Libri al rogo. Intervista con Lucien X. Polastron
di Marco Dotti
Quando gli aerei della Lutwaffe rasero al suolo la cittadina inglese di Coventry, il 14 novembre 1940, il «lavoro» sembrò così ben fatto che Joseph Goebbels non tardò a prenderlo a modello.
«Conventrizzare» (to coventrate) una città, con un infausto neologismo, divenne allora sinonimo di raderla al suolo, mutilandola di ogni forma di vita umana e di qualsiasi forma civile. Abitazioni, ma anche chiese e negozi, musei e centrali elettriche, edifici comunali e scuole rappresentavano, al pari degli individui, altrettanti obiettivi da colpire. A Coventry persero la vita fra le cinquecento e le milleduecento persone, ma le stime parlarono anche – in questo caso con meno incertezze – di centocinquantamila volumi e documenti della locale biblioteca ridotti letteralmente in polvere.
Colpendo l’Inghilterra e calando il terrore dal cielo, Adolf Hitler intendeva «spezzare il morale degli inglesi». Evidentemente, non li conosceva abbastanza. Anche sotto le bombe, infatti, come altrettanti presidi di vita civile, le biblioteche rimasero aperte al pubblico in tutta la Gran Bretagna e i bibliotecari si guardarono bene dal sospendere il servizio di prestito. Alcuni momenti particolarmente bui della nostra storia recente – su tutti la distruzione della biblioteca di Bagdad – sembrano avere riportato alla ribalta la pratica della «coventrizzazione», del rogo e della dispersione sistematica e premeditata di libri e manoscritti. Ne parliamo con Lucien X. Polastron che a questo tema ha dedicato uno dei libri più intensi e interessanti degli ultimi anni, Libri al rogo. Storia della distruzione infinita delle biblioteche, pubblicato in Italia dalle edizioni Sylvestre Bonnard. Storico dell’editoria, giornalista e scrittore, esperto di calligrafia araba e cinese, Polastron è nato in Guascogna nel 1944 e ha al suo attivo, oltre a libri sulla scrittura ideogrammatica, una storia della carta (Le papier. 2000 ans d’histoire, Imprimerie nationale Editions, 1999) e una provocatoria ricerca sui problemi legati alla trasformazione e alla digitalizzazione degli archivi librari (La Grande Numérisation. Y a-t-il une pensée après le papier? Denoël, 2006).
Ancora oggi è difficile capire perché non esista sistema – autoritario o liberale che sia, dalla Cina del III secolo avanti Cristo, agli Stati Uniti di George W. Bush – che non si sia confrontato con una sfiducia latente o non abbia dimostrato un’aperta ostilità nei confronti di oggetti all’apparenza inoffensivi come i libri. Dovremmo forse pensare che, con una certa invarianza storica, i libri rappresentino degli oggetti muti di “resistenza” nei confronti del potere tout court e dei veicoli naturali di pluralismo?
Certamente li possiamo considerare dei résistants muets, soprattutto in momenti attraversati e scossi da ondate di autoritarismo. I libri sono un rifugio e una risorsa immediati per chi è oppresso. Gli assembramenti di libri, inoltre, apportano degli elementi ulteriori di riflessione rispetto al singolo volume e permettono di farsi un’idea sulle cose e le loro complesse relazioni col mondo, al di là delle formule troppo semplicistiche veicolate dalla propaganda. La propaganda, inoltre, si serve poco dei libri, preferendo ad essi vettori più radicali come i discorsi pubblici di un leader al cospetto delle folle, la disinformazione attraverso il trattamento e l’uso delle immagini, la televisione e, diciamolo pure, il web popolare e di massa. Può sembrare un’ovvietà, ma va in ogni caso rilevata: ovunque vi sia una forma di oscurantismo, i mentori di questo oscurantismo hanno intuito, più o meno consapevolmente, che il libro è un loro nemico. Da un lato, questo succede perché vi sono libri che spiazzano e smontano direttamente o indirettamente i discorsi della propaganda, dall’altro vi è un odio che è più generalizzato e profondo in quanto si lega all’ignoranza di che cosa sia un libro e al timore che – ignorandolo e non potendone dunque controllare ogni pagina – contenga affermazioni pericolose per l’ordine costituito. La biblioteca è un esercito di ombre. Questa considerazione era certamente presente nella testa degli inglesi, quando decisero di dimostrare alla macchina da guerra nazista che no, loro non avevano paura: lo spettacolo della gente comune che continua a leggere nelle biblioteche pubbliche era un messaggio molto forte, che la stampa non mancò di ritrasmettere.
