Diario activo in tempo d’esilio
Bruno Accarino
Un libro viene frettolosamente archiviato, in genere, non perché sia irrimediabilmente brutto, ma perché dice e non dice. Il «diario di pensiero» ultraventennale di Hannah Arendt dà un senso di spaesamento, perché in esso tutto, anche ciò che è meno plausibile, reca il segno della radicalità. Se il 1950 è la data di partenza, la decisione di mettere mano al diario coincide con il compimento dell’impresa sulle origini del totalitarismo e forse con qualcosa di meno accidentale: un appunto del gennaio del 1953 vede la rottura generazionale novecentesca all’altezza della prima guerra mondiale, ma la coglie come incompiuta perché «la coscienza della rottura presupponeva ancora la memoria della tradizione e rendeva la rottura, in linea di principio, riparabile». La vera cesura interviene solo dopo la seconda guerra mondiale, «quando non fu più registrata affatto come rottura». Ciò significa che sarebbe un vano tentativo attingere al diario per ricavare materiali ulteriori su quella che alcuni considerano la vera svolta biografica di Hannah Arendt: la dissertazione del 1929 sul concetto di amore in Agostino, maturata a cavallo tra il magistero di Heidegger e il rapporto, che non sarà mai di discipulato deferente e oscillerà invece tra il filiale e l’amicale, con Jaspers. Nessun accenno, se ho ben visto, neanche all’entusiasmante biografia di Rahel Varnhagen. Qualche curiosità avremmo voluto soddisfarla anche in riferimento a quel periodo piuttosto opaco in cui, nell’esilio degli anni ’30, la collaborazione con organizzazioni sioniste spinge Hannah in quel territorio politico e morale che accoglie le domande e le lacerazioni, tra gli altri, di Scholem e di Benjamin, e un documento prezioso del quale è nell’epistolario tra lei e il sionista della prima ora Kurt Blumenfeld (Hannah Arendt – Kurt Blumenfeld, In keinem Besitz verwurzelt [Senza radici], Amburgo 1995). Ma l’arco cronologico del diario significa anche che la presa diretta è con le opere maggiori, da Vita activa alla fine degli anni `50 a Sulla rivoluzione, da La banalità del male fino al grande lavoro incompiuto su La vita della mente.
Pochissime, invece, le annotazioni personali: si fa eccezione per il secondo marito Heinrich Blücher (a lui, morto il 31 ottobre 1970, è dedicata una poesia nel novembre dello stesso anno, e l’ultimo quaderno esordisce con l’epigrafe «Senza Heinrich»), un uomo non assurto agli onori delle cronache filosofiche (almeno una volta, nell’agosto del 1953, viene accomunato a Heidegger come «teologo») perché probabilmente affetto da horror calami, ma decisivo nella costruzione di un equilibrio psicologico ed esistenziale di Hannah dopo la crisi del matrimonio con Günther Anders; o per Hermann Broch, morto alla fine del maggio 1951 e ricordato in giugno: il co-protagonista di un’amicizia ironica e sottile, anch’egli analista del totalitarismo, al quale la repentinità della morte «sottrasse quel po’ di amicizia, di ascolto e di vicinanza a cui aveva diritto».
Campeggia la figura di Heidegger (ma più di lui, senza dubbio, quella di Platone, tallonato senza requie perché padre indiscusso della filosofia politica occidentale), naturalmente. Reincontrato nel primo viaggio in Europa dopo la fine della guerra, tra il 1949 e il 1950, non si lascia stanare politicamente, benché nessuna delle sue pagine sia priva di ricadute politiche. Qual è poi il suo segreto? Ha reso produttiva non la solitudine ma la Verlassenheit, l’abbandono (dicembre 1952). E la Verlassenheit è sempre, per definizione, religiosa: nella sua forma più elementare, è quella del morire e della non-appartenenza al mondo, l’unica esperienza radicalmente anti-politica. Questa singolarità non va però confusa con l’inconfondibile unicità e irripetibilità di ogni uomo singolo, che nella singolarità può solo scomparire perché in essa non abbiamo più nessuno da cui distinguerci. Chi è solo (monos) non per questo è anche solitario o abbandonato (éremos): dopo l’incendio del mondo Zeus poteva essere solo, ma non solitario, perché poteva «essere con sé».
