philosophy and social criticism

Musica e vita di Massimo Urbani

Ilde Mattioni

Carola De Scipio, Vita, morte, musica di Massimo Urbani, Stampa Alternativa, Roma-Viterbo 1999.

Massimo Urbani «aveva quasi vent’anni di carriera non retribuita» quando, nella notte tra il 23 e il 24 giugno 1993, fu trovato agonizzante, nel bagno del proprio appartamento. Il suo telefono tagliato era il segno evidente delle restrizioni economiche che lo avevano accompagnato per tutta la vita. Il fratello Gianni fu così costretto a chiamare l’ambulanza da una cabina pubblica, attendendola per oltre un’ora.

I quotidiani, avidi di incrementare lo stereotipo dell’artista geniale e sregolato,  parlarono di overdose, e la sua figura di musicista venne ben presto dimenticata dall’informazione “che conta”, liquidata frettolosamente in quattro righe di cronaca, sufficienti, però, a riempire lo spazio bianco tra la descrizione minuziosa, e inutile, di un delitto e una notiziola da scandalo. Il percorso artistico di Urbani, in ogni caso, non poteva passare per un semplice “riempitivo”, neppure in un panorama culturale gestito da vigliacchi, manipolato da “grandi” o “piccoli fratelli” e dalla consueta parata di servi.

Il libro di Carola De Scipio, dedicato a questo sassofonista eclettico e irregolare, mi sembra una nota coraggiosa e davvero lieta, un gesto nobile, un atto di dignità e di giustizia. È, però, una riparazione carica di rabbia, grintosa e caustica nelle testimonianze e nello stile. L’eccesso rispetto alla norma sociale e al canone artistico fu, in un certo senso, fatale ad Urbani (costituì il frutto più acre della sua esuberanza artistica e della sua eccezionale vitalità). Urbani venne emarginato dal “giro dei festival che contano”, rinchiuso in una gabbia, come uno splendido esemplare da mostrare a piccoli tratti, ad intermittenze. Si temeva il suo talento, il colore caldo delle sue note,e la scontrosità di Massimo  offriva a tutti la scusa per usarlo ed abbandonarlo ad arte: «è stato considerato un enfant prodige, usato in qualche modo e poi mollato, con la scusa che era incontrollabile, quando era chiaro che la musica che faceva era solo sua, e che nessuno avrebbe potuto seguirla, perché non all’altezza».

Costruendolo con frammenti ed interviste ad alcuni dei maggiori protagonisti del panorama jazz italiano, la De Scipio ha sapientemente sfruttato un cut-up raffinato e una non comune sensibilità psicologica, trattenendosi nei limiti severi della discrezione e della competenza, regalando al lettore qualcosa che va al di là della semplice commemorazione, e del ricordo di maniera.

Una riflessione di Luigi Bonafede mi sembra cogliere il cuore di quella libertà che, in faccia ai pregiudizi ciarlieri delle cronache, si respira ancora nella musica di Urbani: «quello che a me non piace dei film sul jazz o di chi parla del jazz, è di dargli quest’immagine di solitudine e di distruzione. Non è il jazz, ma il mondo. I film non raccontano mai di quanto si è felici quando si suona, la libertà che uno ha di alzarsi a mezzogiorno, senza un padrone…».

Come un’istantanea scattata nel momento sbagliato, o una registrazione non fatta per pigrizia, c’è un senso di mancanza nell’opera di Urbani, una sorta di incompletezza (dalle collaborazioni, non sempre all’altezza, alle occasioni irrimediabilmente dissipate), un pentimento tardivo, che ne accresce, anziché limitarlo, il fascino. La sua avanguardia, come recita il sottotitolo del volume, è tutta nei sentimenti. Perché nei confronti della vita e della musica, Massimo Urbani, uomo e musicista eretico, era e rimane sicuramente a credito.