philosophy and social criticism

Bruciare Debord? A partire da un libro di Anselm Jappe

Guy Debord

di Alessandro Simoncini

Persistenze dello spettacolo nel nuovo ordine penitenziale. Una premessa

«Bisogna bruciare Debord?«. Si apre con questa domanda il Guy Debord di Anselm Jappe (Roma, Manifestolibri 2013 → QUI), assai opportunamente ristampato per i tipi della Manifestolibri e pubblicato in prima edizione italiana nel 1992 dalle Edizioni Tracce.  Iniziava allora la litania della fine della storia: ogni alternativa alla società del capitale, della merce, del valore e del lavoro comandato doveva cessare di essere concepibile e, nelle intenzioni dei teorici del nuovo ordine, perfino desiderabile. Oltre venti anni dopo, la fine della storia non riesce ancora a finire. Anzi, nella temperie di una crisi acutissima ed ormai permanente – una crisi economica globale che si svolge nel contesto di una transizione geo-politica segnata dalla fine del “secolo americano” -, nuove sfibrate versioni della vecchia litania danno forma ad un discorso-zombie sulla “giustizia dei mercati” che si affatica a fornire  una sempre più instabile parvenza di verità alla variante finanziarizzata e neoliberale dell’accumulazione capitalista. Fin dalla sua nascita e per tutti gli anni ’80, ’90 e ‘00, l’espansione finanziaria è stata supportata e riprodotta dalle forme di quell’ordine “spettacolare integrato”che Debord aveva posto al centro della sua radicale indagine nei Commentari sulla società dello spettacolo (1988). 

Oggi nella crisi, con l’allestimento scenico di uno stato di emergenza permanente, le forme dello spettacolo sembrano mutare. Si pensi a quanto accade nei laboratori euro-mediterranei della tirannia finanziaria: sotto il commissariamento della tecno-struttura di Bruxelles e Francoforte, la fiction della democrazia rappresentativa perde ogni credibilità, mentre l’immaginario euforizzato dell’homo oeconomicus – l’imprenditore di se stesso dal dinamico e concorrenziale “capitale umano” – si converte rapidamente in quello frustrato dell’uomo indebitato e del lavoratore precarizzato.  Al tentativo capitalistico di superare il blocco dell’accumulazione diviene necessario l’allestimento di un nuovo, paradossale ordine spettacolar-penitenziale. Un ordine ancora in gestazione al cui centro troneggia l’immagine sovrana di un debito che produce colpa in permanenza: pena l’impennarsi dello spread o la dannazione del default donne e uomini indebitati – le figure di una nuova soggettività spettatoriale – devono accettare l’austerità, permettendo al capitale collettivo di riattivare in forme nuove l’accumulazione originaria, grazie all’espropriazione di redditi, beni comuni, ricchezza prodotta dalla cooperazione sociale. Al contempo, pur tra le frustrazioni di soggettività ormai meno “atletiche” sul versante del consumo, la merce e le sue immagini continuano a funzionare come un dispositivo di cattura dei desideri. Anche se in forma “dimagrita”, occorre  infatti tenere in forma la stendhaliana promesse de bonheur, una promessa su  cui continuano a fondarsi, in grande misura, sia il resistibile fascino del capitalismo spettacolare che la sua legittimità estenuata. Quella promessa è ormai poco più che una speranza illanguidita. E la speranza – per dirla con Spinoza – diviene facilmente una “passione triste” produttiva di rancore nella vita mentale di chi non può che assistere allo spettacolo  della crisi da spettatore passivo, contrito ed attonito. Se le sue forme cambiano, allora, l’ anima dello spettacolo resta indispensabile al buon funzionamento materiale dei dispositivi di produzione delle soggettività necessarie alla società della merce e del capitale. 

1.      “Un rapporto sociale tra individui mediato dalle immagini”

La risposta al quesito iniziale sembra allora scontata: non è affatto opportuno “bruciare Debord”. È bene, anzi, lavorare ad una adeguata comprensione delle nuove forme del concetto di spettacolo, senza smettere però di valorizzare il modo in cui il suo “inventore” ne ha messo a nudo l’anima stessa. A questo scopo il libro di Jappe ci viene in aiuto fin dal primo capitolo, intitolato appunto Il concetto di spettacolo. Vi si mostra che il concetto di spettacolo non riguarda tanto i bagliori della «sua manifestazione più opprimente»- la componente mass-mediatica –, quanto il modo in cui nella società dello spettacolo «il vivere e il determinare gli eventi in prima persona» venga radicalmente interdetto dalla «contemplazione passiva di immagini, che […] sono state scelte da altri».

Ecco l’essenziale che il libro di Jappe aiuta a tenere di fronte: come già il capitale per Marx non era «una cosa, ma un rapporto sociale tra persone mediato da cose», lo spettacolo per Debord è «un rapporto sociale tra individui mediato dalle immagini». Un rapporto sociale, cioè, in cui più l’individuo «contempla, meno vive», perché «più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio». Allo stesso modo in cui il capitale «produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso – da una parte il capitalista, dall’altra l’operaio salariato» – scrive Marx ne Il capitale -, lo spettacolo deve produrre e riprodurre lo stesso rapporto spettacolare: da una parte la soggettività spettatoriale del consumatore di fantasmagorie, dall’altra quella attoriale delle immagini stesse, e da questo punto di vista poco importa che esse siano carnevalesche o penitenziali. Lo spettacolo, insomma, non produce soltanto immagini, ma anche – e soprattutto – i soggetti necessari a rendere logicamente possibile la propria stessa esistenza. Come Jappe evidenzia, allora, a Debord non interessa tanto criticare le immagini in quanto tali, bensì «la forma-immagine in quanto sviluppo della forma-valore».