I temi più cari si ripresentano con una libertà di astrazione perfino maggiore di quella a cui una scrittura argomentativamente eccentrica e spiazzante ci aveva già abituato. Qui si può solo segnalare qualche occorrenza più insistente di altre. Il rapporto tormentato con Marx, intanto: non si fanno le frittate senza rompere le uova (è scritto proprio così), e la frittata primaria è stata, nel caso di Marx, la sostituzione della politica con la storia, con la duplice conseguenza di identificare il lavoro con il produrre e di confondere il lavoro con l’agire. Ma al fondo c’è l’accettazione acritica dell’immagine hegeliana dell’uomo come di un essere che pone scopi in un modo isolato e che solo dalla necessità di realizzare questi scopi è costretto nel mondo degli altri, cioè dei mezzi. In verità l’intera vicenda che parte da Ricardo e che si intitola alla teoria classica del valore è per Hannah o insignificante o fuorviante, e qui non trovo accenti diversi, se non una forte consapevolezza (non sempre presente nei testi editi) della necessità di misurarsi con l’analisi marxiana della merce. La maledizione che pesa su Marx è una difficoltà strutturale ad accedere all’orizzonte della pluralità, il che impone di scavare fin dentro il pilastro della sua teoria – la distinzione tra valore d’uso e valore di scambio – per reperire la scaturigine di questa refrattarietà ai «molti». Non si dovrà dunque ricorrere alla storia del marxismo e alle sue incrostazioni, meno che mai alle esperienze del comunismo storico, per venire a capo del problema: non sono cose, nemmeno per chi vive con buon accasamento l’esilio americano, da propaganda anticomunista spicciola.
In realtà la griglia a cui Hannah sottopone gli autori che incontra, quelli che ama e quelli di cui diffida, è sempre quella del mondo e, a stretto contatto, quella della storia e della causalità. Se alle vedute causalistiche e teleologiche, che ci insegnano a concepire la storia come una catena di eventi causalmente e teleologicamente coerente e spiegabile, si tolgono la causa prima e lo scopo ultimo, è inevitabile che l’intero processo si risolva in un circolo. Perché allora ci si intestardisce nell’inseguire paradigmi causalistici? Perché, come ha visto quel Nietzsche il cui peso aumenta in modo esponenziale nella seconda parte della biografia intellettuale di Hannah (anche, va detto, grazie a Heidegger), il punto di vista causale viene conservato – nonostante l’eliminazione della causa sui e dello scopo finale – come mezzo per aggirare il nuovo e l’ignoto, il vero depositario dell’evento, e per rifugiarsi in ciò che è noto e familiare dissolvendo tutti i fattori nuovi e sconosciuti in effetti calcolabili di cause note.
Chi non azzecca l’approccio alla storia sbaglia anche nell’inquadrare il mondo. L’amor mundi è il criterio che consente di leggere la pericolosità dell’amore, la più antipolitica delle potenze mondane. L’amore è vita senza mondo: la sua grandezza e la sua tragicità sono nel creare un nuovo mondo e nell’esserne un nuovo inizio, e nel sancire così, tuttavia, la propria fine. Appena questa potenza si impadronisce dell’uomo e brucia l’infra, o che divide e unisce, apre le porte ad una umanità che è senza mondo, senza oggetto – l’amato non è mai un oggetto – e senza spazio. Qui si intravvedono anche le ragioni di una sorprendente sensibilità per le pagine teologicamente più impegnative del nuovo testamento e per l’unicità della figura di Gesù. Il quale voleva assumere su di sé non i peccati, come interpreta Paolo, ma le sofferenze degli uomini (aprile 1955).
In tutto questo, poca cronaca politica. Ma folgorante, e molto heideggeriano, è qualche appunto sull’America, qua e là accompagnato da citazioni del Federalist: dal tentativo riuscito «to make the world a better place to live in» è scaturito il fatto che si è trasformato l’accadere umano nel mondo in modo tale che in esso non potessero più penetrare gli eventi. «Nothing ever happens». Ma solo negli eventi, in cui si congiungono gli elementi dell’accadere, riluce il senso dell’accadere: di qui il vuoto di senso della vita americana. Solo gli eventi, non che essere disordinati e fonte di disorientamento, «organizzano» l’accadere e gli danno forma, dando al tempo stesso all’uomo un contegno. Di qui la mancanza di forma della società americana e la mancanza di stile degli uomini, di qui la dimensione anarchica della vita privata americana.
