Un terrore senza luogo
Bruno Accarino
Tra le molte, forse troppe cose alle quali Peter Sloterdijk dedica la sua attenzione nel suo ultimo libro (Schäume [Schiume], Suhrkamp, Frankfurt 2004), c’è il nesso tra la prassi del terrorismo e l’idea dell’ambiente: un’alleanza che permette alle latenze naturali e culturali della modernità di rendersi manifeste. La vicenda è strettamente novecentesca e se ne può datare con precisione l’inizio: il 22 aprile 1915 vide il primo impiego massiccio di gas al cloro come strumento di battaglia (con un «reggimento del gas» delle armate occidentali tedesche costituito all’uopo) contro postazioni franco-canadesi nel settore della cittadina belga di Ypres, che diede poi il nome all’iprite. La direzione scientifica dell’impresa era nelle mani di Fritz Haber, premio Nobel nel 1918 (con molte proteste da parte degli inglesi e dei francesi), un ebreo che, per uno di quei paradossi storico-biografici allora non infrequenti, fu poi costretto all’emigrazione nel 1933 e morì mentre si accingeva a raggiungere la Palestina. Fatte le debite proporzioni, anche allora si scatenò una battaglia mediatico-propagandistica a colpi di minimizzazioni da una parte, e di ingigantimenti dall’altra, degli effetti della nuova tecnica militare. Ma sembra degno di fede, e definitivo nella sua drammaticità, il resoconto di un esame autoptico di parte canadese che attesta i danni arrecati dal gas velenoso: i polmoni presentano un flusso schiumoso, mentre le vene del collo sono otturate.
Con questo passaggio interviene nella battaglia l’ambiente. Arretra invece l’arte militare di uccidere a distanza con una intentio directa, e con essa l’immagine del coraggio personale e del possibile eroismo, con tutti i suoi addentellati preborghesi, nobiliari o arcaici. Il ventesimo secolo prevede la necessità di puntare al corpo di un nemico meno di quanto preveda l’aggressione al suo ambiente: e taglia fuori così la più nota formulazione filosofica del terrore, quella dello Hegel della Fenomenologia dello spirito riferita al 1793 o all’onda lunga del 1789. Non sono più in gioco le istanze giacobine o quelle ascrivibili a dittature fondate sul terrore. È all’opera qualcosa di diverso: se il corpo del nemico non è più liquidabile con un colpo diretto, la possibilità alternativa è quella di rendergli impossibile l’esistenza immergendolo per un tempo sufficientemente lungo in un ambiente invivibile. L’attacco alle funzioni vitali del nemico, dalla respirazione alla regolazione del sistema nervoso centrale, disegna il passaggio traumatico dalla guerra classica al terrorismo: gli ufficiali provenienti da grandi famiglie nobili recepirono infatti l’evento come una umiliante degenerazione della belligeranza.
La logica del contrattacco
Nello scenario odierno delle guerre non statali e dello scontro tra eserciti regolari e combattenti irregolari, il terrore sembra essere l’arma dei deboli. Ma furono gli stati ad inaugurarlo come risposta all’immobilismo della trincea: l’atmo-terrorismo, o terrorismo atmosferico, presuppone una condizione di quasi invulnerabilità di un nemico abbondantemente protetto e sceglie come punto di vulnerabilità l’ambiente aereo dei corpi. Bisogna reperire, anche prima dell’avvento degli aerei militari, un’arma di accesso, in grado di produrre effetti teledistruttivi, o distruttivi a distanza, e di agguantare oggetti resisi inaccessibili a terra. Ecco perché la guerra di annientamento obbedisce ad una logica dell’imprecisione accettata e metabolizzata: si spara nel mucchio, o approssimativamente nell’ambiente prossimo, per il resto chi vuole divertirsi ha a disposizione, come arte militare periferica, il virtuosismo del cecchinaggio.
La lunga scia di questo terrorismo primario produce, del tutto prevedibilmente, mistificazioni a grappoli: anche dopo l’attacco alle due torri, le esigenze propagandistiche americane hanno soffocato una verità elementare, che cioè il terrorismo non è un avversario, ma un modus operandi, un metodo di lotta che di regola si distribuisce da entrambe le parti del conflitto, al punto tale da rendere poco sensata non certo questa o quella specifica misura difensiva e militare, ma una formulazione puramente allegorica come «guerra contro il terrorismo». La logica della pace, abituata ad ascoltare le ragioni altrui, suggerisce semmai che il singolo atto di terrore non è mai un inizio assoluto, un acte gratuit o un incipit originario: si autointerpreta sempre come un contrattacco in una serie che può essere descritta di volta in volta come inaugurata dall’avversario. Il terrorismo ha sempre un futuro: anche di fronte ad una tragedia come quella di Beslan, a nessuno, purtroppo, vien fatto di pensare che sia unica e irripetibile. Il terrorismo legge se stesso come un fenomeno antiterroristico, e questo vale anche per la scena originaria del fronte di Ypres, non solo perché si scatenò la consueta sequenza di attacchi, di contrattacchi e di repliche ai contrattacchi, ma perché anche da parte tedesca ci si poteva appellare ad un precedente uso francese ed inglese di munizioni a gas.