Nel suo libro, le dedica un preciso capitolo ai “nuovi biblioclasti”. Chi sono?
Distruggere i libri sembra una decisione connaturata agli integralismi religiosi. Potremmo scorgervi un riflesso di autodifesa e portare decine di esempi, relativi a ogni forma e periodo di civilizzazione. Eppure, se prendiamo troppo alla lettera certe affermazioni, potremmo dedurne che la perdita di influenza diretta della sfera religiosa sulla vita politica e la relativa emancipazione di quella pubblica alla fine del XIX secolo porti come conseguenza la pace per le biblioteche. È chiaramente falso. Non solo abbiamo assistito a un ritorno di fiamma della fede, ritorno se possibile ancora più aggressivo in reazione alle critiche opposte dai liberi pensatori (pensiamo alle operazioni anti-libro del Cairo, e sono fatti di cronaca dei nostri tempi), ma abbiamo visto anche che una nuova ostilità, perfettamente identica nella forma e nei risultati, è sorta dalle derive politiche del XX secolo: nazismo, stalinismo, maoismo e via discorrendo. La nuova biblioclastia è dunque un semplice adattamento al gusto dei tempi di una pratica antica, senza più il pretesto della legge divina. Si è assistito a una laicizzazione dell’intolleranza, direi più precisamente dell’insostenibilità e dell’insopportabilità della lettura e della biblioteca, simbolo stesso della collezione universale di libri raccolti in un solo punto.
Da storico della scrittura, a partire dal 1992 le sue ricerche l’hanno portata a confrontarsi con la storia di un paradosso, la “distruzione dei libri” appunto. È una ragione particolare ad averla condotta su questa strada?
Avevo forse sei anni, quando mia madre mi comprò Le Général Dourakine in una di quelle edizioni simil-lusso che si pubblicavano nella Francia poverissima, appena uscita dalla guerra. Mio padre non sapeva nulla di quel regalo e, d’altronde, avrebbe considerato folle quella spesa, folle e inutile. Perché regalare libri a un bambino così piccolo? In un colpo solo, compresi quanto poteva essere prezioso un libro e, soprattutto, capii che al libro si deve un immenso rispetto, perché è un oggetto quasi magico. D’altro canto, le ricerche d’archivio sulla storia della fabbricazione della carta che ho cominciato nel 1987 mi hanno a più riprese costretto a confrontarmi con la storia della distruzione volontaria o involontaria dei libri. Il rogo dei libri ordinado tal “Primo grande imperatore” cinese, la scomparsa della biblioteca di Alesandria, l’autodafé diventato spettacolo nella Berlino del 1933… e poi, il 25 agosto del 1992, la storia che sembrava ripetersi in tutta la sua brutalità e violenza.
A Sarajevo, quel giorno, la biblioteca veniva deliberatamente datata alle fiamme dai serbi che decisero di distruggerla in quanto biblioteca e in quanto nazionale. Diciamo che una serie di coincidenze storiche e personali si sono sovrapposte e ho deciso di intraprendere uno studio unitario della distruzione dei libri.
