Più somigliante del vero
Jean Paulhan
Non credo molto ai fantasmi, né agli spettri. Ma vedo bene che ho torto. Perché in fondo ci crediamo tutti, e sarebbe più leale ammetterlo. Mai un uomo normale si è rinosciuto del tutto nei suoi ritratti. Il giorno in cui ci fanno vedere il nostro profilo in un gioco di specchi, ascoltare la nostra voce in un disco, leggere le nostre vecchie lettere d’amore, è per noi un brutto giorno: e sul momento avremmo piuttosto voglia di urlare. Tanto è evidente che siamo qualunque cosa, ma non quello. Le fotografie esatte, i ritratti fedeli, possono essere pieni di forza, penetranti, belli o brutti. Hanno una caratteristica ben più importante: di non essere somiglianti. Montaigne era pressapoco il contrario del topo sadico che le immagini ci mostrano. Leonardo da Vinci non aveva di certo l’aspetto di un crisantemo, né Goethe di un melone. Sin da ora dobbiamo avvertire i nostri nipoti che non abbiamo niente in comune con le tristi immagini che conserveranno di noi.
Ma è più difficile sapere quello che siamo, e l’idea fisica che ci formiamo di noi. Ci vediamo forse segretamente da scorticati? No, in modo meno sanguinoso. Da scheletri? No, in modo meno decisivo. Ad un tempo inafferrabile e maledettamente netto. È quello che si chiama abbastanza precisamente uno spettro, e tutto sommato la faccenda ci è familiare, dato che l’abbiamo in mente ogni momento. Fa parte dell’ordine pratico quanto una lumaca o un limone.
Un limone. Ecco dove volevo arrivare. Giacché ci sembra, è ovvio, che anche se l’uomo non lo è, la lumaca, o il limone, deve essere contenta del suo aspetto; è tutto quello che essa si merita, non aveva che da non essere lumaca. Ma può essere che non sia così. è anche verosimile (non appena ci si pensa) che la lumaca, lei pure, non smetta di protestare (in silenzio) contro la conchiglia, gli occhi a trampoli e. persino contro la pelle madreperlacea che le vediamo. E forse un giorno ci saranno pittori abbastanza penetranti – oppure, chi lo sa, sufficientemente accorti – da schierarsi dalla parte di quella lumaca interiore; da trattare le coma e la conchiglia come si augurano di essere trattate.
Cerco solo di essere fedele, e pazienza se ho l’aria di uno sciocco. Che ci sia un segreto in Braque – come ce n’è uno in Vari Gogh o Vermeer – non lo può lasciar dubitare un’opera ad ogni istante stranamente densa e sufficiente: fluida (senza bisogno d’aria); luminosa (senza la minima sorgente di luce); drammatica (senza pretesto); attenta e quieta nello stesso tempo: meditata sino a dare l’impressione di un miraggio sospeso sulla sua realtà. Eppure, non appena voglio dare un nome a quel segreto o per lo meno all’impressione che lascia in me, ecco tutto quel che trovo: Braque propone instancabilmente ai limoni, ai pesci in graticola e alle tovaglie ciò che aspettavano di essere. Ciò a cui aspiravano: il loro spettro familiare. C’è un non so che di triste m un compito; di amaro in un’attesa: il timore di essere delusi. Ma ogni quadro di Braque trasmette la sensazione di un’attesa felice, e di un compito eseguito.
Beninteso, qui occorrerebbero prove. – E le darò. Del resto, dico cose banali. (Basterebbe solo usare un’altra parola – parlare di ideale per esempio). Tanto meglio. Volevo anche dire che la pittura di Braque èbanale. Senza dubbio fantastica, ma comune. Fantastica, come è fantastico, se ci si pensa, avere un naso e due occhi, e il naso esattamente fra i due occhi.
[Estratto da: Braque il maestro, traduzione di Renato Turci, s.n., Milano 1984, pp. 21-22].
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