In altri termini, la vita stessa dello spettacolo è parte integrante di quella del modo di produzione capitalista. La fertilizza, la feconda. È nello spettacolo che la potenza di astrazione capitalistica giunge al suo “stadio supremo”, ed è in esso che si dà nitidamente a vedere quella perdita di esperienza che già Walter Benjamin – nel suo Erfahrung und Armut (1933) – aveva lucidamente colto come il marchio autentico della condizione moderna. Ma nello spettacolo – sostiene Debord – tutto quello che manca alla vita e che ne rende povera l’esperienza viene ricomposto, nella separazione, sul terreno delle immagini: più è povera l’esperienza, più quella rappresentazione indipendente che chiamiamo immagine (l’immagine della merce o quella della star – personaggio celebre, attore, politico o altro) svolgerà  la sua funzione di compensazione. Solo in quanto separati, i docili produttori e riproduttori della società del capitale potranno ritrovare allora la loro unità, che prenderà forma in quello spettacolo nel quale «le immagini  che si sono staccate da ciascun aspetto della vita – sostiene Debord – si fondono in un corso comune». Jappe non manca di sottolinearlo:«lo spettacolo – scrive – accaparra per sé tutta la comunicazione […] essendo quello che parla, mentre gli “atomi sociali” ascoltano». «E il suo messaggio – continua – è essenzialmente uno solo: l’incessante giustificazione della società esistente». 

2. Dentro Debord. Lukàcs e i suoi rischi

Gran parte della forza del libro di Jappe consiste nell’approdare ad una innovativa analisi delle fonti filosofiche di Debord, a partire dalla sua riscoperta del concetto marxiano di “feticismo della merce” nella versione fornitane da György Lukàcs in Storia e coscienza di classe (1923). Qui Debord reperisce gli strumenti per una critica radicale non più centrata sulla condanna della pauperizzazione crescente, o sulla teoria della caduta del saggio di profitto – come in Luxemburg, Lenin, Kautsky -, ma sullo stesso carattere “contemplativo” del capitalismo, inteso come “totalità”. Per l’hegeliano Lukàcs, la “reificazione” domina l’intera platea dei soggetti del sistema: il lavoratore deve vendere la sua forza-lavoro come una cosa psichica o corporea, ma anche l’imprenditore e il tecnico – pur traendone maggiori vantaggi – sono costretti a contemplare il corso dell’economia e della tecno-scienza.

Insomma, come Jappe sottolinea opportunamente, in Storia e coscienza di classe  Debord scopre l’immagine di un soggetto che ormai può solamente contemplare ciò che “gli si oppone come separato”. Nel grande libro del filosofo ungherese, infatti, il soggetto diviene «sempre più “spettatore” dell’automovimento delle merci, il quale gli sembra una “seconda natura”». Per Debord, come per  Lukàcs, contemplare è passività: l’opposto del vivere, che – al contrario – è l’unica attività in cui si dà per l’uomo qualche chanche di libertà. Se per  Lukàcs “attiva” è allora la lotta di classe – che permette il superamento della separazione e dell’atomizzazione nella ricomposizione del marxiano “uomo onnilatearle” -,  in modo formalmente analogo per Debord lo è la pratica rivoluzionaria, che “può portare al di là dello spettacolo” nel quale «la società frammentata viene illusoriamente ricomposta».

Jappe continua evidenziando le critiche di Debord ai limiti hegeliani dell’approccio lukacsiano verso la reificazione, ma anche i rischi di vitalismo, idealismo e teleologia presenti nel lukacsianesimo stesso del filosofo situazionista.

Rischi di vitalismo innanzitutto, poiché in Debord lo spettacolo viene talvolta descritto come «una forza che agisce dall’esterno sulla “vita”» e quest’ultima come il suo speculare opposto: ad un mondo totalmente alienato farebbe allora da contraltare «un soggetto sostanzialmente “sano”».

Rischi di idealismo, poi, laddove sia Lukàcs che Debord finiscono per individuare nel proletariato l’unico soggetto collettivo capace di condurre al superamento del sistema capitalistico-spettacolare. Al proletariato rivoluzionario, detentore di una verità sepolta dalla falsità spettacolare, toccherebbe allora «questa “missione storica di instaurare la verità nel mondo”» – scrive Debord nella Società dello spettacolo. Successivamente Debord estenderà il concetto di proletariato in sé alla «immensa maggioranza dei lavoratori che hanno perduto ogni potere sull’impiego della loro vita». Sarà questo nuovo soggetto per lui l’unico a potersi riconoscere come il vero autore del processo lavorativo, diventando così proletariato per sé. Infatti, solo quando la sua coscienza diventa “autocoscienza della merce”  il servo si fa hegelianamente “signore e padrone del suo mondo”, ovvero della “storia ”. Per Debord, però, il processo necessita di un medium: un’organizzazione tipo neo-consiliare, entro la quale il proletario possa praticare l’attività in prima persona. Nei nuovi consigli, infatti, vengono superati sia l’orizzonte sacrificale di una militanza neo-leninista che l’ingenuità “riformista” della controculture; al loro interno può prendere invece forma “il controllo diretto dei lavoratori su tutti i momenti della loro vita”, secondo una logica per cui – sottolinea Jappe – «la realizzazione dei propri desideri e l’attività rivoluzionaria dovrebbero essere la stessa cosa». Tutto il contrario della passività vissuta nella contemplazione dell’agire di un capo o di un partito burocratico.