Parlare oggi di distruzione dei libri, però, significa porre (e porsi) delle domande sul futuro delle biblioteche e della digitalizzazione dei loro archivi. Nel suo libro La Grand numérisation: Y a-t-il une pensée après le papier? lei affronta la questione sottolineando come il cosiddetto digitization dilemma non sia confinabile al solo campo della biblioteconomia, coinvolgendo al tempo stesso in maniera radicale aspetti culturali, politici e antropologici del nostro vivere civile. Lo scrittore americano Nicholson Baker, in un suo saggio sule biblioteche, ha parlato di un rogo digitale del libro…
La distruzione di libri è una conseguenza anche della digitalizzazione degli stesso. Non sto facendo giochi di parole. Dapprima c’è il fatto che le grandi biblioteche ritirano dal circuito della lettura opere su carta che sono state preliminarmente trasferite e riversate su un altro supporto: ieri le microfiche, oggi un supporto elettronico. Certamente, i libri non vengono bruciati, almeno per ora. Semplicemente le biblioteche se ne disfano, li buttano, li ricollocano sul mercato di seconda scelta con la dicitura «dismesso dal catalogo della biblioteca X, Y, Z…». In ogni caso, e questo è un fatto importante, li ritirano dalla disponibilità quasi sottraendoli dalle mani dei lettori.
La procedura della “messa in deposito”, poi, assomiglia molto a una sepoltura del libro. Nel periodo chiave che stiamo vivendo, i nuovi sistemi di lettura stanno vivendo un’accelerazione rapidissima e continua. Si sta prendendo l’abitudine di leggere su schermi medi (e-book) o piccoli (telefoni cellulari): questo fatto può creare nuove tipologia di lettori, mai viste prima nella storia recente. Parlo di lettori che, potenzialmente, potranno leggere “libri” senza toccare mai la pagina di un libro. Anche il dibatto sul libro cartaceo presto sarà una cosa vecchia, persino se preso in opposizione al libro virtuale. I lettori di nuova generazione – chiamiamoli così – non faranno più riferimento alcuno ai libri di un passato certamente disponibile in linea, ma diventato alquanto difficile da assimilare.
Pensare – dopo la carta, dopo la scomparsa della carta – significherà pensare in modo diverso, in funzione di un diverso vocabolario, di una sintassi sommaria e senza supportarsi e rapportarsi a una memoria (i legami sostituiranno le sinapsi). Quando sento che i presidenti delle nostre democratiche repubbliche hanno dichiarato guerra alla conoscenza, non posso che constatare che tutto sta correndo verso la stessa meta, ed è una meta senza possibilità di ritorno.
Lei ha anche fatto un esperimento in tal senso, digitalizzando il suo libro su “googlebooks”. Con quali conseguenze?
L’esperimento risponde a due esigenze: l’argomento prevede una messa in pratica e un’esperienza diretta della digitalizzazione, altrimenti si corre il rischio dell’astratto. Inoltre io difendo il principio della digitalizzazione completa di google perché questo, almeno in teoria, può significare che tutti possono giungere a una risposta in forma di libro, qualsiasi sia la domanda formulata. Intendo dire: questo fatto può contribuire a far risorgere centinaia di migliaia di volumi di cui nessuno, nemmeno il migliore bibliotecario si ricorda il nome dell’autore. Questo è un punto chiave, mentre la questione del copyright “violato” mi pare accessoria, visto che i miei libri sono disponibili sì, ma non integralmente e così vale per gli altri libri in commercio, quindi è un po’ come sfogliare un volume prima di acquistarlo, in libreria. Ma affinché il sistema funzioni, serve che tutti, ma proprio tutti i libri del mondo siano presenti e che questo stesso sistema rimanga libero, leggero, gratuito. Un bug, divenuto storico, fece sì che il motore di ricerca dichiarasse”potenzialmente pericolosi” i siti indicizzati rifiutandosi di aprirli ha lanciato un segnale di allarme sul problema del monopolio di fatto esercitato da google. Ma la grande digitalizzazione rappresenta un fenomeno ancora in gestazione, da seguire con interesse nonostante giustificati allarmi e altrettanto legittime inquietudini. Detto questo, affinché tutto funzioni al meglio, serve che tutti i libri del mondo siano davvero presenti su google e che questi libri rimangano di libera e gratuita consultazione, e che né google né altri ne acquistino “la proprietà”.
[cite]
tysm literary review
vol. 16, issue 21
january 2015
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