Chi è il poeta?
Antonio Porta
[L’intervista che segue è tratta dall’inchiesta di Silvia Batisti e Mariella Bettarini, Chi è il poeta?, Gammalibri, Milano 1980)]
A circa quindici anni dall’uscita del Mestiere di poeta di Ferdinando Camon e ormai abissalmente lontani da quegli anni Sessanta, che cosa resta (se resta qualco-sa) del “mestiere di poeta”? E che significa oggi, alle soglie degli anni Ottanta, essere poeti in Italia? È possibile “essere poeti” in una società (anche letteraria) come la nostra?
Quando Cesare Pavese nel 1934 scrisse il breve saggio intitolato Il mestiere di poeta, pubblicato in appendice all’edizione definitiva di Lavorare stanca (licenziata nell’ottobre 1935) voleva dire, con il titolo, qualcosa di molto diverso dal significato che gli ha dato Ferdinando Camon nel suo bel libro di interviste del 1969, ma insieme ne precorreva alcune pressioni di fondo, preludeva cioè a una rottura che nella poesia si andava consumando con il concetto di letteratura così come una tradizione largamente neo-classica imponeva, a tutti i livelli sociali, quale modello insuperabile di scrittura, come prodotto duraturo, su cui era conveniente investire perfino la propria memoria. Le “belle” poesie da imparare a memoria, appunto, e da ricordare per sempre, indimenticabili. Era questa una sorta di gabbia, o di cintura sanitaria, che la classe al potere, o che almeno deteneva alcune leve che aprivano alla ricchezza, grande o modesta che fosse, metteva consciamente, o inconsciamente, come per un istintivo moto di difesa, “intorno alla poesia”. Se, infatti, la poesia è mutazione (e, a volte, anche rivoluzione) il fissarla nella memoria era atto rassicurante per quanto si riferisce alla mobilità che, nonostante la diversità delle poetiche, continua essere elemento fondamentale della natura poetica. Tra memoria e rilettura- reinterpretazione sta una differenza abissale e il fatto mi pare lampante.
Più che di “fare poesia” e di “fare per mezzo” della poesia, o del fare stesso che la poesia è di per sé, era lecito allora parlare di bellezza e di folgorante mistero della parola; così una raccolta come Lavorare stanca e un saggio come Il mestiere di poeta dovevano apparire, e in realtà erano, terremotanti.
Cesare Pavese metteva infatti l’accento sul laboratorio del poeta, sia pure in relazione alla contemporanea storia della letteratura e della poesia più che a quella sociale, ma dà, nel medesimo tempo, al fare poesia forza di narrazione, quindi capacità di rottura degli schemi fissati ante-factum, “ante rem”. La sua è già una poesia articolata “in re” e l’interazione tra scrittura e sociale finisce con l’imporsi, nonostante le molte remore letterarie che Pavese tentava di autocodificarsi, quasi giustificazione della propria figura di “figlio della letteratura”. Il veleno letterario rimarrà in lui per tutta la vita, e farà sentire a tratti i suoi effetti.
Ora, varcate le soglie degli anni Ottanta, scegliendo di “non” fare bilanci, di “non” tracciare recinti, di lasciare dunque aperte molte vie (sì, gli ironizzati “centofiori”, se proprio vogliamo) il “mestiere di poeta” va comunque ripensato, in termini di figura sociale. Artigiano dell’immaginazione? Non proprio. E poi: si tratta davvero di un mestiere, lasciando per un momento da parte la necessaria perizia linguistica (rimane un discrimine molto forte tra chi sa usare un linguaggio, un suo linguaggio, naturalmente, e chi non varca la soglia del sentito dire, dei posticcio, dell’inautentico, o della “maniera” che mi appare sempre di più come un vano esercitarsi da petit clerc) o non si tratta invece di un’attività a margine, ai bordi, di una perizia di acrobati, che più sembra superflua, al limite a-sociale, più è in grado di agire in una società che ha museificato i poeti o li ha espulsi (quando, sempre in ambito di cultura europea, fino alla Russia, non sono direttamente perseguiti).