Infine, ma non da ultimi, stanno i rischi teleologici di origine hegeliana; rischi comuni ad un paradossale “comunitarismo dialettico”presente sia nella critica Lukacsiana del valore di scambio, sia in quella debordiana dell’astrazione spettacolare. Con qualche accento nostalgico – completamente assente in Marx -, Debord parla infatti delle società contemporanee come di “società senza comunità”. Al contempo però – come del resto Lukàcs – valorizza con accenti deterministici il modo in cui «l’economia spettacolar-mercantile» ha permesso la crescita di forze che, per quanto separate, sembrano destinate a ricomporre una più elevata prassi comunitaria nel corpo stesso dello spettacolo dispiegato. Come in Marx e in Lukàcs quindi – sottolinea Jappe – anche in Debord «lo sviluppo delle forze produttive da parte della borghesia ha una funzione oggettivamente rivoluzionaria». Certo, ne La società dello spettacolo Derbord aveva sottolineato che il pensiero critico “non attende miracoli dalla classe operaia”. Ma nel 1969 – dopo il Maggio parigino – sulle colonne della rivista Internationale situationniste si poteva comunque leggere che «nel momento in cui ha spinto tanto lontana la sua invasione della vita sociale, lo spettacolo conosce l’inizio del rovesciamento del rapporto di forze. Nei mesi seguenti [cioè nel ‘68] la storia e la vita reale sono tornate all’assalto del cielo spettacolare». Un assalto a cui Debord stesso aveva partecipato, in un certo senso organizzandolo. Nel secondo capitolo del libro Jappe mostra con efficacia come, ricostruendo l’intera parabola che conduce il filosofo-stratega fin sulle barricate del Maggio parigino. 

3. Dal Lettrismo al situazionismo. Tra dérive e détournement

Al principio stanno le bettole. È qui che, dal rapporto tra  Debord e Isidore Isou e tra bevute assai smodate, nasce alla fine del 1952 l’idea di una  “Internazionale lettrista”. In un clima politico di plumbea asfissia culturale, mentre prende forma in Francia una potente modernizzazione capitalista, secondo Jappe il movimento lettrista produce l’unica posizione “di sinistra” capace di leggere la profondità delle trasformazioni in corso dal punto di vista della vita quotidiana. Tra teoria della dérive – alla ricerca della “geografia della vera vita” – e lotte per il “superamento dell’arte” e del cinema – nella pratica neo (o post) dadaista del détournement -, l’ Internazionale lettrista promuove il rifiuto del lavoro e la costruzione cosciente di nuovi stati affettivi capaci di potenziare la passione del vivere.

imagesIn  divergente accordo con il tentativo surrealista di praticare il rimbaudiano “cambiare la vita”, dalle colonne della rivista Potlach l’ Internazionale lettrista propone l’unità di arte e vita come strumento per la creazione di un “ambiente appassionante”. La “psicogeografia” sarà l’in-disciplina urbanistica deputata ad osservare e a criticare gli “effetti che i diversi ambienti cittadini producono sullo stato d’animo”. Alla sua base sta la dérive, quel processo di soggettivazione in forma di passeggiata che deve condurre ad una comprensione del modo capace di ricombinare tra loro gli elementi già presenti in città. Lo scopo è quello di conferire nuovo senso emancipatorio agli elementi urbani, in nome di quello che verrà poi chiamato “Urbanesimo unitario”. Pur dibattendosi tra evidenti limiti bohémiens, settaristi e puristi, il discorso lettrista – ricorda Jappe – è tra i primi a sfuggire, da sinistra, ad una critica prettamente economicistica del capitalismo, ed a porre così il problema “rivoluzionario” dei loisirs: «che cosa sarebbe avvenuto della parte crescente di tempo libero a disposizione della popolazione»? Sarebbe stato sottoposto a nuove, morbide forme di assoggettamento e controllo – a partire dall’ «abbrutimento obbligatorio degli stadi o dei programmi televisivi» segnalato su Potlach – o avrebbe potuto costituire la base su cui edificare nuove forme di vita e «una nuova civiltà del gioco e del desiderio»?

