Al Ard doc Film Festival. Intervista a Fawzi Ismail e Giuseppe Pusceddu
Giulia Zoppi
Con l’ edizione in corso dal 6 al 10 marzo 2012, il festival del cinema palestinese e arabo Al Ard doc film festival di Cagliari compie dieci anni. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Pusceddu, direttore artistico del festival, e Fawzi Ismail, presidente dell’Associazione amicizia Sardegna Palestina .
Ci può raccontare come è nato e quali sono state le motivazioni che lo hanno reso realizzabile?
Giuseppe Pusceddu: È nato dall’incontro con diverse registe “storiche”: le londinesi Antonia Caccia e Jenny Morgan e la tedesca Monica Maurer, documentariste che hanno raccontato la Palestina dalla guerra in Libano alla prima Intifada al recente massacro di Jenin del 2002. La motivazione ovviamente è quella di mostrare immagini della situazione nei Territori occupati palestinesi e nei paesi della Diaspora palestinese altrimenti „negate“ dai media europei e italiani soprattutto.
Questo festival era dedicato al cinema documentario della Palestina ma di recente avete ritenuto opportuno allargare il vostro sguardo al mondo arabo. Quali sono le ragioni di questa scelta? In che modo sono cambiate le prospettive?
Giuseppe Pusceddu: Non è esatto. Ci siamo sempre occupati anche degli altri paesi dell’area, anche se prevalentemente i documentari erano incentrati sulla questione palestinese. Abbiamo ospitato ad esempio la regista irachena Maysoon Pachachi, autrice di diversi documentari sia sull’Iraq che sul Libano. Non abbiamo cambiato prospettiva dunque, ma solo allargato gli orizzonti, approfondendo alcuni temi.
Parliamo di cinema documentario e del suo grande potere di testimonianza. Come prima cosa mi interesserebbe capire quanto sia difficile oggi girare e produrre un film in Palestina, anche in considerazione del fatto che col digitale i costi si sono azzerati, e quanto sia facile o meno distribuirlo…
Giuseppe Pusceddu: Ho citato prima Maysoon Pachachi non a caso. Diversi anni fa questa regista ha tenuto dei corsi di regia e editing (lei nasce come montatrice) nei Territori occupati. Da quei corsi è nata una generazione nuova di documentaristi che ha prodotto lavori interessanti, due per tutti: Saed Andoni, regista e montatore, e Abed a-Salam Shehada. Altri giovani sono venuti fuori da questo contesto “digitale”, sino ad arrivare a Osama Qashoo, un giovane talento, una vera rivoluzione nel campo documentaristico. Molti dei documentari di questi nuovi registi sono stati presentati in vari festival internazionali e trasmessi da Al Jazeera. Ci sono attualmente molti corsi sull’uso della videocamera come forma di documentazione, sia nei territori occupati sia nei campi profughi di paesi come il Libano, la Siria, l’Iraq. Nella nostra rassegna inseriamo, quando è possibile, sempre dei lavori fatti da questi giovani e giovanissimi. È vero che oggi i costi si sono azzerati, ma il problema più grande per i palestinesi è sempre la libertà di movimento: in un paese dove c’è in corso una occupazione militare tutto è sotto controllo, e generalmente i militari israeliani prendono d’assedio centri di produzione video o server che comunicano con il mondo. Per documentari maggiormente impegnativi dal punto di vista della produzione, si cercano altri produttori, i più disponibili sono quelli del Nord Europa. Si sono verificati diversi casi dove comunque vengono a mancare i fondi a metà della lavorazione. Infine, bisogna dire che la maggior parte della produzione è ovviamente indipendente. Aggiungo che senza l’intervento dei documentaristi esterni si sarebbe saputo poco della situazione drammatica che vivono i palestinesi sotto occupazione. Ad esempio, durante la Prima Intifada le famose immagini dei militari israeliani che spezzano senza pietà, e anzi compiaciuti, le braccia ai giovani che lanciano le pietre sono state riprese da Alajos Chrudinak per una Tv ungherese nel 1988.
