philosophy and social criticism

Adamo II

Silvio Ceccato

Giorni trepidanti e giubilanti. L’idea m’era venuta in un soggiorno a Londra, nella primavera del 1953. Vi aveva contribuito anche un futuro premio Nobel, Dennis Gabor. Si sorseggiava la nice cup of tea in un locale di South Kensington. «Torno dagli Usa – mi diceva – e danaro e macchine folgoreggiano. La sua analisi della mente mi sembra, forse per la prima volta, adatta alla costruzione di una macchina. Perché non prova?»

Fin da bambino sono stato attratto dalle macchine. Amoreggiavo con il meccano. Solo il sapere meccanico mi lascia tranquillo, anche se una certa aura magica non mi dispiace. Ben prima, dunque, che una vita di esperienze mi suggerisse di parafrasare il vecchio giudizio, «più conosco gli uomini, più amo le bestie», in «più conosco gli uomini, più amo le macchine». Tornato in Italia, mi ricordai di un giovane ingegnere, che aveva lavorato per le catene di montaggio dell’Alfa e della Perugina (e da qualche anno, purtroppo, scomparso).

Era uno spirito curioso e fantasioso, critico e costruttivo insieme, divoratore di logica e di letteratura, Enrico Maretti. Avremmo tentato l’impresa; ma i nostri soldi, e comunque i miei, erano davvero pochi. Passando per Roma, qualche tempo dopo, ne parlai con un vecchio amico, Leonardo Sinisgalli, una delle persone più vivaci di ingegno e più disponibili che avessi conosciuto, sin dai tempi della nostra vita goliardica a Milano. Aveva fatto strada, era divenuto « l’ingegnere poeta », dirigeva la bella rivista “Civiltà delle Macchine” per la Finmeccanica, Gruppo IRI, e scriveva sul “Corriere della Sera”. Che più?

Adamo II

Adamo II

L’idea di una macchina «mentale» lo attrasse, forse perché un tanto di magica fantasia non dispiaceva nemmeno a lui. E certo perché non ne vide le implicazioni filosofiche, implicazioni destinate a pesare su ogni sistema religioso ed ideologico, che di valori etici assolutizzati si avvalgono. A dire il vero, nemmeno io gettavo lo sguardo così lontano in direzione pratica. Una macchina è una macchina ed un uomo un uomo. Forse che il calcolatore ha mai disturbato nessuno? Che chi è tenuto a far calcoli, sicuri ed in fretta, potrebbe farne a meno? Ma per questo rifiuta di iscriversi ad un partito o credere in qualche divinità?

Se fossimo stati consapevoli della differenza fra una macchina strumento di automazione ed una macchina-modello delle operazioni mentali,
presumibilmente Sinisgalli avrebbe fatto subito un salto indietro, come tante volte ho visto fare in seguito anche dai miei fautori più entusiasti.
Per fortuna, anche per promuovere la cultura occorre una certa incultura, e questa non manca mai.

Quanto tempo per costruire la macchina? Con quali e quanti soldi?
La somma sarebbe stata sborsata da “Civiltà delle Macchine”, non solo perché in qualche modo rientrava nei suoi intenti, ma anche perché la costruzione si sarebbe risolta in pubblicità ad alto livello, una pubblicità di immagine. Purché non si superasse il milione; e, lavorando noi gratis, per l’acquisto dei pezzi sarebbe bastato. Quel milione, tuttavia, non era disponibile sino a macchina consegnata, sicché lo anticipò l’ingegnere non poeta. Quanto ai tempi, si doveva lavorare abbastanza in fretta, perché la macchina sarebbe stata esposta ad una mostra-congresso dell’automazione e automatismo, il primo dopo la guerra, nelle sale del Museo della Scienza e della Tecnica, a Milano, l’aprile del 1956.

L’idea c’era, e sulla mia parte critica delle varie posizioni filosofiche, e passate nella psicologia, sociologia, nonché anatomo-fisiologia, ecc., non avevo dubbi. Contenevano un errore di fondo. Ma anche la mia descrizione della vita mentale in termini di macchina non era certo tutta chiara (e non lo è a tutt’oggi). Bisognava darsi da fare, limitarsi comunque a singoli contenuti mentali, sciolti da ogni interdipendenza, sia fra loro, sia da situazioni percettive, rappresentative, organiche, e simili. Io, poi, avrei intercalato un soggiorno ad Amburgo, progettato da tempo; o, forse, per prendere tempo.
Giornate intense e notti agitate, lunghe telefonate e visite a Leonardo Sinisgalli; e finalmente il progetto, varato, passò nelle mani di un bravo elettrotecnico, con bottega-laboratorio a Milano.