Dalla necessità di abbordare praticamente questo problema, che è poi  quello di  impadronirsi della cultura moderna per piegarla ai propri fini tramite la celebre pratica del détournement, nascerà nel luglio del 1957 l’“Internazionale situazionista”. Inizialmente ispirata da un modernismo radicale e dalle avanguardie dei primi decenni del XX secolo essa individuerà presto nella battaglia sui loisirs «il vero nuovo terreno della lotta di classe». L’elaborazione di una “scienza della situazioni” nella vita quotidiana è lo strumento concepito per superare la passività contemplativa a cui l’individuo è relegato da quello che viene ora apertamente definito come “spettacolo”. L’arte non deve riprodurre la vita, ma contribuire ad “allargarla” in modo contro-spettacolare. Per questo va abbandonata in quanto abbellimento o “adorazione del niente”. Piuttosto, essa deve autodistruggersi ed esprimere «la necessità di ritrovare un linguaggio comune che sia veramente “del dialogo”», scriverà Debord ne La società dello spettacolo; essa deve cioè inverarsi praticamente, e in modo non durevole (situazionista appunto ), nel quotidiano: non allo scopo di lavorare «allo spettacolo della fine di un mondo, ma alla fine del mondo dello spettacolo».

 4. Con Lefebvre, contro Lefebvre

È proprio sul tema del “quotidiano”, e sul rapporto di Debord con Henri Lefebvre,  che Jappe scrive alcune delle pagine più efficaci ed utili del volume. «Una storia d’amore che non è finita bene»: così l’autore della Critica della vita quotidiana definiva il suo rapporto con Debord, un rapporto di influenza reciproca terminato in scontro aperto proprio nel ’68. Per Lefebvre una rivoluzione diventerà possibile «solo quando le masse non potranno e non vorranno vivere come prima»; quando realizzeranno cioè una nuova “arte di vivere” capace di colmare il divario tra potenzialità della tecnica e miseria delle condizioni quotidiane. Dalle sue tesi antideterministe ed anti-staliniste, Debord mutuerà molti elementi della propria critica allo spettacolo: l’impossibilità di concepire una qualsiasi forma di auto-realizzazione nell’orizzonte del lavoro parcellizzato ed alienato; l’analisi di forme di alienazione non economiche; l’indagine aperta sulla “colonizzazione” di una vita quotidianamente piegata alle necessità dell’accumulazione secondo una nuova modalità del tempo ciclico (quella omogenea e vuota del consumo); la critica dello stato come strumento che promette invano il superamento di quell’atomizzazione sociale che invece esso fonda e riproduce senza posa.

Ciò che invece di Lefebvre a Debord proprio non piace, è l’assenza nel suo discorso della ricerca di mezzi pratici per la sperimentazione di nuove modalità del vivere. Ed è su questo livello pratico-sperimentale che, secondo Jappe, maturano sia l’originalità dell’esperienza situazionista sia quella del pensiero di Debord. Per lui, infatti, solo su quel terreno le idee possono tornare ad essere pericolose, cioè utili; e solo nella prassi sperimentale del tempo presente la rivoluzione può realizzare quel “rovesciamento di un mondo rovesciato” che conduce a una vita capace di autentico godimento. Il nuovo proletariato, composto dalla grande moltitudine di spettatori che hanno ormai «perduto il controllo sull’impiego della loro vita», può allora recuperare l’accesso al godimento soltanto sabotando in modo pratico, sistematico e puntiforme il sistema spettacolare. Le forme radicali della sua lotta vanno dallo sciopero selvaggio alle rivolte urbane dei quartieri neri degli Stati Uniti, che Debord interpreterà come «un rifiuto della merce e del consumo imposto».

Per lui occorre opporsi, in modo simultaneamente molare e molecolare, all’abbondanza capitalista, visibile tanto nei supermercati quanto nella miriade di grattacieli e case che caratterizzano la squallida urbanistica del capitale: tutti esempi manifesti della forza con cui la società dello spettacolo mira ad imporsi in modo “totalitario” a sudditi-spettatori, senza però giungere reificarli fino in fondo poiché le è impossibile “fare completamente a meno della loro partecipazione”. In questo senso – osserva Jappe – il concetto di spettacolo si rivela legato alla sua epoca, «quella del welfare state cibernetico e dell’apogeo del fordismo, in cui il capitalismo pretendeva di aver risolto i suoi antagonismi tradizionali, quali l’esclusione della maggioranza della popolazione dall’abbondanza dei beni». Contro quell’abbondanza (la “sopravvivenza”, dice Debord) si tratta di riattivare – e in fin dei conti di conquistare – la “vita” stessa.

5. Tra Socialisme ou Barbarie e Maggio ‘68

Debord sarà sempre fermo nella critica ad ogni possibile difesa dell’esperienza dei socialismi realizzati, che imbrigliano la vita delle popolazioni nella morsa dello “spettacolo concentrato”. In ciò deve molto alla rivista Socialisme ou Barbarie, che legge quelle fomazioni sociali come duramente classiste e, in fin dei conti, “peggiori del feudalesimo”. Dalla rivista, il filosofo situazionista- mutua anche l’avversione nei confronti di ogni tipo di burocrazia, anche quella delle avanguardie che si battono in nome del proletariato. La burocrazia di partito, che approfondisce la frattura socialmente egemone tra governanti e governati, va sostituita con forme organizzative consiliari capaci di diffondere l’azione politica ben al di fuori della fabbrica – della cui funzione socializzante i redattori di Socialisme ou Barbarie scorgono precocemente la crisi . Per loro occorre giungere all’ “autogestione generalizzata”: più che pianificare l’economia o redistribuire ricchezze, il socialismo dovrà infatti “dare un senso alla vita e al lavoro, liberare la creatività e riconciliare l’uomo con la natura”. Jappe sottolinea l’influenza di queste tematiche su Debord, ma mostra anche come l’Internazionale situazionista – quando la rivista passerà dalla critica dell’economicismo alla critica del marxismo tout court –  criticherà Socialisme ou Barbarie di umanesimo molle e di simpatia con le retoriche della “democrazia occidentale”.

