Tra Max Planck e Marinetti
Piero Bigongiari
Il 20 febbraio 1909 usciva su “Le Figaro” il Manifesto del futurismo il quale proponeva come uno dei suoi enunciati maggiori questo: «Il Tempo e lo Spazio morirono ieri». Che cosa voleva dire il futurismo, che cosa voleva dire Marinetti con questo enunciato? Voleva dire semplicemente che era morta una certa concezione del tempo e dello spazio ottocentesca. Che cosa era accaduto in Italia e nel mondo? Una rivoluzione nel rapporto tra l’uomo e la conoscenza della natura che aveva completamente sovvertito quelle che erano state le prospettive fin allora vigenti di questo rapporto Uomo Cosmo.
Ricordo brevissimamente alcuni fatti: nel 1900 Max Planck enuncia la «teoria dei quanti», cioè il concetto rivoluzionario degli atomi di energia, che è un avvenimento decisivo per lo sviluppo della scienza e che è di solito considerato l’elemento di passaggio tra la fisica classica e la fisica moderna o quantistica. D’altronde, proprio nel 1909, nelle conferenze di fisica teorica alla Columbia University, lo stesso Max Planck proponeva l’ipotesi del disordine elementare come principio e perno dell’entropia o disordine microscopico. Intanto, già nel 1905, come sappiamo, Einstein fonda la teoria della relatività speciale, in cui appunto formula le nuove proprietà peculiari dello spazio e del tempo. Undici anni dopo, nel ’16, sempre Einstein enuncia la teoria della relatività generale in cui introduce lo stesso principio nello studio del moto dei corpi soggetti a un campo gravitazionale: la simultaneità di due eventi in punti diversi dello spazio, non è una nozione verificabile. Cioè nasce una nuova concezione dello spazio e del tempo che si considerano come elementi relativi l’uno all’altro. Nasce quello spazio tempo curvo che io chiamo, coi matematici, il «cronotopo» novecentesco: sede e insieme degli eventi considerati come una coppia costituita da un punto e da un istante. In esso, come si sa, ogni punto rappresenta un evento, individuato, in un dato sistema di riferimento, dall’insieme di quattro numeri: tre di essi, le coordinate spaziali, specificano il luogo; il quarto, la coordinata temporale, indica l’istante in cui l’evento si verifica. Il futurismo è la manifestazione, la presa di coscienza più o meno avvertita, ma io direi avvertita fino in fondo, seppure ancora in modo iniziale, grafizzata in una linearità fono sintagmatica, rapportata sul piano bidimensionale instaurato anche dal cubismo, di questo nuovo rapporto Uomo-Natura. La cosiddetta «quarta dimensione» si mantiene ancora nei limiti di una iteratività del segno che appartiene tuttora al décor dominante negli anni tra l’Art nouveau e l’Art déco.
Come che sia, la simultaneità e i chimismi lirici del futurismo non avrebbero potuto darsi in un’arca culturale diversa, mentre l’orfismo di Delaunay, dando fuoco ai «grigi» di fondo della staticità cubista, dunque in area già contigua al dinamismo futurista, parla del « dinamismo elettrico» come «concentrazione di forma» e di «forma vivente» come «cellula del momento» e rievoca la formula di Chevreul, i «contrasti simultanei», per portare avanti il «problema del colore formale».
Il futurismo ha adempiuto a una vera e propria rivoluzione del rapporto fra l’uomo e la scrittura, fra l’uomo e la parola: la parola viene considerata come un nucleo da spezzare nelle sue componenti per constatarne e analizzarne la consistenza fisica. Quelle che vengono chiamate «Parole in libertà», quello che viene chiamato «Paroliberismo», cioè la messa in opera su un piano, con diversi caratteri e su diverse linee, della parola intesa come nucleo esplicantesi di energia, non è altro che questa presa di coscienza che la parola ha una sostanza, bombardando la quale questa sostanza sprigiona energia. È questo il punto fondamentale in cui il futurismo ha veramente rovesciato la concezione classicistica dell’uomo come utente di una parola che era considerata statica, mera portatrice di significati, di cui si spossessa nell’atto stesso della pronuncia, rimanendo soltanto il ritmo frastico, puro, del suo passaggio di messaggera ignara di un messaggio ne varietur. Nel futurismo l’opera di Marinetti, direi, ha una fondamentale importanza sopratutto per il carattere che egli è riuscito a esplicare attraverso i vari manifesti non solo nel primo ma anche negli specifici manifesti successivi di una poesia tutta pragmaticamente sublimata nella propria poetica: che è il segno contraddittorio ma autenticamente anagogico di una regolamentazione, e dunque di una razionalizzazione, dell’irrazionale stesso che presiede alla rivolta novecentesca contro tutte le regole e contro l’idea stessa non tanto di una dominante retorica quanto di una retorica aprioristica. La fisicità della rivolta futurista poggia pertanto su una retorica a posteriori, sia pure teoricamente rifiutata, cioè per quanto verte alla sua mira infinitiva vólta al futuro, e che in qualche modo sembra volersi lasciare indietro il simulacro delle regole, obbedendo però, nello stesso istante, al miraggio del suo rovesciamento speculare. Cioè per il futurismo avviene una vera e propria mise en abîme della retorica, che in verità risulta un rovesciamento all’infinito, ma di tipo referenziale e non semantico, delle regole senza che ancora possa abbordare in termini analitici la traiettoria iconico figurale del senso: che è cosa che riguarderà avanguardie non codificate del secondo Novecento, dal surrealismo all’ermetismo all’informale, e che avrà pertanto un’influenza fondamentale sullo statuto stesso