È vero che il poeta conserva dentro di sé la sua bottega d’artista, dove lavorare la poesia, dove fa la poesia, ma è altrettanto vero che questa attività è sentita come non inseribile, come non ufficializzabile. La frase: «Sentiamo cosa ne dice un poeta» suona come un’irrisione, al pari degli scrittori “tuttologi” che già Herman Hesse ridicolizzava nel 1919. No, la definizione “mestiere di poeta” rimane operante solo a livello tecnico, così come l’aveva pensata Pavese. Da questo mestiere (fare poesia) si parte per bucare la pagina, per sfondare oltre i linguaggi automatizzati che una società ben pianificata vorrebbe imporre (e non ci riesce, non può). Il poeta, apparecchio sensibilissimo a ogni variazione linguistica, coglie il movimento nel suo stato nascente e sente, nel profondo di essa, le tensioni provocate dai bisogni dell’esistere qui e ora. Bisogno, per esempio, di lasciare lavorare la mente, di lasciare agire il pensiero senza inserirlo in canali precostituiti (dunque: senza linguaggi precostituiti).
Il rapporto tra scrittura e biografia, tra versi e vita (una “vita in versi’?), tra uomo (donna) e poesia, tra letteratura e storia di sé, tra individuo e poeta. Vorremmo tu parlassi di questo. In che modo interagiscono – a tuo parere – questi due elementi, questi due inevitabili (e indissolubili) poli all’interno di una dinamica quotidiana, personale, familiare, storica, anche in relazione ai problemi economici, pratici, del lavoro quotidiano, quello che, per intenderci, “dat panem”?
Che significato do alla frase “bucare la pagina”? Questo: uscire dalla letteratura per raggiungere quell’immagine dell’esistenza che in qualche modo intuiamo possibile. Il linguaggio della poesia ci aiuta a definirla. Oppure: anche rimanere nell’ambito della letteratura purché si identifichi “letteratura” come luogo delle interazioni tra storia e immaginazione, il cui prodotto è quell’immagine forte che segna ogni passaggio o trasformazione dell’esistenza. Ungaretti chiamò la raccolta completa delle sue poesie Vita di un uomo, ma non per dire: una vita in versi, bensì: versi costruiti per la vita, per una vita altra, diciamo, noi, adesso e, spero, domani. Di fatto Ungaretti fu attentissimo agli statuti dell’immaginario e la sua teorizzazione delle analogie preparò alcuni velocissimi passaggi tra immagine e immagine tali da provocare, come fatto linguistico, non meno reale di altri, un’identità tra illuminazione poetica e esistenza. È questa identità la “vita di un uomo”. Ma è chiaro che questa identità linguistica è continuamente preparata dalla successione degli eventi extralinguistici e insieme dalla capacità di sopravanzare questi eventi, per atroci che siano, e sopravanzarli significa dare loro un senso, il senso che ricevono dal linguaggio, senza il quale per noi sarebbe come non fossero mai stati. È certo che l’uomo senza un linguaggio muore, o è come se fosse morto (in realtà sopravvive pochissimo). È questa una certezza che ci viene dall’esperienza in campo psichiatrico e giunge opportuna per ribadire l’interazione tra linguaggio della poesia e ogni altro tipo di linguaggio raggiungibile.
Non esiste più, né può esistere, un linguaggio della poesia come fatto puro, autonomo. La scrittura poetica si muove autonomamente ma all’interno di tutti gli altri linguaggi, compresi quelli scientifici. Non è certo un caso l’attenzione con cui si seguono gli sviluppi del discorso della nuova genetica, nato dalla fusione tra fisica, chimica e biologia (un tempo agenti separatamente). È questa una verità che Umberto Saba conosceva già, e vi aderì con tale sicurezza da entrare anche in analisi (negli anni Trenta …). Ma Saba è un poeta in crescita, proprio per la disponibilità antiretorica dei suoi registri, per la cui capacità di liberarsi, dunque di liberarci, anche con una semplice canzonetta.
La forza umana di Saba riesce ora a commuoverci come mai prima e ciò conferma il progredire del processo di interazione-integrazione tra poesia e esistenza, in direzione dell’esistenza: i versi ci servono, noi non vogliamo servire i versi e tanto meno l’Estetica. L’esperienza estetica viene quindi trasformata in processo vitale e non allontanata nel limbo neo-classico (la lezione dei classici è lezione di trasformazione; quella dei neo-classici termina nel gesso candido e inerte dei musei del neo-classico).