Tra non poche contraddizioni, come quella che la vede riservare al proletariato il ruolo centrale nella sovversione della società pur avendo tolto ogni valore al lavoro – Ne travaillez jamais, avevano già scritto i lettristi sui muri -, l’“avanguardia inaccettabile” (come lo stesso Jappe definisce l’Internazionale situazionista ne L’avant-garde inacceptable. Réflexions sur Guy Debord, Paris, Éditions Léo Scheer, 2009) scivola fieramente verso il Maggio ’68 preoccupandosi di “mantenere il proprio monopolio sulla radicalità”e facendosi beffe di ogni terzomondismo piagnone: “il progetto rivoluzionario deve essere realizzato nei paesi industriali avanzati”, si sostiene sulla rivista dell’I.S. Nel “bel Maggio” – continua Jappe – i situazionisti vedevano confermata la bontà delle loro previsioni. Infatti, pur senza crisi economiche in vista, appariva possibile quel “rovesciamento del mondo rovesciato” che faceva leva sul desiderio di una vita diversa presente nella maggioranza dei viventi: quel “desiderio di essere maestri della propria vita” che in ogni momento può “mettere in ginocchio uno Stato moderno”. Al mondo borghese ecologicamente distruttivo del capitale, del valore, della quantità e della merce, avrebbe sempre potuto far seguito un mondo passionale, qualitativo, composto da “maestri senza schiavi”. Contro lo spettacolo che nega la storia e la rinchiude in un eterno presente, il “bel Maggio” mostrava insomma che in ogni momento era possibile riaprire la partita. È soprattutto una questione di strategia, sembrava ritenere Debord. Si tratta, cioè, di tenere sott’occhio la dinamica dei movimenti per inserirvisi nel momento opportuno; come nella più barocca delle letture del reale, bisogna insomma prendere la scena del gran teatro del mondo, dove si svolge quell’eterno gioco-scontro tra le forze che è in fin dei conti la storia.

Non è un caso, allora, che Debord fosse un grande ammiratore di Paul Gondi, il Cardinal de Retz, ma anche di Machiavelli e di Clausewitz; come non è casuale che abbia inventato un “gioco della guerra” che verrà anche commercializzato. Tradendo l’adesione ad una concezione duellistica della guerra, dalla quale mutuerà per Jappe una concezione in fondo rigida della lotta di classe, Debord scriverà che “le teorie non sono fatte che per morire nella guerra del tempo: sono delle unità più o meno forti che bisogna impegnare al momento giusto nella lotta”. E ancora: “ogni teoria non è altro che un battaglione da lanciare nella guerra”.

Jappe mostra bene come “Maggio ’68” rappresenti il vero momento di gloria dei situazionisti, ma anche l’inizio di quella crisi che condurrà allo scioglimento della loro Internazionale nel 1972. In un modo per nulla convincente, ne La vera scissione nell’internazionale (1972), lo stesso Debord e l’italiano Sanguineti sosterranno che lo scioglimento è conseguente al fatto che le idee situazioniste sono ormai diffuse in tutte le organizzazioni rivoluzionarie; e in tutte quelle che i due chiamano “lotte contro l’alienazione”: le lotte dei neri afro-americani (e non), degli studenti, delle donne, degli omosessuali; lotte peraltro mai davvero approfonditamente indagate nella loro specificità. Agli occhi dei componenti superstiti dell’I. S., sopravissuti alle scissioni e alle scomuniche di un Debord rigorosamente ortodosso tra i nemici di ogni ortodossia, lo scioglimento era nelle cose, poiché il compito dell’organizzazione era stato finalmente svolto con successo.

Al riguardo Jappe parla esplicitamente di “megalomania” e di “perdita del senso della realtà”, rilevando come le teorie situazioniste fossero di fatto presenti solo tra gli studenti e tra gli intellettuali e non in quel proletariato tanto agognato che del resto non si è mai davvero battuto contro la società dello spettacolo intesa nella sua “totalità”. Per Jappe è proprio l’individuazione del proletariato come soggetto antagonista dello spettacolo «il limite evidente della teoria di Debord». In molti luoghi della sua opera egli aveva infatti evidenziato il «carattere inconscio della società retta dal valore»,  in sintonia con il modo in cui nel Capitale Marx aveva descritto gli abitanti della società della merce come donne e uomini il cui «movimento sociale assume la forma di un movimento di cose, sotto il cui controllo essi si trovano, invece che averle sotto il proprio controllo». Ciononostante restava legato ad un concetto in fondo idealistico della “classe” e della “lotta di classe”. Nell’ipotesi di Jappe, però, è proprio quest’ultima – declinata in forma per lo più distributiva nell’esperienza storica del movimento operaio – ad aver permesso di rafforzare la presa del sistema capitalistico su individui ridotti davvero ad “uomini senza qualità”; uomini che competono unicamente “per un posto più confortevole nell’alienazione generale”, diventando così progressivamente «”monadi” astratte e uguali che partecipano in pieno al denaro e allo Stato».

