Espressionismo: rivolta o utopia
di Luciano Parinetto
Gottfried Benn (uno, allora, dei suoi rappresentanti) ebbe a definire l’espressionismo: «un’eversione con eruzioni, estasi, odio, sete d’un’umanità nuova, con un linguaggio che va in pezzi per far volare in pezzi il mondo» (in prefazione a un’antologia di poeti espressionisti, Limes Verlag, Wiesbaden 1955). Effettivamente, secondo la cronologia proposta da Mittner, dal 1907 al 1926 circa (con preludi e postludi), questo movimento, soprattutto nei paesi di lingua tedesca, rappresenta (assieme, in parte, al futurismo, surrealismo, imagismo di altri paesi) una sovversione non solo estetica, ma morale, anzi, totale, che segna la impietosa svolta critica degli inizi dei secolo.
Ed è la rivolta generazionale in una società che da agricola si avvia a diventare industriale; passando ad un capitalismo che toglie/conserva in sé antiche forme patriarcal feudali e, favorendo l’inurbamento nelle metropoli e il lavoro nelle fabbriche, provoca radicali mutamenti nelle coscienze, nei comportamenti, nei costumi sessuali e, senza volerlo, l’acquisizione anche della coscienza di classe fra le masse proletarizzate. Gli espressionisti sono appunto i diretti testimoni della lacerazione dell’uomo tedesco fra prassi (ormai capitalistica) e coscienza (ancora nel guscio ideologico industriale, o già proiettata nella contestazione del macchinismo alienazione industriale). Non a caso Ladislao Mittner ha ricordato (L’espressionismo, Laterza, Roma-Bari 1965, p. 29) che i verbi più cari agli espressionisti sono brechen (rompere), stossen (urtare) e reissen (lacerare): tutti connessi alla tematica della scissione e dunque dell’alienazíone. Come ha notato, nell’espressionismo, «unioni verbali già reperibili nello Sturm und Drang» (ib. p. 41): altro famoso movimento eversivo, cui diedero voce anche Schiller e Goethe (quando sentivano la primavera!).
L’uomo lacerato degli espressionisti è sia contro il non uomo della tradizione, che contro l’uomo disumanato del capitale. Nella sua lotta distruttiva contro padri e padroni, preti e capitalisti, scuola e famiglia, l’espressionista, che è il giovane di quella società in mutamento, vede nella poesia, nella creazione artistica, non un estetico, compiaciuto ripiegamento su se stesso, ma una lotta, una prassi, una azione. «Lo spirito, esaltato dagli espressionisti (…) – ricorda sempre Mittner (op. cit. p. 89) aveva la principale virtù ed il principale compito di cambiare la realtà»: come Lo spirito dell’utopia ed altre opere di Ernst Bloch insegnano. Die Aktion sarà appunto il titolo d’una delle più famose riviste espressioniste, per la quale la poesia rappresenta la molla dell’azione. La contestazione radicale della realtà esistente, la destabilizzazione poetica degli espressionisti non è fatta tuttavia guardando a certezze altre dal mondo da demolire. L’imperativo è quasi unicamente (e confusamente) la distruzione dell’alienazione borghese, senza la guida concreta di un’alternativa realistica, neppure teorica: una distruzione per la distruzione (che in taluni giungeva davvero al nichilismo), anche perché un orizzonte diverso non s’è ancora svelato (la Rivoluzione d’Ottobre è ancora di là da venire). Perciò le immagini, il più delle volte macabre e violente, scagliate contro gli idoli marci (famiglia, padri, professori, militari, patria, politici, eserciti, istituzioni) non possono che attingere al profetismo e all’apocalissi, oppure all’utopia (sovente sovrapposti), nonché alla generica contrapposizione degli sfruttati (ogni categoria di giovani soprattutto, compresi folli, prostitute, operai, etc. etc.) ai loro sfruttatori, nell’anelito all’avvento di un vero uomo, l’uomo nuovo, che cancelli per sempre la vergogna del non uomo borghese.
