Il maestro
Jean Paulhan
No, non fingerò più a lungo di ignorare quanto tutti i critici d’arte tedeschi hanno scritto, tutti i direttori di musei d’America ripetono, quel che sa il ragazzino della Terra del Fuoco quando viene a Montparnasse a imparare a dipingere – e il mio medico (con alcuni bravi borghesi di Francia) resta il solo a ignorare. Che l’inizio del XX secolo era un’epoca di giganti. Che il tempo e il paese che hanno visto, dopo Cézanne, Van Gogh e Seurat, risplendere all’improvviso Braque, Picasso, Rouault, sono benedetti fra tutti i paesi e tutti i tempi, più del Rinascimento italiano e della Prosperità d’Olanda. Che vi è una Bellezza moderna, accanto alla quale impallidisce la Bellezza dei Primitivi e quella dei Classici.
È più difficile dare un nome a questa Bellezza. Non vedo tutte le sue linee; vedo per lo meno gli interrogativi che essa pone. Sono indovinelli, come ne fanno i bambini o i primitivi (e non per caso l’arte negra aveva la sua parola da dire in proposito): «Cos’è più somigliante del vero? Cos’è evidente senza che lo si dimostri? Splendido, senza che lo si ammiri?» Oppure: «Non è il pittore che ha cominciato, èil quadro. Che cos’è? Più lo si vede e più stupisce. Che cos’è?» E ancora: «Che c’è dietro lo spazio e il tempo? » Insomma, una bellezza metafisica.
C’è un malinteso su questo. Si suppone (abbastanza stranamente) che la metafisica significhi libri piuttosto difficili, e in ogni caso noiosi. Ma, basta un minimo di sincerità per accorgersi del contrario. Sappiamo tutti cos’è il tempo e lo spazio, e la libertà, e anche l’eterno. Lo sappiamo benissimo finchè non ci pensiamo. Tanto è vero che lo sappiamo, per così dire, per via indiretta. È nel pensarci, quando tutto si ingarbuglia, che arrivano i libri noiosi, e la metafisica infine non è un libro, è una realtà se ce n’è una. Non difficile, anzi la cosa più condivisa che ci sia al mondo. Né noiosa, anzi raggiante; ed è alla sua luce che vediamo il mondo. Luce fragile, lo so, se sfugge il nostro sguardo. Che il pittore dunque la sappia fissare!
In questi ultimi mesi Braque spalanca una finestra sulla sua abituale natura morta. Ma né il sole né le nuvole riescono minimamente a dislocare e alterare il tavolo e il catino, la pagnotta o le due triglie con cui ci delizia e ci acquieta: ci appaga. Ho chiaramente mostrato le sue tele? Anche di quelle è più facile parlare per via indiretta che diretta, se questo pittore, che potremmo credere contento d’un pesce o di una crosta di pane lavorati alla spatola, ci sembra, a guardarlo meglio, ossessionato da conchiglie e da capelli, da onde e da sorrisi. Ma è vero tuttavia che il tozzo di pane è sufficiente. Senza che si siano avverati dei precedenti, senza discendenza che valga, Braque dà in ogni momento la sensazione di ciò che domina l’esatto, e autentica l’autentico; mantiene entro le sue armature un mondo stranamente colmo: autonomo al punto che ogni colore vi perde le sue qualità innate; il verde cessa di essere agreste, il rosso violento, il viola equivoco. E si è potuto saggiamente discutere intorno alla sua smania di assonometrie e di problemi – ma anche della sua tenerezza femmMea; della sua fantasia barocca – e della sua matena densa e ribelle. Lo si è potuto chiamare il maestro dei rapporti concreti, e lo lo chiamerei volentieri il maestro dei rapporti invisibili.
E, mi diranno, perché Braque invece di…? Qui posso solo rispondere una cosa: è Braque (come ho già detto) che è venuto a cercarmi. D’altronde tali questioni di precedenza sono spiacevoli. Sarei imbarazzato nel decidere se Braque sia l’artìsta più inventivo o più singolare del nostro tempo. Ma se il grande pittore è quello che dà della pittura l’idea nel medesimo tempo più acuta e più sostanziosa, allora senza esitare è Braque che prendo per maestro.
[Estratto da: Braque il maestro, traduzione di Renato Turci, s.n., Milano 1984, pp. 81-83].
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