Un sapere del terrore esige quindi la determinazione dei principi a cui esso è sottoposto: esso è un’indagine dell’ambiente sotto il profilo della sua distruggibilità. Qua e là si incontrano intuizioni precoci, come quella che induceva Herder a scrivere nel 1784: «sarebbe auspicabile una aerologia geografica, ossia uno studio delle diverse proprietà dell’atmosfera nelle diverse contrade, per poter meglio comprendere e spiegare la formazione fisica e spirituale dell’uomo». Se anzi disponessimo di un’accademia che insegnasse queste discipline, proseguiva Herder, potremmo veder operare questa grande serra della natura in mille variazioni secondo leggi fondamentali uniformi. Si può bensì includere, in una formulazione generale, tutto ciò che è etichettato come terrore a partire dal 1793 e anche da periodi precedenti: avvelenamenti dell’acqua, magari inventati a scopi di persecuzione antisemita, diffusione ad arte di pestilenze nel Medioevo, tecniche di assedio con il fuoco e con il fumo di fortezze ultraprotette. Ma il tratto insopprimibile di modernità novecentesca è nel portare ad un grado assolutamente esplicito e radicale l’attacco alle difese immunitarie di un organismo o di una forma di vita.
Lungo questa deriva immunitaria, esattamente due anni dopo l’attacco di Ypres un’operazione di disinfestazione di un mulino nei pressi di Würzburg valorizzò sul terreno civile quanto era stato sperimentato in ambito bellico: e ad ottantacinque anni dalla morte di Goethe, osserva sconsolato Sloterdijk, fece la sua comparsa nella lingua tedesca l’atroce neologismo Grossraumentwesung, disinfestazione di grandi spazi (seguiranno a ruota la disinfestazione dalle tarme e la derattizzazione): con una sinistra anticipazione dei grandi spazi – di vitale importanza per la Germania – orientali, nei quali gli slavi, gli ebrei, gli zingari e gli altri deportati, che nelle parole e nei fatti furono al massimo cimici e pidocchi, ribadirono che l’innovazione lessicale era azzeccata.
Estirpare le forme di vita
Per gli ebrei il metaforismo degli insetti («gli ebrei sono i pidocchi dell’umanità civilizzata»: Goebbels, 2 novembre 1941) comparve prima della pianificazione dello sterminio e della costruzione dei campi di concentramento, perché si sostenne su una complessa e martellante macchina retorica incardinata su motivi igienistici e antiparassitari: con una agghiacciante precisione, bisogna dire, perché il parassita appartiene effettivamente alla morfologia dell’ospitalità ed ha il volto bifronte dell’amico (l’ebreo assimilato e integrato nella comunità nazionale) e del nemico. Perciò si fanno i bombardamenti a tappeto: per essere sicuri di aver estirpato fastidiosissimi acari.
Gli altri passaggi di questa vicenda sono noti o facilmente deducibili. Tra il 1922 e il 1927 una delle tante guerre dimenticate o non rubricate, quella tra il Marocco e la Spagna, fu condotta come prima guerra aero-chimica. Poco dopo la metà degli anni venti fu messo a punto il Zyklon B, il gas di Auschwitz, che poté entrare nei campi di sterminio anche su mezzi della Croce Rossa proprio perché accompagnato da una patente di igienizzazione e di medicalizzazione. Nel 1924, poi, il Nevada mette in moto la camera a gas, introducendo nel diritto penale di uno stato democratico il motivo atmo-terroristico dello sterminio di organismi per mezzo della distruzione del loro ambiente, ed aggiungendo il pieno controllo della differenza tra il clima interno della camera, mortale, e il clima esterno, rispondente ai requisiti di respirabilità: con la possibilità che vi siano testimoni e spettatori dell’agonia e della fine di un sistema organico determinate dall’invivibilità del suo ambiente.
La zona storica immediatamente successiva è convulsa. Nella notte tra il 13 e il 14 febbraio 1945, a guerra praticamente finita, il bombardamento di Dresda, città piena di profughi provenienti dalla Slesia ma priva di significative installazioni militari, fu condotto, perfino al di là dell’impatto diretto delle bombe incendiarie, in modo tale che molte vittime furono trovate disidratate e mummificate senza che fossero entrate in contatto con il fuoco. In quel caso fu messo in atto un attacco termo-terroristico che portò a temperature di oltre mille gradi e a vastissimi effetti di carbonizzazione, e di certo non vale sottolineare che, come mi pare di ricordare, ancora il giorno dopo, il 14 febbraio, partì da Amburgo l’ultimo treno di deportati verso est. Su Hiroshima e Nagasaki, e soprattutto sul fallout radioattivo successivo allo sgancio delle bombe atomiche, non occorre aggiungere altro.