Si tratta della famosa figura espressionista dell’uomo nudo, che, da un lato, è l’uomo senza qualità, senza determinazioni (tanto alienato da non esser neppur più unilaterale, neppure ridotto dall’essere al mero avere; senza più nemmeno un nome proprio); dall’altro è un uomo-dio, un uomo luce, un Io TuTutti e dunque quasi un’inconscia incarnazione del Gattungs wesen (uorno/genere) marxiano! Ma l’apocalissi si incarnò veramente nella prima guerra mondiale (che fece sbocciare o approfondire nell’espressionismo i temi del pacifismo e dell’antimilitarismo su un’ecatombe dì giovani artisti espressionisti, che lasciarono la vita nelle trincee); e così l’utopia, con la Rivoluzione sovietica ai suoi inizi. Sicché il movimento espressionista andò sempre più biforcandosi, fra coloro che ripiegavano nell’individualismo e quelli che si aprivano al collettivo (ai proletari e poi alla rivoluzione). Ma il momento più caratteristico dell’espressionismo poetico è quello che immediatamente precede questa biforcazione e in cui (per semplificare) senza alcuna chiarezza teorica, ma poggiando solo sulla suggestione delle immagini, comunismo sentimentale e ricerca di dio (per non accennare che a due fra i molti temi) si accavallano e spesso si sovrappongono.
Poi vi sarà la bipartizione, e il proletariato (e le sue avanguardie) fornirà i piedi marcianti alle utopie di alcuni; altri ripiegheranno nella disillusione della svendita degli ideali ai bottegai da parte della repubblica tedesca; altri si rassegneranno alla “democrazia” della (prima odiata) borghesia, altri addirittura passeranno all’estrema destra e perfino al nazismo (e qui va ricordato non solo Gottfried Benn, che, per un po’, ne fece parte, ma P. J. Goebbels, autore di un dramma espressionista, prima di perseguitare, da nazista, l’espressionismo come arte degenerata, (ricorda Luigi Chiarini, in AA. VV. Bilancio dell’espressionísmo, Vallecchi, Firenze 1965, p. 129). Il momento magico dell’espressionismo resta comunque quello della disperata rivolta, senza alcun supporto, senza alcuna alternativa, senza alcuna certezza, al mondo presente e alle sue repugnanti alienazioni, in nome di un totalmente altro dal contenuto solo immaginario (nel senso anche della forza magica e pratica delle immagini). L’immagine più caratteristica di questo momento è quella dell’urlo: quell’Urschrei che, a parere di Mittner (op. cit. p. 56), non è mai un urlo di liberazione, ma di angoscia. Anche se occorre non dimenticare neppure il silenzio che urla dell’interpretazione “marxìsta” che più tardi Bloch dà della Bibbia e che è certamente vicino all’urlo dei rivoluzionari e non trascura l’apporto ebraico-chassidico allo sviluppo dell’espressionismo cui, almeno a parere di Mitmer, gli ebrei contribuirono in modo rilevante. Forse l’urlo dell’utopia di Bloch unifica gli aspetti che, per Mittner, sono disarticolati tronconi dell’urlo espressionista. quelli del primo grido infantile (ritorno alle origini) e l’urlo primordiale che annuncia il crollo dei vecchio mondo e la costruzione di un cosmo totalmente nuovo, sovrapponendo apocalissi e palingenesi (op. cit. pp. 49-51). Certo, che l’espressionismo terminasse, in taluni suoi rappresentanti, nel comunismo dei cuori e finisse per attaccare Mammona (e non il capitale!) Marx (per esempio nel suo Anti-Kriege) l’avrebbe giudicato un ritorno indietro; ma il magma ancor incandescente del movimento poteva assumere direzioni opposte, mai comunque smentendo il motivo fondamentale della nuda e non garantita rivolta.
Direi che più che mai questa resta la sua attualità, perché anche il nostro attuale squallidissimo mondo, più che mai borghese, più che mai capitalista, pare non presentare “realistiche” alternative all’onnipervadente e mortuaria alienazione, nella quale si affoga. Perciò la rivolta morale e le immagini potenti, di cui l’espressionismo la arma, ancora restano viventi per noi, insegnandoci, con Eraclito, a sperare nell’insperato e a vedere nel brutto presente ciò che non ha dignità di reale. E a Eraclito può dare una mano Marx (quasi ignoto agli espressionisti), che questo brutto presente illumina e denuncia come nessun altro ancora (e nonostante, o proprio perché, esso ne ha decretato l’oblio).
Milano, 3 marzo 1993
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tysm literary review, Vol 3, No. 6 – may 2013
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