Luciano Parinetto
Renzo Baldo
Agosto 2002
Ho conosciuto Luciano Parinetto nel 1962, quando nella redazione del settimanale L’Eco di Brescia si era alla ricerca di collaboratori per le rubriche culturali in progetto. Per la musica non si era ancora riusciti a individuare la persona cui affidare l’incarico. Mi fu segnalato il suo nome da Giovanni Ugolini. Non lo conoscevo per niente. Si presentò questo giovane, neolaureato in filosofia. Aveva, credo, ventisei o ventisette anni, un’età nella quale non è facile avere accumulato competenze ed esperienze in grado di consentire di tenere una rubrica, che, tra recensioni e dibattiti, deve appoggiarsi a conoscenze certamente non ristrette. Confesso che ero un po’ incerto. Ci scambiammo qualche opinione. Ma c’era pronta un’occasione per metterlo alla prova. In quei giorni era in programma a Brescia Il Messia di Händel un’opera che, a mia opinione, si presta facilmente a discorsi banali o retorici. Che andasse a sentire e ne scrivesse.
Fu una vera sorpresa. Una scrittura sciolta e chiara, ma, soprattutto, un procedimento che trasformava la “recensione” in un “saggio”, di concentrata brevità, ovviamente, ma sorretta da una precisa conoscenza dello status della ricerca e dell’analisi storico-critica sull’argomento, tale da consentirgli di smontare pregiudizi e luoghi comuni, di cui spesso si nutre l’opinione corrente-riflettendosi talora pure sulla pagine dei giornali per giungere, anche con riferimenti filologicamente sicuri, alla definizione della “cosa” e al modo con cui la “cosa” era stata offerta.
Uso questo termine, “cosa”, perché, un po’ scherzando, ci trovammo d’accordo sulla importanza di definire l’ “oggetto”, di cui ci si occupa, sfuggendo alle tentazioni, e alla consuetudine, delle divagazioni o delle approssimazioni, quali così spesso aduggiano la cosiddetta critica.
Ho riletto in questi giorni molti degli interventi di Luciano, quali si sono susseguiti fra il ’62 e il ’65. E quella sorpresa mi si è riconfermata. Anzi, mi si è, per certi versi, perfino accresciuta. Mi si è confermata la solidità di quelle sue scritture, la loro “attualità” (sempre attuale è ciò che ha autentica sostanza).
Non so da dove e da quando – certamente da un assiduo ascolto e da costanti letture – Luciano Parinetto avesse assorbito quella vasta conoscenza delle tematiche, che segnano la storia della musica. Certo è che i suoi contributi, i suoi interventi, si susseguono con perentoria efficacia: perentoria, anche quando si poteva essere, almeno in parte, dissenzienti, per la robustezza delle argomentazioni, che obbligavano a pensare, a prender posizione – che è poi il compito di ogni vero intervento culturalmente valido – a confrontarsi, a riesaminare le proprie convinzioni.
Voglio citare, subito dopo quell’episodio haendeliano, l’articolo costruito sul confronto Hindemith – Kurt Weill, assunti – perentoriamente, ripeto, ma con persuasiva efficacia – a simbolo l’uno, Hindemith, di una alta e nobile “indifferenza” per la realtà, amara indifferenza, l’altro, Weill, di una appassionata immersione nella realtà. Si affacciava qui, anche con il netto rifiuto di ogni lettura formalistica dell’arte, uno dei punti cardine del marxista (o marxiano?) Parinetto: il rapporto – decisivo da essere compreso, se non si vuole affidarsi ad un ascolto di superficiale edonismo sonoro – tra la musica e il suo tempo. Fra la musica, appunto, e la realtà.
Con questa perentorietà, i suoi interventi, per fare un altro importante esempio, affrontarono spesso i prodotti che vanno sotto il nome di atonalismo e di dodecafonia. Nei primi anni sessanta sull’eco quasi mitico di Darmstadt pochi, e confinati ai margini, si azzardavano a sottoporli a decisa riserva critica, e di solito con argomenti assai banali. Parinetto li inquadra sotto il segno di una delle forme in cui puo manifestarsi l'”alienazione”: una eroica ascesi per sottrarsi, in rassegnata solitudine, alla volgarità e al disfacimento di un’epoca. Si può, ovviamente, discutere questo taglio interpretativo, ma non c’è dubbio ch’esso obbligava, ed obbliga, a uscire da comodi o ingenui incensamenti o da superficiali e acritiche condanne.
Eravamo, ripeto, nei primi anni sessanta. La capacità di sottrarsi ai luoghi comuni, ai giudizi prefatti diventati pregiudizi correnti – con, occorre dirlo, una sorta di prefigurazione e di anticipazione di tesi destinate a manifestarsi e a diventare di uso comune negli anni successivi – forse la possiamo osservare soprattutto nei numerosi interventi dedicati a Verdi, in particolare alle sue opere giovanili. Anche se per questo orientamento critico mi sembra giusto ipotizzare un apporto che gli poteva essere giunto dalla frequentazione con Giovanni Ugolini, che in quegli anni stava lavorando su Verdi, con un simile taglio di recupero innovativo.