In corso di gestazione, Sínisgalli battezzò la nostra-sua macchina. Si sarebbe chiamata «Adamo II». Drizzai le orecchie. Quel nome, è vero, era figurato quale titolo di un romanzo tedesco, e non aveva sollevato scalpore. Ma ora la situazione era differente. Già mescolare la macchina con la Mente, lo Spirito, la Ragione avrebbe potuto suonare dissacrante. E lo erano i miei studi, malvisti da coloro che per passione o professione, nell’ideologia, nella religione, ecc., devono concludere con la scoperta di valori universali e necessari, estrastorici ed estrageografici; per non parlare dei filosofi di ogni tendenza. Ma quale sarebbe stata l’alternativa?

Per fabbricare l’artefatto a nostra immagine e somiglianza bisogna sapere prima come funzioniamo noi; e questo comporta un’analisi in operazioni di ciò che si vuole ottenere. Una volta che l’uomo sia posto a soggetto di questo operare, egli guadagna tre gradi di libertà: lo esegue e ne provengono certi risultati; non lo esegue ed essi spariscono; ne esegue un altro e ne provengono altri risultati.

Il costruttore non può nemmeno ammantarsi di finta umiltà come il filosofo, confessando, questi, di sapere di una Realtà o Natura che a noi, poveri uomini, sfuggirebbero sempre; e tanto meno può chiudersi in un socratico sapere di non sapere. L’uomo che si pone quale costruttore si pone anche come creativo e responsabile di ciò che fa. Sul nome, dunque, io nicchiavo; e Sinisgalli insisteva.

Chiesi tempo per sentire i pareri, e perché no?, proprio quello del Vaticano. Lo avrei saputo attraverso un religioso divenuto amico ed allora segretario di un cardinale. Dopo tre giorni mi telefonò la lieta novella. Nessuna riserva: sia perché l’aggiunta di quel II lasciava al buon Dío tutta la responsabilità del I, sia perché « in fondo, per noi, Adamo resta sempre un peccatore ».

Con l’exequatur, tuttavia, le difficoltà non erano finite. E non solo perché la bottega-laboratorio milanese era piena di lavoro, ma anche per un imprevisto ostacolo sbucato da qualche testa del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che alla mostra nel Museo della Scienza e della Tecnica sovrintendeva. Ostacolo imprevisto forse solo da noi, per i nostri ingenuissimi occhi, che cominciarono ad aprirsi sulle segrete cose, o cosche.
L’ufficio stampa del CNR era stato messo in allarme da due ampi ed elogiativi articoli su questo Adamo II, l’uno sul “Corriere della Sera”, di Dino Buzzati, e l’altro sul “Messaggero”, di Alberto Mondini. Come? Due sconosciuti si permettono di far rumore, di usurpare fama, senza appartenere al Consiglio Nazionale od a qualche celebrata Accademia? Quella macchina non s’ha da esporre, né ora né mai. In ogni caso andava prima vagliata; e sul giudizio non c’erano incognite.

Solo la potenza della Finmeccanica, con la sua rivista, e la decisione di Leonardo Sinisgalli, che fra l’altro si trincerò dietro il segreto industriale (!) e fece notare che lo stand alla mostra era stato regolarmente affittato, poterono trionfare. Chiamato al telefono più di una volta dall’ufficio stampa del CNR, io poi avevo scambiato frasi degne di lonesco o di Brancati. Pensavo fossero orgogliosi di poter esporre una simile novità; e mi scusavo se non era ancora pronta, assicurando tuttavia che lo sarebbe stata il giorno dell’inaugurazione. «Ma no, ma no!», mi sentivo rispondere. «Non importa, anzi!» L’avrebbero accolta l’ultimo giorno, anzi l’ultimo pomeriggio bastava, quando sarebbe stata loro cura invitare alcuni giornalisti.

Gli è che a quella mostra il Consiglio Nazionale delle Ricerche, cioè i suoi gruppi di ricerca ufficiali non avevano proprio nulla di nuovo da esporre, od almeno nulla che potesse fare un po’ di rumore. Un episodio non lasciava dubbi. Qualche giorno prima dell’inaugurazione, mentre mi aggiravo per le sale della mostra, avevo visto alcuni verniciatori intenti a cambiare la facies esterna di un macchinone destinato all’allenamento dei piloti per il volo alla cieca. A me non sembrava che avesse bisogno di quei restauri. Mah! La spiegazione venne quando l’allora presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, inaugurò la mostra.Si spostava rapido di sala in sala e, giunto davanti alla macchina pitturata di fresco, ebbe un sussulto. Non ricordo le parole esatte, il tenore però era questo: che l’avrebbe dovuta ammirare per la terza volta, avendo già provveduto prima a Bari e dopo a Vicenza. Quanto alla povera macchina, essa, prodotto americano, era sopravvissuta alla guerra.