Tutto questo presuppone, in certa misura, una vita “avventurosa”, non certo statica, non certo giocata all’interno di una società solo letteraria. Dunque anche i rapporti con quel lavoro che dat panem non potranno essere di routine, ma costituirsi come avventura culturale, anche all’intemo di istituzioni parziali come le case editrici (non è il mio caso). Dico “parziali” perché esistono luoghi dove la cultura agisce e fa agire senza eccessivi vincoli istituzionali e dove il vivere le necessità della produzione può trasformarsi in occasione per scontri duri con le realtà del mercato, senza mai considerarle immutabili, pur rispettandone le fasi di sviluppo. “Rispettarne lo sviluppo” significa non credere paranoicamente di potere -organizzare” la cultura della creatività, piuttosto tentare di cogliere i fermenti vitali per trasmetterli nel modo più corretto e vitale possibile. Il mondo dell’editoria è infatti un mondo di possibilità non di certezze e il tipo di organizzazione del lavoro deriva da questo presupposto. In una certa misura la problematicità e la mobilità del mondo del lavoro coincide con le poetiche della mutazione di cui ho parlato.
Fare editoria significa avere delle intuizioni sulle possibilità di una comunicazione e predisporre gli strumenti per renderla possibile (un po’ come quel matematico che “vedeva” prima i risultati e passava poi anni a dimostrarli).
A tuo giudizio, il testo basta a se stesso oppure no? Il lettore ha o non ha diritto a conoscere l’uomo (la donna)-poeta, la sua realtà pretestuale ed extra-testuale? Quale rapporto indichi, in definitiva, tra la (tua) carta (quella stampata: i libri; la faccia esterna pubblica nota) e la (tua) carne (la persona: la faccia interna privata ignota)? Per superare il “mito del poeta” (e l’eventuale automatizzazione) non ritieni sia importante che chi legge versi conosca “anche” l’uomo (la donna), l’individuo, e non soltanto il testo; sappia il corpo e le sue manie smanie acciacchi dolori persecuzioni vite e morti, non solo l’olimpica testa, produttrice somma di testi?
Da tutto quanto detto finora mi pare quasi superfluo affermare che il testo non basta a sé stesso, almeno in due sensi diversi: perché il testo esiste davvero quando interagisce con il suo lettore, che ne diventa così, in certa misura, co-autore, e in secondo luogo perché i lettori, interessati vitalmente al testo, si chiedono necessariamente qual è la vita del poeta (dell’altro autore, di colui che propone un discorso, una comunicazione a livelli di profondi coinvolgimenti). Si tratta di una richiesta legittima, che va ben al di là della curiosità anedottica, le cui risposte si fondono, oppure si oppongono, al messaggio del testo. Il lettore vuole partecipare alla vita del testo insieme a quella del suo primo autore (il testo è infatti un organismo vivente che viene liberato dal poeta come si libera un uccello in primavera per continuare la specie nonostante le ingiurie dei cacciatori). Ma non è questo l’argomento conclusivo: è decisi-vo il fatto che l’autore, in caso di riuscita, è tutto dentro nel suo testo, pronto a essere anche di altri. E nel testo non c’è solo la sua “olimpica” testa ma anche il suo sesso infiammato. (Poco prima dell’alba ho sognato che mi usciva dalla vagina un liquido bianco, denso e caldo. Ho avuto un’erezione quando te l’ho offerto come cibo. Allora mi sono svegliato/a o mi sono unito/a a te fuori del sogno, eccitato/a come da una droga).
Certo, sono divisioni false (cervello/sesso), ma questa palese falsità serve per confermare che nel testo c’è il corpo (il testo è a sua volta un corpo). Questo è un bene, perché significa che la poesia è un effimero, serve nella durata del corpo, nei passaggi fulminei della vita, nelle lunghe meditazioni delle metamorfosi. Una volta usata, la poesia viene abbandonata come la farfalla abbandona la crisalide, il guscio ormai vuoto.
Ma la poesia serve di nuovo, perché la farfalla muore e rinasce, ogni volta che il processo della vita ricomincia, identico e diverso. Il diverso dipende anche dalla poesia e diverso diventa anche, il corpo, del poeta e del lettore. Dire che il poeta è “uomo tra uomini” non è una semplice ovvietà, significa volersi assumere tutte le responsabilità dello scrivere e insieme del vivere (e in risposta non ci si aspettano colpi di fucile ma voci che continuano il discorso delle mutazioni, sottratti allo sguardo dei guardiani armati di fruste per cavalli!).