Entrando talora anche in diretta contestazione con affermazioni fatte circolare da nomi illustri della musicologia e della critica militante, Parinetto chiarisce la portata creativa, potremmo dire il “senso”, di opere quali Ernani, Il Corsaro, Luisa Miller; I Masnadieri, Machbet. Sarebbe lungo anche solo accennare agli argomenti che sorreggono il suo discorso. Va però senz’altro detto che le fonti da cui nascono i libretti di queste opere (Schiller, Byron, Shakespeare) lo conducono a esaminare come quei grandi testi dell’Europa letteraria sono stati assorbiti e riproposti dal filtro verdiano. Basti un esempio: i protagonisti della vicenda de I Masnadieri, che nel finale schilieriano, letti in una chiave di etica kantiana, appaiono come dei fuori legge che debbono pentirsi, nell’opera di Verdi si trasformano in “popolo insorto”.
Si dirà: queste cose le sappiamo. Certamente. Ma altrettanto certamente nei primi anni sessanta queste cose non avevano grande diffusione, anzi apparivano se non proprio una stranezza, una novità difficilmente accettabile. E, credo, ribadirle e farle diventare patrimonio diffuso non è forse disutile nemmeno oggi.
Si potrebbe abbondantemente continuare con queste esemplificazioni. Ma volendo ora passare ad altro, è anche interessante segnalare l’attenzione di Parinetto per altri momenti capitali della musica, soprattutto del XX secolo: Ferruccio Busoni, con particolare riferimento al suo Faust, Richard Strauss, allora frequentemente oggetto di forti svalutazioni (si parlava di «decalcomanie sonore», di musicista da birreria) e che Parinetto, anche qui con singolare forza anticipatrice, con lucide intuizioni ricolloca nell’orbita della migliore musica del secolo; e Shostakovich. A proposito di quest’ultimo, spesso oggetto di incomprensioni e di critiche malevoli, dettate da banali ideologizzazioni, Parinetto ne ha una trovata veramente efficace: potremo, sì o no?, considerare senza senso l’affermazione che le Georgiche di Virgilio sono un’opera priva di valore, perché, con servilismo politico, scritte su sollecitazione di quella specie di ministro della cultura e della propaganda quale fu Mecenate, negli anni dell’imperatore Augusto, l’uno e l’altro preoccupati di persuadere i poeti del loro tempo a dedicarsi all’argomento “agricultura”, visto che dopo le devastazioni e l’incuria degli anni delle guerre civili occorreva riorganizzare le campagne? Ebbene, Shostakovich ha scritto Il canto delle foreste quando Stalin, o chi per esso, fece appello agli artisti perché “cantassero” la grande impresa del rimboschimento di vaste zone delle terre di Russia dopo il disastro della guerra. Parrebbe ovvio dedurre che il senso o, se si vuole, la “bellezza” di un’opera nascono da ben oltre e da ben al di là delle contingenze politiche e biografiche che possono averla suscitata.
Dunque: una sensibilità educata da una frequentazione costante della pagina musicale, una sottile attenzione al particolare filologicamente accertato (credo che vi giocasse l’influenza di alcune pagine di Galvano Della Volpe, studioso che oggi più nessuno nomina, ma che allora non mancò di influenzare taluni settori dell’humus culturale italiano), innestati su un terreno fecondato dalla consuetudine con ciò che, per rapidità o per comodità di discorso, indicheremo come realismo storicista, hanno fatto si che nei brevi anni della sua attività a Brescia Parinetto sia stato una presenza culturalmente non marginale.
In quegli anni, scritti di Parinetto comparvero frequentemente anche sul periodico La Verità, che usciva a cura dei PCI; numerosi scritti di musica lungo le direttrici che abbiamo visto operanti su L’Eco di Brescia, alcuni interventi relativi ad altri avvenimenti culturali, per esempio recensioni di conferenza, nonché partecipazione a dibattiti come quello su Marxismo e Cristianesimo. Questa presenza, di fatto, sia pure nella sua “oggettiva” marginalità (a Brescia, come altrove, non sempre si manifesta molta attenzione a chi si colloca su posizione in controcorrente) ha costituito un vivace episodio di vita culturale.
Si potrebbe aggiungere: un episodio sorretto anche da fervore pedagogico e civile, segnato da caratteristiche, che potremmo definire di anti-conformismo e di antiprovincialismo (se per provincialismo intendiamo l’inclinazione alla retorica celebrativa e autocelebrativa, la tendenziale riduzione della cultura a spettacolo o a intrattenimento, il sostanziale disinteresse per la diffusione di una cultura criticamente consapevole) e come tale, non c’è dubbio, facilmente destinato alla disattenzione e alla emarginazione.
Come già ho avuto occasione di dire in altra sede, ritengo sia giusto ribadire che non sarebbe certo fuori luogo, mediante una opportuna scelta, la pubblicazione di questi scritti di Luciano Parinetto, per sottrarli all’oblio, dove sono destinati a giacere i testi, che compaiono su fonti o di difficile reperimento o di faticosa consultazione. Una pubblicazione che sarebbe utilmente in grado di offrire una viva testimonianza di attenta presenza critica e di documentare aspetti non trascurabili della vita culturale bresciana.