La mia era nuova di zecca, anzi era in fieri, come annunciava un cartello che dalla sua sommità la proclamava un «frammento del cervello di Adamo II». Il presidente doveva aver letto almeno i titoli degli articoli apparsi sui giornali e lo avevano incuriosito. «Che cosa è? Che cosa fa?» Illustrai per due minuti. «Secondo i risultati di una ricerca sulla vita mentale, si deve ammettere che ne è organo fondamentale l’attenzione. Esso è un organo pulsante, che… ecc. Gli stati di attenzione, combinati, danno luogo alle categorie mentali. La macchina mostra il costituirsi di 23 di queste. Le lampadine simulano questi stati e, premendo il relativo tasto della bottoniera, tanti circuiti elettrici…» Quando mi fermai, il presidente non se ne andò. «Continui», ed io continuai. «Si tratta di una ipotesi di lavoro » e se la ricerca fosse potuta proseguire avrebbe ricevuto la sua verificazione o smentita. Comunque, questa era la prima volta che veniva tentata l’impresa, perché dai risultati dei lunghi secoli filosofici nulla era giunto di aiuto all’anatomo-fisiologo del cervello e tanto meno all’ingegnere.

Riassumevo le paginette che distribuivamo fra i visitatori, testo italiano ed inglese.

Interruppe l’on. Guido Gonella che, puntando il dito sulla scritta, chiese il perché di quel nome. Sulle labbra mi venne la risposta del religioso, «Eccellenza, un peccatore come noi». Il corteo del presidente rise; e rise, ma pensoso, o meglio con il suo personale sorriso da Gioconda, il presidente, che si allontanò dopo essersi congratulato.

Fu allora che mi avvicinò un distintissimo signore anziano, porgendomi la mano. Si congratulava anch’egli, ma su premesse diverse. «Che lei abbia costruita o no la macchina che pensa, non lo so e non mi interessa molto. Ma che lei sia riuscito a costruire una macchina in grado di far pensare il presidente…» Un radicale di vecchio stampo? Anche perché non ricordo se disse «il» o «un» presidente. Il suo nome mi è sfuggito.

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Ceccato presenta Adamo II al Presidente della Repubblica Gronchi

I giornali in cerca di novità, di «notizie» fecero molto chiasso. La fotografia della macchina comparve su giornali e riviste davvero di tutto il mondo. Intervennero, con ampi servizi, radio e televisione. Ed in effetti era l’unica macchina della mostra che incuriosisse e potesse suscitare qualche discussione. Fra l’altro, distribuivamo a tutti un opuscolo. Un paio di stranieri mi chiesero di comperare il marchingegno. Le passò davanti persino un cattedratico, celebre fisiologo, anch’egli con seguito. Buttato uno sguardo alla macchina ed a me, scosse verso i discepoli la testa con aria di compatimento. Lui sì, che sapeva. Caso volle, poi, che proprio in quei giorni avesse luogo a Milano un convegno della Società filosofica italiana. Più o meno mi conoscevano tutti, e sapevano che ero stato allontanato dall’università dopo aver scritto un saggio in cui i filosofi partecipavano ad un gioco, le cui regole impongono di concludere con valori universali e necessari, e dei quali quindi vanno nascosti abilmente i criteri, Il Teocono (pubblicato la prima volta nel 1949 sulla rivista “Methodos”, ed in seguito in un volumetto della collana «Il Pesce d’Oro», da Vanni Scheiwiller, di Milano).

Ci fu fermento fra i filosofi, mi fu raccontato, e da un cattedratico dell’Università Cattolica di Milano, Gustavo Bontadini, fu pronunciata la frase, «Se Ceccato avesse ragione, saremmo tutti degli imbecilli!». Mah. Comunque il miglior complimento che abbia mai ricevuto. Si chiese un giudizio anche a padre Agostino Gemelli, rettore dell’Università Cattolica, psicologo, fisiologo, biologo, ecc. Egli rispose che mi conosceva e che, pur non pronunciandosi su quell’Adamo II, ammetteva una validità ai miei studi, in particolare quelli linguistici.