Debord si è illuso che il proletariato fosse un soggetto antagonista naturalmente esterno alla logica dello spettacolo – è la tesi di Jappe –, mentre questo continuava ad essere prodotto e riprodotto come un «attrezzo vivo del capitale variabile e del capitale fisso», in una parola come spettatore nella società della merce.

6. Lo spettacolo nei Commentari

Solo in pochi strutturano le immagini spettacolari, altri le contemplano poiché esse tendono naturalmente a sottrarsi al controllo dei viventi. Lo spettacolo è solo una parte della società, ma capta tutta l’attività sociale volgendola ai suoi fini. Per Debord lo spettacolo è il potente “strumento con il quale questa parte domina la società intera” assoggettandola ai propri interessi. In ciò lo spettacolo è l’erede della religione e Jappe non manca di notare il richiamo di Debord al Feuerbach de L’essenza del cristianesimo: «la vecchia religione aveva proiettato la potenza dell’uomo nel cielo, dove essa assume le sembianze di un dio che si oppone all’uomo come entità estranea; lo spettacolo svolge la stessa operazione sulla terra». Le immagini spettacolari, create dall’uomo stesso, si stagliano ora di fronte a lui come forze onnipotenti sfuggite al controllo. Le rappresentazioni dello spettacolo si separano, sovrastandola, dalla vita reale degli individui che – come nella religione – «trova il suo senso solo al di fuori di se stessa».

L’intero corso della Modernità non farebbe che perfezionare questa forma del dominio. Così lo spettacolo consolida il regno della merce e delle sue immagini e dopo molte peripezie giunge ad imporsi come una totalità tanto all’interno delle società, quanto su scala mondiale. Da questo punto di vista, per Debord, la cosiddetta guerra fredda non è stata altro che lo scontro tra due sistemi spettacolari segretamente solidali tra loro: lo “spettacolo concentrato” già praticato dal nazi-fascismo – quello in cui ha preso storicamente forma il dominio delle burocrazie e del capitalismo di stato sulle società dei paesi sedicenti comunisti –  e lo “spettacolo diffuso” – quello dei paesi in cui la merce e la sua immagine si sono imposte, nei paesi a capitalismo avanzato, come il soggetto supremo al quale intere masse di spettatori potavano sì ampiamente accedere, ma solo in via adorante e subalterna.

In un efficace paragrafo del suo libro, intitolato Lo spettacolo vent’anni dopo, Jappe analizza il modo in cui nei Commentari sulla società dello spettacolo Debord riflette sul modo in cui, nel ventennio seguito al maggio ’68, le forme dello spettacolo si ricombinano. I due nemici apparenti si fondono in quello “spettacolo integrato” nel quale il segreto, la mafia, la violenza la falsificazione entrano in sinergia con le frontiere ultime del mediatico e con le più seducenti fantasmagorie della merce. Coniugando vecchi e nuovi metodi del dominio, lo spettacolo integrato si impone allora ovunque catturando ogni forma di resistenza (la critica artistica, il rifiuto del lavoro, il rigetto della burocrazia statale) e mettendola al lavoro nei dispositivi spettacolari. Per Debord, con lo “spettacolare integrato” la forma-merce completa la colonizzazione della società, integrando ogni opposizione immanente (il movimento operaio, i movimenti di liberazione “terzomondiali”, quelli studenteschi e femministi, ecc.). Al tempo stesso, però, lo strapotere della forma-valore mina dall’interno il sistema spettacolar-capitalistico stesso dal momento che – come mostra bene la crisi ecologica – questo mostra di non saper gestire “le folli leggi dell’economia”. Jappe mostra bene come di fronte all’indiscutibile vittoria della società della merce nei Commentari Debord oscilli: se da una parte vede lo spettacolo perfezionarsi al punto che “ha potuto allevare una generazione sottomessa alle sue leggi”, dall’altra nella sua affermazione conclamata e senza più veli “non abbassa gli uomini fino a farsene amare”, perché suscita anzi un “disprezzo generale”: “nessuno crede [più] veramente allo spettacolo”, sembra pensare Debord.

E ciò non stupisce: il filosofo situazionista – uno«tra i pochi hegelo-marxisti francesi», scrive Jappe –  appare infatti disorientato da quello stesso sguardo “dialettico” che lo rende al contempo capace di cogliere al meglio le contraddizioni nei processi e negli eventi, senza dimenticare di segnalare la loro appartenenza ad una ben determinata totalità. Per il dialettico Debord, infatti, «l’alienazione […] colpisce tutta la società a partire dalla tirannia del valore di scambio – sottolinea Jappe – e […] trasforma virtualmente, sul piano del vissuto, tutti gli uomini in proletari» sotto il regno dello spettacolo. Così quest’ultimo finisce per somigliare “a una tappa nel cammino dello Spirito del mondo”; e tuttavia l’uomo – secondo l’ispirazione di un hegelismo mediato da Kojève e contrapposto ad ogni strutturalismo (pura apologetica dello spettacolo per Debord) – resta libero di negare l’ordine dato.

 7. Sul “platonismo” in Debord

Non accade così, per Jappe, nelle teorie della “società dei simulacri” à la Baudrillard, che separando il concetto di spettacolo dalla sua base materiale ne fanno “un sistema autoreferenziale” in cui i segni coincidono senza residui con la realtà. Nel Baudrillard di Jappe, allora, le intuizioni di Debord finiscono per essere recuperate da una teoria postmoderna che “nega ogni rapporto dialettico tra il simulacro e la realtà e non scorge più alcuna resistenza all’opera: lo scambio dei segni ha ormai occupato tutto il sociale”.