Ho visto nei programmi delle precedenti edizioni che avete proposto molte opere. Ciò che suscita la mia curiosità sono le tematiche che vengono privilegiate e il linguaggio ad esse connesso. Di cosa parlano e in che modo i documentari affrontano la situazione politica, sociale ed economica della Palestina e dei Paesi arabofoni in genere? Mi rendo conto che rispetto al documentario il discorso diventa ampio, tuttavia sappiamo bene quanto anche il documentarismo abbia i suoi codici linguistici e formali e spesso sono dissimili a seconda delle aree geografiche di provenienza (sto pensando al cinema documentario statunitense che risente comunque di una cultura influenzata dagli Studio System).
Giuseppe Pusceddu: La questione del documentarismo in Palestina è alquanto complessa. Si deve parlare quasi esclusivamente di documentazione sociale e politica. In Palestina quindi, considerando la difficilissima situazione, le tematiche vengono affrontate quasi sempre con una visione sociale dove la Palestina nella sua complessità, storica, sociale, antropologica, culturale, è il soggetto principale. Faccio un esempio: si può parlare di educazione tralasciando il fatto che l’occupazione impedisce agli studenti di partecipare alla vita educativa? E questo esempio vale per tutta le sfera della vita associata: dallo sport all’economia, dalla cultura alla politica, dalla religione all’arte. In Palestina si sperimentano diversi codici e si tentano nuove strade, ma tutti gli sforzi sono orientati alla difesa, coraggiosa oltre ogni limite, della propria identità. Se posso dare una prima lettura di questo modo di fare documentarismo, devo fare riferimento al cinema diretto di Joris Ivens.
Quale spazio dedicherete in questa edizione alla cosiddetta „primavera araba“? E quante opere avete selezionato che affrontano non solo questo tema ma ciò che è avvenuto (e ancora avviene) tra la Libia, lo Yemen e la Siria? Quanto è difficile esportare queste testimonianze e quanto, far venire i registi a Cagliari in questo periodo di tumulti e di grande difficoltà per molti?
Giuseppe Pusceddu: L’anno scorso il regista egiziano Samir Abdallah è arrivato direttamente dal Cairo a Cagliari per presentare il suo documentario Gaza… Strophe. Ha raccontato al pubblico gli avvenimenti di piazza Tahrir, quindi già da marzo 2011 noi ci siamo occupati delle rivolte nei paesi arabi. Non è facile comunque avere dei prodotti finiti in breve tempo: il documentario non è un servizio televisivo, è un lavoro più complesso che richiede, se fatto bene, molto tempo per l’indagine, le interviste, avere riscontri su quello che si racconta. In Libia, ad esempio, la situazione non è ancora pacificata. Quale documentarista mostrerebbe solo un lato della vicenda nascondendo magari le terribili azioni che stanno compiendo gli stessi rivoltosi nelle carceri del Consiglio Nazionale? In Siria e nello Yemen ancora peggio. Che sta veramente succedendo in quei paesi? Per avere dei buoni documentari che raccontano le vicende bisogna aspettare. Non si può rischiare di presentare dei lavori poco corretti e devianti dal punto di vista politico e sociale. In dieci anni di rassegne abbiamo sempre mostrato la cruda realtà della Palestina, le testimonianze di una occupazione militare e coloniale spietata, mai nessuno ha messo in dubbio un solo frame di questi documentari che hanno fatto il giro del mondo, eccetto gli israeliani naturalmente, che hanno messo al bando diversi documentari o che fanno in modo che non vengano proiettati con una sorta di embargo preventivo (è il caso di After Jenin di Jenny Morgan: nella colonna sonora gli israeliani hanno ravvisato una sorta di plagio e per questo motivo hanno tentato di bloccare il film che denuncia, così come Jenin Jenin di Mohammed Bakri, l’assassinio avvenuto nel 2002 di centinaia di persone nel campo profughi della città Palestinese). Il pericolo di avere tra le mani lavori che mistificano la realtà è sempre attuale. A questo proposito, quest’anno presentiamo proprio un documentario americano che parla di falsificazione della realtà fatta da documentaristi australiani in Algeria nel 2007 in cerca di effetti mediatici (un presunto fenomeno di schiavismo nei campi profughi Saharawi amministrati dal movimento indipendentista Fronte Polisario). Quest’anno parliamo molto di piazza Tahrir come posto simbolico. Abbiamo alcuni film dove si vedono i volti dei rivoltosi, e poi abbiamo, in via sperimentale, alcuni audio documentari che raccontano con le voci di chi stava in piazza la rivoluzione. Testimonianze indubbiamente preziose.