Questo giudizio giunse, credo tramite il console americano di Firenze, alle autorità USA, che si erano compromesse garantendo di consegnare in breve tempo al senato una macchina in grado di tradurre da una lingua ad un’altra, precisamente dal russo all’inglese. Ma, come spesso ebbi poi occasione di ripetere, in questo campo il passo più difficile non è quello dell’uscio, bensì quelli seguenti.

Mi chiesero di presentare un progetto, di indicare un procedimento. Era la traduzione attraverso il pensiero, sul quale mi sembrava di aver fatto molti progressi, di aver trovato una chiave. Lavorai così per vari anni per le loro forze aeree, con un gruppo di circa trenta persone, fino a quando le imprese belliche d’Oriente non distrassero i fondi americani destinati a ricerche non direttamente attinenti alla guerra. Un libro su questo programma di traduzione meccanica fu pubblicato da Gordon and Breach, di New York: Linguistic Analysis and programming f or mechanical Translation, 1962.
Che ne è stato dell’Adamo II?

La macchina apparteneva a “Civiltà delle Macchine” e, chiusa la mostra, fu spedita a Roma, per essere conservata negli uffici della rivista. Ma a quegli uffici non giunse mai. Quando seppi della sua scomparsa, feci circolare la voce che fosse stata rapita e nascosta nelle segrete del Vaticano.
Mi si volle anche far credere una storia più semplice e squallida. Forse qualcuno l’aveva smontata e venduta a pezzi, per qualche centinaio di migliaia di lire. Ma oggi devo forse ricredermi per una storia anche più trista, e devo stare attento a non inorgoglirmi. Quelle mie ricerche, quella macchina erano scomode. Una volta gli eretici subivano la loro sorte, ostracismo, e poi galera, tortura, morte, o Siberia, sine funere ferri: «portati a seppellire senza funerale». Oggi, almeno fra noi europei, la situazione punitiva si è fatta più difficile. Una sparizione dell’uomo fastidioso farebbe un pericoloso rumore. Basta far tacere, impedire che di una cosa si parli.

Il sospetto è rafforzato da un successivo episodio. Se era sparita la macchina, che non potei così inviare ad una Mostra di automi all’Eur di Roma, restavano però gli spezzoni televisivi girati dalla RAI durante la visita del presidente della Repubblica e negli altri giorni. Li ottenni, con mille insistenze mie e raccomandazioni loro; ed inviati a Roma furono questi. Anch’essi sparirono; e non so di alcuno che mai ne abbia fatto ricerca.

Se qualcuno, comunque, intendesse ricostruirla, foto e disegni di Adamo II sono rimasti, e farebbe opera «storica»! Si era dichiarato allora di progettarne e realizzarne una più dotata nel giro di qualche anno. Ma ne trascorsero parecchi prima che si progettasse un «cronista in miniatura», dotato di sensibilità ottica ed in grado di osservare e descrivere gli eventi di un suo ambiente; precisamente, un piccolo palcoscenico con sette oggetti mossi a piacere da uno spettatore.

Mancarono i fondi dopo aver realizzato il «visore», oggi presente incustodito e saccheggiato in quel Museo della Scienza e della Tecnica che aveva tenuto a battesimo l’Adamo. (Spoglie del nemico lasciate in pasto ai corvi?!) Peccato, perché è rimasto a tutt’oggi l’unico progetto di una macchina in grado di osservare e descrivere – sempre tramite il pensiero – un ambiente statico e dinamico, sia pure limitato.

Abbandonato l’Adamo III, tentai di applicare i risultati di quelle ricerche cibernetiche all’Adamo I, di operare cioè su bambini e ragazzi; una didattica nuova, sia per i contenuti sia per il modo di porgerli. (Un esempio se ne trova nei due volumi Il punto).

Con Sinisgalli si continuò a vederci. E “Civiltà delle Macchine” ospitò vari articoli, anche quando direttore ne divenne Giuseppe D’Arcais. Ma i tempi erano cambiati e la Finmeccanica non poteva più mostrarsi mecenatistica. O forse a Sinisgalli erano stati aperti gli occhi. Era o non era appartenuto alla corte di Ivrea?

I miei sostenitori erano divenuti gli USA, l’Euratom, e, per qualche anno, l’undicesima impresa del CNR per la cibernetica.

Comunque, Leonardo Sinisgalli rimase, di questa strada italiana verso l’artefatto intelligente, almeno per me, la prima e la più amica stella cometa; e mi scuso in sua memoria se, da stolido, gli ho recato disturbo.

[Pubblicato in appendice a Il perfetto filosofo, Laterza, Roma-Bari 1988]

ISSN:2037-0857