philosophy and social criticism

Il mimetismo, la chitarra e i papiers collés

Jean Paulhan

Ho parlato di prove. Eccone una: c’è stato un periodo in cui si è voluto cambiare l’aspetto delle baracche, dei cannoni e delle automobili. Si sarebbe preferito vederli somigliare ad alberi e a pietre. Ebbene è stato necessario chiamare Braque e Picasso.

Il mimetismo di guerra è stato opera dei cubisti: se vogliamo era anche la loro rivincita. Gli unici quadri ai quali l’opinione pubblica aveva rimproverato ostinatamente di non somigliare a nulla, risultavano essere, nel momento del pericolo, gli unici che potevano somigliare a tutto. Gli alberi e i prati e le foglie lo testimoniavano: si riconoscevano nelle nature morte di Braque. Vi trovavano i loro spettri o i loro angeli tutelari. E l’aviatore che dubitava della foresta delle Ardenne o della Beauce, non esitava più davanti a un cannone ritoccato da Braque: era finalmente un albero vero, una pianura che era piana, foglie morte che erano proprio morte; si allontanava. So perché una tela, grande quanto un fazzoletto, mi dava stranamente la sensazione che il pittore non avesse dimenticato nulla. Perché la tela poteva dilatarsi e coprire degli autocarri, una campagna, la Francia intera.

Certo, non tutto era assurdo nel rimproveri mossi ai cubisti. È sicuro, per esempio, che si accontentavano di poco: di una chitarra e di una pipa, di un mazzo di carte e di un uovo al tegamino. E (nel mimetismo) di alberi e di campi – quando sarebbe stato del tutto normale imitare il mare. Soltanto sta di fatto che sono questi i rimproveri da rivolgere innanzi tutto alla pittura stessa.

Se il pittore avesse dovuto solo riprodurre l’aspetto delle cose, da molto tempo il fotografo (a colori) lo avrebbe mandato a spasso. Ma bisogna supporre che la pittura aggiunga alla fotografia un certo rischio e un certo mistero. Una certa metamorfosi. Dato che abbiamo dovuto parlare di angeli tutelari, e di spettri. Ora, in ogni caso, una metamorfosi è tanto più sorprendente quanto più l’oggetto è comune: più alla nostra portata. Può stupirci sapere che una balena si sia trasformata in una palma. Ma se sara una mosca a trasformarsi davanti a noi in una viola, saremo molto più sorpresi. Più gradevolmente sorpresi. Perchè la balena è già vagamente fantastica, mentre la mosca non lo è. Non smetteremo più d’acchiappare altre mosche per il piacere di vederle mutarsi in viole. Indubbiamente la pretesa monotonia delle tele cubiste ha qui la sua ragion d’essere (e quale altra?): era come se a Braque e a Picasso fosse capitato di ritrovare – così un giorno antichi pittori avevano inventato la prospettiva – la prova e la ragione della pittura. Infatti la pipa e la chitarra non finivano più di meravigliare. Ci si poteva rallegrare all’infinito delle loro avventure e dire (come fanno i bambini): « Ricominciate! » Ma eccoci al mio ultimo argomento.

Se occorreva, i cubisti non esitavano a inserire nelle loro tele la mosca, o il giornale. L’arte, ci dicevano una volta, è la natura vista attraverso un temperamento. A quei tempi i pittori temevano appunto di mancare di temperamento. Erano attenti all’albero, certo, e al sole, ancora più attenti a rendere l’albero o il sole in un modo personale: per sottolineare la loro presenza. Uno dipingeva a tratteggio, l’altro a virgole, un altro ancora a puntini. Come se la pittura stessa rischiasse di sfuggire loro e si dovesse continuamente prenderla nel loro trucchi e trappole personali.

Se i cubisti non hanno tante preoccupazioni, è senza dubbio perché non hanno motivo di inquietarsi; quando è il caso di imitare il giornale o la tappezzeria, essi prendono tranquillamente il giornale o la tappezzeria stessa. La pittura non ha mai potuto fare completamente a meno dell’imitazione. È uno dei suoi mezzi naturali. È anche uno dei suoi pericoli. Essa è continuamente minacciata dall’imitazione (come il romanzo lo è dal realismo). C’è da temere ad ogni istante che l’imitazione la divori. Ma Braque e Picasso avevano superato il pericolo. Potevano fare a meno di ogni personalità, fino al punto che gli oggetti stessi, invece della loro immagine, prendessero posto nella loro tela.

In breve, con essi il pittore aveva fatto una volta per tutte la sua scoperta. Taceva ormai, completamente schierato dalla parte delle cose, e si poteva udire persino il più sommesso mormorìo del limone e del gambero.

[Estratto da: Braque il maestro, traduzione di Renato Turci, s.n., Milano 1984, pp. 21-22].

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