Affiancate alla rassegna cinematografica una serie di eventi culturali di grande interesse. Mi può ricordare qualche appuntamento passato che ha lasciato un segno nel pubblico dei partecipanti?
Fawzi Ismail: Uno degli obbiettivi del festival è quello di presentare al pubblico sardo un aspetto diverso della quotidianità politica, sociale e culturale della società palestinese, sotto l’occupazione militare israeliana e nei campi profughi nei paesi arabi limitrofi, la produzione artistica e letteraria fa parte integrante della vita dei palestinesi. In Palestina e nei campi profughi, nonostante le restrizioni e le sofferenze, si produce una buona letteratura, musica, teatro e cinema che documenta da diverse prospettive gli eventi ampliando i punti di vista e la conoscenza, per questo abbiamo sempre inserito eventi culturali importanti come la presentazione di libri di scrittori e poeti rappresentativi della letteratura arabo-palestinese, ospitando gli autori, fra i quali Ibrahim Nasrallah, Salman Natur, e favorendo la divulgazione dell’opera di Ghassan Kanafani, assassinato dagli israeliani 40 anni fa (8-07-1972). Uno degli eventi culturali che ha suscitato maggiore successo è lo spettacolo teatrale dell’attore palestinese Mohamed Al Bakr “Il pessottimista” , tratto dall’ omonimo romanzo dello scrittore palestinese Emil Habibi. Abbiamo ospitato anche la mostra Lo sguardo di Handala, del disegnatore palestinese Naji Al-Ali, assassinato dagli israeliani a Londra nell’estate del 1987.
Nella edizione del festival di quest’anno sono previsti diversi eventi culturali: una mostra storica sul conflitto arabo-israeliano, intermezzi letterari, accompagnati dalla musica, di brani scelti della letteratura arabo-palestinese, un seminario “La ritmica e le origini arabe della musica medievale” a cura di Antonio Gramsci. A seguire il concerto di Antonio Gramsci e Franco Fois e, per il pubblico giovane, un concerto di Hip Hop del gruppo Wlad Elhara di Nazareth – Palestina. Durante l’organizzazione di una rassegna di cinema israelo-palestinese anni fa, ho dovuto affrontare una serie di problemi non indifferenti, parlo soprattutto di questioni di ordine pubblico. Naturalmente tutto è andato benissimo e ancora una volta, da che mi occupo di cinema, ho potuto constatare quanto lo stesso, come la musica e la poesia, rappresenti una zona franca dove il dialogo e il confronto è sempre possibile. Immagino che sia d’accordo con me…
Fawzi Ismail: Naturalmente sì, la poesia, la letteratura, la musica, l’arte in generale, sono espressioni nobili dell’animo umano, portano un messaggio universale, un eccellente strumento di dialogo fra diverse culture.
Quali sono i nuovi progetti che avete in cantiere ? Può darci qualche anticipazione in merito?
Fawzi Ismail: Certo, stiamo preparando un evento culturale per ricordare il 40° anniversario dell’assassino di Ghassan Kanafani, come ho ricordato prima, presenteremo, come associazione amicizia Sardegna Palestina, la sua opera, molti dei suoi libri sono stati tradotti in italiano, per la ricorrenza pubblichiamo una raccolta di racconti brevi, inediti in italiano, La terra degli aranci tristi.
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ISSN:2037-0857