del codice, che in verità il futurismo non tocca nella sua funzionalità istitutiva, e che al massimo esso tenta di deformare, cioè di mettere alla prova nella sua resistenza di fondo, ma non di sostituire. Quanto ai contenuti formali, o temi, la macchina non tanto sostituisce la religio romantica, in tutte le sue implicazioni, ormai assunta a valore mitico, quanto investe di quel valore mitico, come in un transfert, il contenuto formale nuovo rappresentato dalla macchina. Ad esempio nel manifesto estremamente portante del’11 maggio 1913, quello intitolato alla Distruzione della sintassi, alla Immaginazione senza fili e appunto alle Parole in libertà, Marinetti dichiara l’importanza di un periodo costituito di sostantivi e di verbi all’infinito. Dice che «il verbo all’infinito è rotondo e scorrevole come una ruota», spazio dunque che già s’incurva verso la velocità di propulsione, e quindi, una tale infinitizzazione, «in un lirismo violento e dinamico», costituisce la velocità stessa dello stile». In verità il verbo all’infinito finisce per ridurre il periodo e la frase in uno stato di «fissità», si direbbe, perché l’infinito è un verbo che, come appunto dice la parola, non ha, come segno dell’azione, né principio né fine; quindi all’interno dell’uso dell’infinito esiste anche questa curiosa contraddizione fra il desiderio di muovere lo stile nelle sue componenti minime e nei suoi minimi comuni multipli, e nello stesso tempo quello di fissarlo metodologicamente. Pertanto questo stato contraddittorio della «fissazione» dell’aperto, questa fissazione infinitiva, attraverso elementi sintattici e figurali, comporta anche una continuità retorica o comunque una staticità di questa «dinamica» percettiva di fondo. Insomma il futurismo di Marinetti ha funzionato piú nell’analisi sintomatica della propria crisi segnica che nella sintesi ricostruttiva del proprio sistema.
Per arrivare a quelle che sono state le conseguenze piú portanti di questo movimento rivoluzionario nella poesia italiana, dirò solamente questo: che chi veramente ha captato il senso profondo di questa rivoluzione, sono stati alcuni poeti della prima generazione del ‘900, da Ungaretti a Palazzeschi, che sono poi i veri poeti di questo rinnovamento del linguaggio, fuori o dentro un’adesione diretta al futurismo. Faccio un esempio solo: il futurismo ha spezzato la parola dei suoi fonemi, proprio per sentire la parola come corpo fisico che si opponesse in qualche modo a un’interpretazione spiritualistica e tardo ottocentesca del linguaggio. Ebbene Ungaretti ha ricostituito la parola attraverso la sensazione, si direbbe la percezione fisica, del suo «esser qui», un tutt’uno inscindibile del significato col suo significante in fieri, attraverso un sillabato in cui batte il ritmo del linguaggio in sé, attraverso la percezione corporea di questi fonemi inventando quello che è il suo primo modo di poesia, che passa attraverso l’Allegria di naufragi, e cioè questa costituzione o meglio direi questa sensazione fisica di un linguaggio: un linguaggio che è un corpo in quanto è/ha un corpo minimale. In questo senso il sillabato di Ungaretti è il primo vero e proprio momento ricostitutivo di quella che è stata la necessaria frammentazione e l’accelerazione fonematica sperimentata dal futurismo sul linguaggio arrivato al proprio «grado zero» col crepuscolarismo, in cui qualsiasi possibilità di messaggio ulteriore cade con l’enunciarsi di un significato che invera, tout court, la rinuncia stessa al messaggio. L’esperienza del negativo, che è stata fondamentale nella poesia italiana, fino al «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» montaliano, si propone nei crepuscolari come un «nulla da dire»: che è il capovolgimento dell’intenzione simbolista di «dire il nulla». Il «nulla» non ha velocità, né è medium vettore di velocità: il «corpo» del linguaggio sentito come tale dal futurismo è quanto materializza, in termini antitetici, capovolgendola, la grande tentazione tardo romantica del Nulla sperimentata dal simbolismo, e pragmatizzandola in un infinito cronotopico, preparando dunque inconsciamente la prossima «allegria» del «naufragio» ungarettiano in questo nuovo infinito, nutriente infinito, che si presenta alla mens novecentesca come il suo stesso maggiore, ma indifferibile, pericolo da correre. Occorre affrontare il contatto, in questa nuova physis, fino all’immedesimazione, dopo lo choc. Occorre affrontare e mettere in crisi la bidimensionalità, che il supporto operativo di fondo tanto del cubismo quanto del futurismo, fino all’esperienza della bidimensionalità. Solo attraverso questa contraddittoria esperienza, che è una vera discesa agli inferi della propria interiorità, l’uomo novecentesco può toccare teticamente, non ipoteticamente, e cioè percepire, e io direi allargare, attraverso la parola, i limiti curvi dello spazio tempo non in cui vive, ma di cui è parte vivente. La parola, mentre racchiude stringendosi su se stessa un significato, apre all’infinito del sistema della significazione il proprio significante. La crisi dei codici appartiene di pieno diritto alla seconda metà del secolo, dopo che il linguaggio ha operato una vera e propria mise en surface della propria funzionalità. D’accordo, la fenomenologia e la psicanalisi hanno grandemente contribuito a questa mise en surface. Ma la poesia non è stata certo a vedere né ha scambiato, all’apparire della facies, questa surface per quella, specchiante, di Narciso.
(1976)
[Tratto da Poesia italiana del Novecento, I, Il Saggiatore, Milano 1978]