Il trauma del debito e la lezione giapponese
di Christian Marazzi
Di fronte al rilancio di politiche monetarie espansive, come quella annunciata da Draghi la settimana scorsa e quella perseguita, volente o nolente, dal presidente della Federal reserve americana, è lecito chiedersi se per le economie sui due lati dell’Atlantico non sussista un reale rischio di “japanizzazione” [nota 1] .
Il Giappone, sin dall’esplosione della bolla finanziaria del 1990, ha vissuto un lungo, lunghissimo periodo (vent’anni!) di crescita lenta accompagnata da bassi tassi d’inflazione, addirittura da deflazione. In questo periodo, la politica monetaria accomodativa della Banca centrale giapponese volta ad assicurare l’erogazione del credito, non ha avuto praticamente nessun effetto positivo, non ha cioè contribuito a far uscire l’economia dalle secche della stagnazione secolare nipponica.
Il motivo di questo fallimento della politica monetaria risiede nel fatto che dopo lo scoppio della bolla in Giappone si è assistito letteralmente alla scomparsa della domanda di debito da parte dell’economia privata nel suo insieme, con la conseguenza che la domanda di beni e servizi ne ha risentito fortemente. Infatti, per tutti coloro che si erano indebitati, lo scoppio della bolla del 1990, con il crollo dei prezzi nel settore immobiliare e quindi con l’aumento del debito ipotecario reale, è stato un tale trauma che per tutti gli anni seguenti si è cercato solo di disindebitarsi. L’unica cosa che in tutti questi anni ha permesso all’economia giapponese di reggere a fronte del massiccio disindebitamento del settore privato, è stato l’aumento della spesa e del debito pubblico.
Oggi, in Giappone il tasso di disoccupazione è molto basso (2.3%) e buona parte dei debiti pregressi sono stati ripagati, eppure la domanda di prestiti/debiti è ancora lontana dal riprendere slancio. Il trauma del debito, di un debito reale che schizza verso l’alto a causa del crollo del valore degli attivi, è stato un tale choc che dopo oltre vent’anni c’è ancora chi non osa neppure pensare ad indebitarsi di nuovo. (Qualcosa del genere accadde negli Stati Uniti dopo la crisi del ’29). Per fortuna il Governo ha funzionato da debitore in ultima istanza!
L’esperienza giapponese insegna alcune cose importanti. In primo luogo, la politica monetaria, espansiva finché si vuole, non può nulla quando si perde l’appetito per il debito.
La finanziarizzazione dell’economia che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni è la vera causa dell’impotenza della politica monetaria, e lo è perché si basa sulla privatizzazione del debito e sulle misure austeritarie dei governi per contenere o frenare il debito pubblico. Nel capitalismo contemporaneo non c’è crescita senza indebitamento, ma un conto è il debito privato, un altro quello pubblico. Solo quest’ultimo, grazie agli investimenti in settori trainanti e innovativi dell’economia, permette alla politica monetaria di contribuire alla crescita. Da alcune recenti dichiarazioni autorevoli sembra che la lezione giapponese sia stata bene o male imparata… sembra.
Note
1. Si veda Richard Koo, “Vanishing borrowers reveal the flaw of aggressive easing”, in Financial Times, 10 settembre 2019, p. 20.
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