Al contrario Debord ritiene che il desiderio possa in ogni momento bucare lo schermo dello spettacolo e sovvertire il capitalismo, restituendo così ai viventi “il controllo sul proprio ambiente e su tutti i mezzi materiali e intellettuali”. Certo, si tratta di un desiderio che non viene inteso come una forza inconsapevole e legata ai bisogni, né come l’”immaginazione inconscia” dei surrealisti, o come quel desiderio erotico che così sovente sfuma nella propaganda borghese dell’”amore come unica avventura possibile”. Per Debord è piuttosto una libera espressione «consapevole e scelta dagli individui»; è «un piacere [che] deve essere aumentato al massimo». E ciò non può avvenire nella società della merce, dove anche ciò che vanta le insegne dell’antagonismo si presenta quasi sempre «nella forma niente affatto innocente dell’immagine spettacolare».

Come si è visto, tuttavia, Jappe mostra come in Debord, dopo l’abbandono delle illusioni sul proletariato e in controtendenza rispetto a queste posizioni, restino forti le tracce di una ontologia del soggetto antagonista. In molti luoghi del discorso situazionista un simile soggetto sembra coincidere con la vita stessa. Nella Società dello spettacolo Debord sembra infatti porre il problema nei termini di un rapporto di opposizione tra lo spettacolo – la non-vita, cioè la “vita permessa”e falsa – e la società: l’esistenza interdetta e vera, che alla prima oppone irriducibilmente il suo flusso in nome di un’altra vita. È una posizione vitalista – osserva Jappe – in buona sostanza riconducibile all’idea bergsoniana del flusso temporale come vera dimensione umana. Una posizione rinvenibile anche in Storia e coscienza di classe di Lukàcs, dove il processo di “disalienazione” riguarda la sola sfera vitale della coscienza reificata; una posizione comune, in fin dei conti, a tutta la sinistra modernista che, ipotizzando un soggetto puro pervertito dall’azione corrosiva della merce (il proletariato, il terzo mondo, gli studenti, le donne, i migranti, i lavoratori cognitivi, ma anche la sessualità, la creatività…), rischia di assolvere il capitalismo dalla sua colpa più grave: quella di produrre continuamente le forme di vita funzionali alla propria egemonia, impedendo di fatto “la formazione di quella soggettività cosciente di cui il capitalismo stesso ha creato molti dei presupposti necessari”. Il problema – continua Jappe – non è quello di sottoporre a critica una forma di coscienza reificata in nome della sollevazione del soggetto puro, ma quello di comprendere (e criticare) le ”circostanze sotto cui vivono gli uomini”: quelle in cui si produce senza posa la loro soggettività; quelle che tengono in forma una “società governata dal valore”, che si impone come un automa alla stessa vita sociale tramite il medium della merce e del denaro.

In questo modo Jappe affronta apertamente il tema dell’esistenza di un vero e proprio “platonismo” in Debord, concludendo che il filosofo situazionista non esalta tanto «un “autentico” in senso assoluto», ma sostiene piuttosto la necessità di schierarsi a favore sia di quello «sviluppo organico dei bisogni sociali» caduto sotto i colpi di un’economia separata dal soggetto, sia di quella “potenza indipendente” che lo spettacolo è ormai divenuto. Per Debord e i situazionisti non si tratta, allora, di definire la rotta di una società ontologicamente autentica e vera, ma di «determinare “ontologicamente” la falsità o inautenticità della società della merce»; si tratta di gettare luce sul dominio di quella potenza di astrazione spettrale del valore che oggettiva i soggetti rivelandosi sovrana sui bisogni sociali. Lo scopo di Debord – scrive Jappe – è togliere «quelle oggettivazioni che si oppongono in modo assoluto all’individuo»; non tanto per giungere ad una società finalmente vera e priva di conflitti, quanto per realizzarne una in cui gli individui possano determinare la scelta dei modi di produzione della loro stessa vita, dedicandosi «gioiosamente alle vere divisioni e alle rivalità senza fine della vita storica» – scriverà Debord nel 1979. La dérive, il détournement, l’Urbanesimo unitario, la forma organizzativa consiliare – in momenti, forme e tempi diversi nel pensiero di Debord – non sono strumenti utili a dar forma ad un mondo in cui ritrovarsi; servono piuttosto a crearne uno nuovo “che invoglia a perdersi”, nel quale divenire autonomi produttori di se stessi e liberi costruttori della propria vita quotidiana.

