La ragione delle mani. Dialogo con Emidio Clementi
di Andrea Cocco
Emidio Clementi, scrittore e frontman dei Massimo Volume, sta per concludere il tour nazionale che in questi mesi l’ha visto impegnato – assieme a Corrado Nuccini, chitarra dei Giardini di Mirò – a presentare il suo ultimo libro: La ragione delle mani. Lo incontriamo in occasione della sua data padovana per parlare del suo rapporto con la scrittura, la celebrità, lo stile.
Caro Emidio, la scrittura, in senso lato, sembra attraversare tutta la tua vicenda personale: dalla centralità dell’autobiografia nei tuoi libri, all’importanza dei libri per la tua biografia – ne L’ultimo dio descrivi come un’epifania la scoperta di Emanuel Carnevali – fino ai tatuaggi. Rimbaud, uno dei tanti scrittori che compare nei testi delle tue canzoni, intendeva “cambiare la vita” attraverso la poesia. Com’è cambiata la tua vita in rapporto a questa pratica?
La scrittura mi ha dato un ruolo nella vita, un punto di vista sulla memoria e sul presente. Vivo con le idee che mi vengono in mente. All’inizio si tratta di qualcosa di molto fragile, ma che lentamente prende consistenza, fino a solidificarsi in un libro o in un disco. E’ un procedimento che non smette mai di stupirmi e di cui sono molto orgoglioso. Devo tutto alla scrittura.
Dicci qualcosa su l’”officina Clementi”: esordiente, ti sei descritto alle prese con fogli di carta volanti, improvvisi scatti creativi, anche angosciato da quell’esercizio, nonostante il tuo stile già agli inizi dimostrasse una sorprendente maturità. Oggi vivi una quotidianità diversa, più stabile, che spazio vi trova la scrittura?
Di solito scrivo di mattina. Mi riesce più facile concentrarmi e a quell’ora la casa di solito è vuota. Di sicuro rispetto al passato oggi ho una costanza maggiore: scrivo (o tento di scrivere) per tre, quattro ore e la sera faccio un po’ di lavoro di revisione. Non ho mai scritto con facilità, devo sudarmi ogni frase. Ho bisogno di tempo e di pace e della stanza in ordine. Leggevo da qualche parte che cominciare un libro (ma credo che il discorso valga per ogni lavoro creativo) ha qualcosa di avventuroso. Si entra in un territorio sconosciuto, privo di appigli, se non quel po’ di esperienza accumulata nel tempo. Forse per questo ci si attacca alle abitudini, a tutto ciò che sa di familiarità.
Nel caso delle tue ultime opere si è parlato di un secondo Clementi, meno autobiografico, più aperto all’invenzione, all’immaginario. Questo cambiamento di poetica si avverte anche nei testi del tuo ultimo album, Cattive abitudini: vedi In un mondo dopo il mondo o La bellezza violata, due pezzi tra i più riusciti del disco e ispirati da vicende estranee al tuo vissuto. Come sei arrivato qui? In che rapporto stanno, nella tua pratica, immaginazione e scrittura?
Ai tempi di Gara di resistenza, la mia prima raccolta di racconti, guardavo all’immaginazione con una certa diffidenza. Perché scrivere di cose che nella realtà non sono avvenute? Perché mentire? Può sembrare un atteggiamento ingenuo, ma superare questa convinzione non è stato facile, ci ho messo degli anni. Tutt’oggi resto uno scrittore di stampo realista, che usa il proprio vissuto come una base solida da cui partire, ma che finalmente non si fa scrupolo di forzare le maglie della realtà, le famose porte mai aperte di Eliot.
I tuoi personaggi sono spesso circondati da un’aria di teatro vuoto: ricordano degli attori su un palcoscenico desolato, primedonne senza pubblico. Questo scarto tra lo sforzo dei loro gesti plateali – anche, o soprattutto, quando sono gesti minimi o volutamente squallidi – e il muro dell’incomunicabilità segna l’esposizione di un’inadeguatezza che si illumina di sincerità. Pensando alle tue canzoni, viene in mente il dio folgorante nella vasca da bagno di Insetti. Quanto è importante il filtro dello stile nella trasmissione di una verità?
Emidio Clementi: Da lettore ti dico che la voce con cui mi viene raccontata una storia è più importante della storia stessa. Philip Roth è uno che ha la capacità di prendermi per mano e a quel punto può portarmi ovunque, non gli chiedo mai conto del paesaggio. Lo stesso potere ce l’hanno Flaiano, Malaparte, Cheever, Dickens, Bellow e tanti altri. Da scrittore cerco invece di trovare un equilibrio tra storia e forma, ma è solo quando sono soddisfatto della voce che mi sento dentro al libro. A volte penso anche che una storia vale l’altra, perché tutte danno la possibilità di giungere al nocciolo della questione, a una contraddizione di fondo, a un mistero di vita.
Durante questo tour tu e Corrado vi siete esibiti po’ dappertutto lungo la penisola, e le tue storie sono quasi sempre ambientate in Italia. Eppure leggendo le tue pagine ci si trova proiettati in un orizzonte che ricorda quello americano di Carver – i bar qualunque e indimenticabili, i personaggi mediocri che si finisce per amare, i temi dell’alcol e della solitudine avvicinano le vostre opere, eppure è quasi sempre l’Italia che descrivi. In che modo sei riuscito a sviluppare questo sguardo “sprovincializzante”, così atipico per uno scrittore del nostro Paese?
Lo sguardo di Carver, come quello di Cheever e di Shepard mi hanno influenzato molto, anche se sono consapevole del fatto che i miei personaggi non sono americani, ma si muovono in Italia, un luogo che devo dire trovo estremamente interessante da raccontare. E’ ambiguo, pieno di contraddizioni, misterioso, falso, seducente; tutte caratteristiche di cui la scrittura è sempre andata ghiotta.
Stai concludendo in queste settimane il tour di presentazione del tuo ultimo libro, La ragione delle mani: già dopo l’estate però dovrebbe uscire il nuovo disco dei Massimo Volume. Puoi darci qualche anticipazione in proposito? A quali altri progetti stai lavorando?
Stiamo mixando il disco in questi giorni. Si intitolerà Aspettando i barbari. C’è molta guerra dentro. Non so perché. Rispetto a ‘Cattive abitudine’ mi dà l’impressione di un disco meno caldo, forse più spietato. Ma non ho ancora la giusta distanza prospettica per dire di più.
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tysm literary review, Vol 4, No. 7– juin 2013
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