Ma l’America ha anche un altro volto, quello di un costituzionalismo vaccinato rispetto a certe insidie europee. Qual è l’esito politico della critica arendtiana della volontà? E qual è il suo bersaglio? Il volontarismo di Rousseau, anzitutto: la sua volontà non è una disincarnata ragion pratica kantiana, ma la volontà di un sé comune, di una particolare comunità politica. Per Hannah, tuttavia, il passaggio dalla volontà razionale universalistica alla volontà del popolo o della nazione non fa che sottolineare l’ostilità della facoltà di volere alla pluralità. La filosofia politica di Rousseau tenta di combinare la fisionomia classica del comunitarismo con il linguaggio individualistico moderno della volontà e del contratto. Ma il cemento tra le due istanze è il tentativo di Rousseau di eliminare gli effetti corruttori della pluralità. In questo senso, il linguaggio moderno della volontà fornisce a Rousseau il vocabolario teorico necessario a superare la pluralità e a promuovere l’unità come modello della comunità politica sana. La volontà rousseauiana esclude ogni processo di scambi d’opinione e ogni eventuale tentativo di conciliare opinioni diverse: la volontà è una e indivisibile. Settembre 1952: la volontà generale di Rousseau è forse la più micidiale soluzione della quadratura del cerchio, cioè del problema fondamentale di ogni filosofia politica dell’Occidente: come trasfornare una pluralità in una singolarità o, con Rousseau, come «réunir une multitude en un corps». La soluzione è micidiale perché il sovrano non è nemmeno più quello che comanda, ma risiede quasi in me stesso, come il citoyen che si contrappone all’homme particulier. Nella rivoluzione americana, invece, la sede del potere era il popolo, ma fonte della legge doveva divenire la costituzione, un documento scritto ed emendabile che non poteva mai essere uno stato d’animo soggettivo come la volontà.
Grande spregiudicatezza si riscontra, come sempre, nella decisione di affrontare tutti i rischi possibili rasentando i territori del conservatorismo contemporaneo. Così di Edmund Burke viene recepita l’istanza pluralistica («to act means to act in concert»), certamente pensata, all’origine, in funzione controrivoluzionaria, ma non sgradita a chi, come la Arendt, contestò accanitamente che il 1789 potesse essere un modello di rottura rivoluzionaria; di Spengler si dice che è stato l’unico a trarre tutte le conseguenze della secolarizzazione e dell’eliminazione di Dio dalla storia degli uomini e a dare spessore all’eterno ritorno nietzscheano.
Tutti gli steccati cadono quando è in gioco la possibilità di perdere, o di conquistare, l’ancoraggio della pluralità. Hannah Arendt non amava la categoria filosofica della coscienza. Il con-scire, così scrive nel diario, è essenzialmente repentino e privo di continuità. La trasformazione o la falsificazione della memoria nella coscienza recide la comunicazione dell’uomo con il mondo ed è perciò il segno dell’isolamento dell’individuo, o meglio dell’imprigionamento dell’individuo in se stesso. Un individuo singolo potrebbe avere coscienza solo se fosse costretto a vivere senza i suoi simili. La memoria e il linguaggio indicano invece, come si legge con allusione all’ultimo scritto di Max Scheler, «la posizione dell’uomo nel cosmo» come una posizione di molti uomini: annunciano la pluralità, individuano la posizione del genere umano nella scala di ciò che appare e di ciò che scompare. La pluralità, in cui compare ogni essente, sembra avere un senso solo nella pluralità delle generazioni che si succedono, cioè il senso di rendere possibile la permanenza sulla terra almeno come sopravvivenza del genere umano.
Rimangono sul tappeto le domande che abbiamo imparato a porci da quando Hannah Arendt è rientrata nel dibattito filosofico. È difficile dire se il display dei molti diversi, come sono gli individui della Arendt, sia in quanto tale eversivo. Al suo estremismo laico non sempre corrispose una radicalità di intenzionalità politica, come dimostra forse non il suo anti-giacobinismo in quanto tale, ma il registro del suo anti-giacobinismo. Proprio perché il mondo è stato creato, con una irrisarcibile violenza primigenia che è l’altra faccia dell’amore, è possibile che esso sia oggetto di disamore e non di amore – ed è possibile perciò che si riapra un circuito, questa volta profondamente laico, che dalla capricciosità imperscrutabile della divinità creatrice risalga all’ingiustificabilità e perciò alla criticabilità del mondo.
Il disprezzo del mondo – anche qui c’è Agostino – tarpa le ali ad ogni ambizione, sia pure, e costringe la libertà dei moderni ad assumere il volto dell’horror contingentiae e la fisionomia del feticcio della sovranità. Ma questa idea non è poi così peregrina, se la contingenza ha le fattezze hobbesiane della morte per mano altrui e se la sua neutralizzazione ha il volto più nobile del liberalismo classico. Un modello di autodifesa dalla contingenza è inoltre quello dell’eccedenza cognitiva dell’altro: è sempre vero che l’esuberanza di informazioni di cui è portatore l’altro immette nell’eudaimonia di stampo aristotelico e non in quella, cara ad Epitteto, del «non essere angustiato»? È del tutto vero che la libertà negativa è la zavorra del pensiero occidentale? Ma poi: se si rifiuta l’ancoraggio di un mondo utopico, si respinge anche il potenziale deontico del diritto? Il diritto – massimamente quello naturale – non parla di ciò che è, ma di ciò che dovrebbe essere: ed è pensabile anche in termini asintotici, come conquista incessante di ciò che non è. In fondo non ci sono molti altri strumenti per sfuggire alla paralizzante e panica potenza del mondo.
[da il manifesto, 17 luglio 2003]