philosophy and social criticism

Michel de Certeau, la scrittura della storia

Marco Dotti

Michel de Certeau

Michel de Certeau

L’erudizione o lo sguardo incautamente tecnico possono prendere il sopravvento, nei riguardi de L’uomo Mosè e la religione monoteistica. È un genere di lettura che arriva talvolta ad articolare serie indefinite di riferimenti all’opera di Freud, traendo citazioni proprio dai punti in cui degli osservatori per nulla disinteressati preventivamente si sono presi la briga di «collocare», più che individuare, tracce e «frammenti di serietà». Eppure, osservava acutamente Michel de Certeau, nei tre saggi terminati fra il 1934 e il 1938 che compongono l’ultimo, controverso e spiazzante progetto della scrittura freudiana, questa presunta «serietà» proprio non si trova. Freud stesso, consapevole del terreno incerto e contraddittorio su cui si muoveva, in una lettera indirizzata a Arnold Zweig parlerà del proprio lavoro come di «una fantasia». Fantasia destinata a fornire una spiegazione all’«origine della leggenda», a metà strada quindi fra «scienza e finzione» come sempre succede – stando ancora alla lezione di de Certeau – ogni volta che ci si confronti radicalmente col problema delle pratiche del «fare storia» e del produrre discorso sulla storia, o, in altri termini, con il loro comune «linguaggio». Pur adottandone uno il cui pieno dominio, con ironia, attribuisce alla storiografia e ai suoi «ricercatori qualificati», Freud se ne serve con grande destrezza, quasi «lo adotta», alterandolo però, al pari di Kafka, con una pronuncia minore, deformandolo infine con un «accento straniero, come un uomo venuto da altrove». Lo fa avendo ben chiaro che proprio in quel luogo che è la lingua si giocano problematica, politica e destini dell’altro e della sua differenza. Questioni fondamentali che rimettono in causa tanto il campo «attraverso cui si autorizza la storiografia», quanto «il territorio» del quale l’indagine storica «è il prodotto testuale». Tutta un’implicita filosofia, dominata dalla «logica del nome e del luogo», sembra essere messa così in discussione dalla deformazione e dalla rivisitazione della scrittura di quel vero e proprio «romanzo» che è il Mosè. Scrittura che, calata in un contesto tecnico, se ne sottrae grazie a buone dosi di auto ironia, si carica di inquietante estraneità, introducendo di continuo elementi «fuori posto». In questa prospettiva, de Certeau interpreta quello di Freud come un vero e proprio «lavoro della differenza che cambia il discorso didattico e scientifico della storia, in una scrittura fuori quadro (in se stessa e rispetto alla disciplina), cioè in un romanzo», in una finzione che reintroduce «l’altro nel posto».

«Finzione», scriveva lo storico francese – che, fra le altre cose, nel 1950 entrò a far parte della Compagnia di Gesù e nel 1964 partecipò all’avventura della fondazione dell’Ecole freudienne di Parigi – «è una parola pericolosa». Essa affonda lontano le proprie radici e rimanda alla guerra intestina «fra la storia e le sue storie», fra «luoghi del tempo» e spazi del racconto. A maggior ragione, come si è visto, quando passa tra le mani di Freud la parola non perde nulla del suo statuto oscillante e incerto, anzi, inevitabilmente lo accresce in un gioco di rimandi e di implicazioni, quasi fosse «un entre-deux» danzato che fa assumere al termine “fantasia” ora il significato di «finzione (fingere, plasmare, fabbricare)», ora di travestimento, rivestimento o inganno.

Di «mio romanzo», parlerà ancora Freud sempre a proposito dell’Uomo Mosè, forse per definire meglio che si trattava proprio di un gioco «fra oggetto spiegato e discorso analizzante», condotto nell’ambito incerto e dimesso al contempo in cui sembrano destinati a incontrarsi ciò che la storia crea e ogni racconto, per sua necessità interiore, dissimula.

Ma Freud tutto fa, «fuorché creare un altro luogo» per questo incontro. Egli non sembra intenzionato a porre il romanzo in un campo altro rispetto a quello della storia, implicitamente cadendo nel tranello di quella «legge di spazializzazione che scaccia via l’alterità, accanto, in un posto, fittizio, diverso da quello che si è già occupato».

