labbra era diffuso uno splendore, quasi egli pensasse, mentre parlava, a tutt’altro – ricordasse, con repressa esultanza, beatitudini del Paradiso. Ed eccolo dinanzi a me. Mi tolsi il cappello e mi alzai. Quando risollevai lo sguardo, l’espressione del suo volto mi sgomentò. Meravigliosamente belli e finii lineamenti; ma gli occhi turchini mi fissavano cupi, quasi minacciosi, e nei capelli d’oro nulla v’era di vivo ma piuttosto un sinistro bagliore metallico. Vicino a lui era il cane, una zampa graziosamente levata, e mi guardava intento. ‘Sei un giusto?’ chiese l’angelo severamente. Il tono era altero, quasi sprezzante. Cercai di sorridere. ‘Non sono cattivo. Voglio bene a molte creature. E il mondo ha tante cose belle’. ‘Sei giusto?’ ripeté l’angelo. Pareva non avere udito una parola della mia risposta. E nella domanda era un’ombra
di signorile impazienza, come quando a un servo si è costretti a ripetere l’ordine che non ha subito inteso.
Trasse con la destra il pugnale un tantino fuori del fodero. Mi colse la paura. Cercai di comprenderlo, senza riuscirvi; il mio pensiero si spense, incapace di afferrare il senso vivo di quella parola. Al mio sguardo interiore si alzava un muro nudo: penosamente, vanamente, provai a raccogliermi. ‘Ho afferrato così poco della vita’, potei alfine articolare, ‘ma a volte mi pervade un grande amore e allora più nulla mi è estraneo. E certo allora sono giusto: perché mi sembra di poter tutto comprendere, come dalla terra erompano gli alberi scroscianti, come le stelle ruotino, sospese nello spazio, e di tutto l’essenza più riposta e tutti i moti degli uomini….’.
Mi arrestai sotto il suo sguardo sdegnoso, sopraffatto da una coscienza tale della mia insufficienza che mi sentivo avvampare per la vergogna. Lo sguardo dell’angelo chiaramente diceva: ‘Che ripugnante, insulso ciarlone’. Né vi era traccia, in quegli occhi, di indulgenza o pietà. Un altero sorriso sfiorò le labbra sottili. Si volse per andarsene. ‘Giustizia è tutto’, disse, ‘giustizia è il principio, giustizia è la fine, e chi non lo comprende perirà’.
Con ciò mi volse le spalle e prese con passo elastico la via del ritorno.
Nascosto per qualche istante dalle fronde del caprifoglio, riemerse poco dopo e prese a scendere gli scalini di pietra. Scompariva ora grado a grado prima le snelle gambe fino ai ginocchi, poi i fianchi, e infine le spalle corazzate di scuro, gli aurei capelli, il berretto smeraldino. Dietro di lui correva il cane: in leggiadri e precisi contorni si disegnò sul primo ripiano della scala: poi, con un salto, balzò nell’invisibile.
[Tratto da: Viaggi e saggi, a cura di Leone Traverso, Firenze, Vallecchi 1958]