Ritorna qui, evidentemente, quel «desiderio di forgiarsi una vita appassionante» maturato nell’ambito delle avanguardie artistiche del primo ‘900. Un desiderio che nel pensiero di Debord gioca un ruolo fondamentale e che precede ogni interesse per il marxismo; un desiderio che permetterà al filosofo di detournare il marxismo stesso, liberandosi tanto dai suoi aspetti economicistici e lavoristi quanto dalla falsa opposizione tra struttura e sovrastruttura. Ibridando la lezione del Marx meno caduco con quella di Marcel Mauss e di George Bataille, Debord avrebbe mostrato come – pur restando a tutti gli effetti “un momento dello sviluppo della produzione della merce” – lo spettacolo e le sue fantasmagorie ridefinivano in modo decisivo quel dispositivo dello scambio e del principio di equivalenza per cui nella società contemporanea il lavoro viene sempre concepito come una unità scambiabile con denaro ed oggettivata in merci; e mediante il quale il valore diventa un vero e proprio “fatto sociale totale”. Per Debord solo il salto verso un modo di produzione immediatamente socializzato, già virtualmente possibile, avrebbe potuto farla finita con il pilota automatico del valore e del suo spettacolo. Ma già nei Commentari tutto ciò gli doveva apparire tremendamente difficile.

Debord aveva infatti ben compreso la composizione organica di quello che Luc Boltanski ed Eve Chiapello avrebbero successivamente definito “il nuovo spirito del capitalismo”. Questo era sorto mettendo al lavoro nel calderone della “mercificazione totale del mondo” gran parte delle pratiche di libertà e creatività che nel precedente ordine fordista e keynesiano avevano giocato un ruolo antagonista. Per Debord – scrive Jappe – “l’abbandono alle pulsioni inconsce, il disprezzo della logica, le sorprese inaspettate e le combinazioni arbitrarie e fantastiche” erano state recuperate e avevano prodotto esiti ben diversi da quelli che si aspettavano i surrealisti o i dadaisti. Il filosofo dei Commentari comprendeva che nell’affermazione vittoriosa dello spettacolo diventava progressivamente inefficace combattere contro l’etica del lavoro e dei sacrifici in nome di quella soddisfazione immediata dei bisogni e dei desideri che stava ergendosi a tonalità emotiva dominante dell’ultimo capitalismo. Debord era perfettamente consapevole del «gigantesco détournement che è stato applicato a tutte le tendenze rivoluzionarie del secolo». Come del resto Breton, egli capì presto che la dissoluzione delle forme artistiche non aveva generato nuove potenzialità emancipatorie, ma aveva finito per accompagnare l’incedere progressivo dello “spettacolare integrato” e il “trionfo della monade astratta del denaro”.

Conclusione

Come si è detto, nella sua anima e nelle sue forme la società del capitale è ancora oggi una società dello spettacolo: il nuovo spettacolo del debito e della colpa rappresentano un’inedita scena per la rivoluzione dall’alto, quella con cui il kratos finanziario saccheggia ciò che resta della ricchezza comune del demos. Al contempo, nonostante la crisi, la merce e il valore continuano a imporre la propria forza di feticcio alle vite dei più, avvolgendole ancora con la loro fantasmagoria Non accettiamo dunque inviti a “dimenticare Debord”. Tantomeno a “bruciare Debord”. 

Al contrario, oggi ci serve moltissimo proprio quel Debord che, come mostra Jappe nel finale del suo libro, resta interno a una linea di pensiero che  – da Kant a Freud, da Marx ai francofortesi (fino a Foucault, aggiungerei) – ha sempre promosso un’importante “autocritica dell’illuminismo”. Dove per illuminismo si intende, con Adorno ed Horkheimer, quel “pensiero in continuo progresso [che] ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni”. Debord ha cercato di decifrare e di contrastare il dispositivo di assoggettamento spettacolare in cui ha scorto correttamente l’erede di quella religione che gli illuministi avevano scelto come il loro obiettivo polemico privilegiato. Così Debord ha continuato a suo modo la Dialettica dell’illuminismo, leggendo lo spettacolo non certo come una parentesi nella storia della ragione moderna, bensì come l’esito conseguente della razionalizzazione capitalista. O, se si vuole, come il punto di approdo di un “illuminismo irriflesso”, di una ragione autonomizzata che ha partorito i nuovi miti nei quali l’umanità – ancora confinata nel kantiano “stato di minorità” – è costretta a contemplare le proprie forze, separate da un progetto globale cosciente che possa condurla a riappropriarsi di una vita che le sfugge. 

Ripensando il concetto di “situazione” – e riprendendo una traccia non sempre centrale nell’importante libro di Jappe – occorre tornare a chiedersi, con Debord e oltre Debord, se sia ancora possibile attivare contro-spettacolo per un’altra democrazia. È possibile, cioè, costruire “situazioni” e potenza dal basso contro la nostra rivoluzione dall’alto? Posiamo produrre rendita sociale contro la rendita finanziaria e la tirannia del valore? Quali sono le modalità più efficaci per riappropriarsi della potenza di agire politicamente sequestrata dallo spettacolo e da una rappresentanza ormai in agonia? Pensando al globo, possiamo costruire concatenamenti internazionalisti e socialità desiderante, a partire da una scala almeno europea, contro lo spettacolo passivizzante ed austero prodotto dall’anti-Europa della Trojka e del capitale? Domande per i movimenti sociali contemporanei, potenzialmente forti ma oggi incapaci di creare le necessarie, durevoli forme organizzative. Dunque deboli, perché poco creativi e privi delle necessarie istituzioni del comune. Restituendo Debord alla cassetta degli attrezzi utili a tracciare linee di fuga dentro e contro l’ultimo spettacolo, il libro di Jappe aiuta a porsi di nuovo quelle domande. E per il verso giusto.

 

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tysm literary review, Vol 2, No. 4 – april 2013

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