Per Sade, l’«arte di scrivere romanzi» si acquisirebbe solo attraverso viaggi e disgrazie, e il testo di Freud, nota ancora Michel de Certeau, reca per l’appunto entrambe le ferite. Pare generarsi da una invisibile traccia di sangue che trasforma il tutto in un scrittura fuori posto «allo stesso modo in cui si dice “persone fuori posto”». La finzione altro non sarebbe, dunque, che la traccia della lingua dell’altro e del suo déplacement. La scrittura, come ferita segreta del testo sarà dunque l’attestazione, qui e ora, di una perturbante presenza. È proprio su tali questioni, confrontandosi col terrain vague sul quale si muovono e sotto il quale, inevitabilmente, altre se ne agitano, che nel 1975, accantonate le vicende della mistica a cui aveva arrecato un fondamentale contributo critico, Michel de Certeau elaborò l’ultima parte del suo lavoro specificamente dedicato a La scrittura della storia. Un lavoro riproposto nel 2006 da Jaca Book in una nuova edizione italiana curata da Silvano Facioni. La traduzione è quella di Anna Jeronimidis, apparsa nel ’77 per le edizioni de Il lavoro scientifico, ampiamente elogiata dall’autore stesso in una premessa appositamente scritta per l’occasione.

Si tratta, come sottolinea Luce Giard nel saggio che accompagna un altro lavoro dello studioso francese, Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione (traduzione di Guido Brivio, con una premessa di Michele Ranchetti, Bollati-Boringhieri, Torino 2006), di uno di quei punti in cui si coglie nella maniera forse più compiuta la costante ricerca di una «definizione teorica» della disciplina e, al tempo stesso, l’assoluto rigore del suo metodo. Oltre questo ambito, il percorso umano di de Certeau era e rimane, fuor di dubbio, quello che con le sue stesse parole potrebbe definirsi «un viaggio trasversale», che meriterebbe ben altre riflessioni.

Psicoanalista, storico delle religioni, religioso gesuita motu proprio, attento osservatore dei movimenti politici e sociali che, dal Maggio francese, si erano diffusi in tutta l’Europa, a spingere Michel de Certeau a superare confini e ambiti disciplinari non erano però inquietudini esistenziali e dimensioni puramente esperienziali del suo «fare», ma gli oggetti stessi e l’«urgenza del lavoro in corso». Per questo, nota ancora Luce Giard, quando stava per attraversare la soglia di una nuova disciplina, cercava di farlo con discrezione, restando il più fedele possibile alla disciplina di origine e riservandosi in ogni occasione lo «scrupolo di ribadire l’identità di origine e i limiti della propria competenza». Un pensiero per nulla debole, quello di de Certeau, ma che nella «debolezza dell’essere» e nella ferita dell’esserci – in una dimensione sempre e ancora umana – trovava chissà come l’ennesima possibilità di aprire uno spazio per ribadire la centralità della questione della différence. A questo rimandano anche gli scritti, solo all’apparenza più meditativi e personali, centrati sul tema del cristianesimo e raccolti in un’altra preziosa antologia edita da Città Aperta e titolata La debolezza di credere. Fratture e transiti del cristianesimo (traduzione di Stella Morra, Città Aperta edizioni, Troina 2006). «Sentendo svanire il suolo cristiano su cui credevo di avanzare», si legge, «vedendo avvicinarsi, dopo un lungo cammino, i messaggeri della fine, riconoscendo così il mio rapporto alla storia nella forma di una morte senza futuro proprio e di una credenza senza luogo sicuro, scopro una violenza dell’istante. Una necessità poetica (oserei dire un “fervore”, con la forza di questa parola antica) nasce dalla perdita che apre effettivamente a una debolezza. Come se, avendo spiato i segni di ciò che ci manca, nascesse a poco a poco la grazia di essere attenti attraverso ciò che ci si mostra come la realtà più fragile e fondamentale». La preghiera, ma anche il rapporto fra la politica della Chiesa, la politica tout court e i golpe latino americani riaffiorano come temi portanti della raccolta. Eppure, anche nelle questioni che, a prima vista, potrebbero risultare più marginali e personali, de Certeau non rinuncia a condurre fino in fondo «quel viaggio senza ritorno» che, comunque la si voglia chiamare, coincide a pieno titolo con un’esperienza del pensiero non riconciliata, eccentrica, ma, sopra ogni cosa, mai priva di rigorosa e inesausta passione militante.

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ISSN:2037-0857

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