Meno noto è forse un progetto americano di belligeranza nella ionosfera abbozzato nella seconda metà degli anni ’90: si tratta nientemeno che di padroneggiare il tempo atmosferico (own the weather) per farne un moltiplicatore di forze. Sono in pista, tra le altre, le seguenti possibilità: la conservazione o l’annebbiamento della vista nello spazio aereo; il rafforzamento e la modificazione di temporali; il blocco della piovosità su territori nemici e la produzione ad arte di siccità; l’intercettazione e l’interdizione della comunicazione del nemico e l’impedimento di analoghe attività meteorologiche della parte avversa. Saremmo passati così dall’esercito tradizionale ad un battlespace environment. Compagno stretto del progetto suddetto è un altro programma, che prevede la creazione di corpi elettromagnetici ad alta energia e la facoltà di irradiarli nella ionosfera. Nobilitato da motivazioni civili (rigenerazione del buco dell’ozono e prevenzione degli uragani), un programma siffatto avrebbe mano libera nello scatenare catastrofi climatiche e terremoti. Poiché inoltre le onde a frequenze estremamente basse o ad infrasuoni intervengono non solo sulla materia inorganica, ma anche su organismi viventi come il cervello umano, si disegnano prospettive di un’arma neurotelepatica che potrebbe destabilizzare le funzioni cerebrali. La categoria nuova sarebbe, dopo quella degli Stati-canaglia, quella dei cervelli-canaglia, perfettamente acclimatata in un contesto di presunto diritto internazionale nel quale l’american way of war dà per scontata l’asimmetria morale vigente a suo favore e rende plausibile il «trattamento speciale» ionosferico.
Guerre senza confine
Fantascienza? Non più di quanto lo fosse, prima del 1915, l’artiglieria armata non con proiettili convenzionali ma con i gas. Si vede ictu oculi, ad ogni buon conto, che al confronto le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein sarebbero state, anche se fossero esistite, innocui aggeggini da ludoteca di quartiere.
Si intravvedono, pur in un contesto di coraggiosa e brillante propositività teorica, molte linee di ricerca ancora lacunose; e molte sono le glosse che sono costretto a sacrificare per ragioni di spazio. Mi limito a segnalare che Sloterdijk, come tutti quelli che sono perdutamente innamorati del loro bersaglio polemico, non riesce a stare per più di due pagine consecutive senza litigare con Heidegger, senza sfotterlo e senza scimmiottarne ironicamente il linguaggio astruso e iniziatico. Viene chiamata in gioco allora una delle grandi figure heideggeriane: lo spaesamento (la mancanza di patria), qui inteso non come connotato esistenziale generale dell’uomo moderno, ma come esodo da tutte le possibili nicchie di sicurezza nella latenza. Dopo Hiroshima, appartiene allo spettro di queste irruzioni nell’esistenza apatride anche la rivelazione delle dimensioni elettromagnetiche dell’atmosfera. Le immagini dell’«abitare» (il mondo), uno dei distintivi di riconoscimento dell’opera di Heidegger, si rivelano essere non solo idilliache – bisognerebbe immaginare un luogo che fosse bensì toccato dal vento freddo dell’esterno e dalla modernizzazione, ma che tuttavia continuasse a fungere da patria o almeno da ricettacolo e focolare -, ma vincolate ad una strategia immunitaria già spazzata via dai fatti e dalle cose. Del resto fu Heidegger che disse: la smisuratezza del mondo moderno non consiste solo nei suoi deliri di gigantismo, ma anche nella sua ossessione per l’infinitamente piccolo, nella sua passione per la miniaturizzazione. E piccolissimi sono tanto gli atomi quanto le particelle di gas.
C’è da temere però che la posta in gioco sia più alta di quella dello spaesamento: per tornare al linguaggio della guerra, è semmai quella dello sconfinamento e della il-limitazione. Se ne parla oggi a tutti i propositi, ricostruendo il mito della frontiera americana, monitorando a volte con stupore la persistenza delle barriere nazionali, data per anacronistica, assecondando con timore ma anche con curiosità indenne da conservatorismi la velocizzazione e l’apertura degli stili e dei mezzi di comunicazione. Non si studiano più i confini, ma la loro latitanza, e lungo percorsi raffinatissimi e doverosamente interdisciplinari. Sarà comunque difficile dissociare gli sconfinamenti produttivi di agio e di benessere da quelli che accumulano nuovi potenziali di distruttività. Ma per il momento il border thinking, il pensiero dei confini, va a ancora a tentoni alla ricerca di paradigmi validi sia per tutta la storia post-colombiana che per i processi contemporanei di globalizzazione. In attesa di quadri teorici più stabili e articolati, un orientamento si può però suggerire: la maestra dello sconfinamento – e vai a sapere se solo di quello ostile o, molto indirettamente, anche di quello amichevole e progressista – dev’essere stata ancora una volta la guerra, quando decise che si poteva fare a meno della reciprocità dei vecchi campi di battaglia, che un qualche limite lo imponevano. La battaglia dei cieli, in effetti, è minoritaria se non rara nella sua epicità (come la battaglia d’Inghilterra tra il 1940 e il 1941): quasi sempre la guerra aerea presenta un prosaico scenario asimmetrico in cui c’è uno solo che bombarda; agli altri, che sono a terra, non rimane che incrociare le dita ed essere bombardati.
[da il manifesto, 12 settembre 2004]