philosophy and social criticism

Se nel libro del futuro non ci sarà più niente da capire

di Guido Vitiello

Articolo uscito sul Foglio il 13 aprile 2013 con il titolo Se nel libro del futuro non ci sarà più niente da capire

Non sarà il Gesamtkunstwerk di Wagner, e non sarà neppure ilLivre di Mallarmé. La notizia è ancora confidenziale, ma si può star certi, la via all’“opera d’arte dell’avvenire”, o meglio al libro futuro, l’ha indicata trent’anni fa J. Rodolfo Wilcock. Non ne fece proclami. La consegnò, quasi sbadatamente, al risvolto di copertina dei Due allegri indiani, nell’attesa di un pubblico non ancora nato: “L’opera che qui proponiamo è tutta tesa verso il lettore futuro; non per nulla essa si ispira, sia nel metodo che nella mancanza di metodo, all’esempio cinese di quelle vaste raccolte classiche di fatti curiosi, massime morali, casi storici reali o fantastici e illustrazioni della natura arditamente mescolati e non senza grazia presentati alla rinfusa”. L’attesa potrebbe durare ancora qualche anno o millennio, ma poco importa. Un antenato di cui tener conto, quando si tratterà d’inventarsi una genealogia reale o fantastica per questo Oltrelibro di là da venire, saranno quei gabinetti delle meraviglie secenteschi dove ci si smarriva tra i “curiosa” naturali e artificiali, tra denti di narvalo e orologi meccanici, ossa di mammut e tavolini da tric-trac. Ecco, il libro dell’avvenire sarà una Wunderkammer liberata, infine, dal demone ordinatore dell’enciclopedia. Consumato il tempo dei libri da capire e da decrittare, da ponderare e da sviscerare, da costeggiare docilmente e da seguire al guinzaglio, verrà l’ora dei libri da visitare e da saccheggiare, i libri affollati di reperti ricchi e strani, in cui si possa trascorrere di stanza in stanza senza curarsi della planimetria. Ma prima che questa perorazione lasci la forma della fantasticheria per prender quella, in sé ridicola, del manifesto, veniamo all’occasione che l’ha suscitata: Il calcolo dei dadi, un piccolo libro di Marco Dotti pubblicato dall’editore ObarraO che ha per tema il gioco d’azzardo.

Non credo di averlo capito fino in fondo, e mi piace pensare che anche l’autore si sia perso come un gatto nel gomitolo della sua argomentazione. Lo si direbbe uno strano libro di filologia surrealista, dove il metodo, se pure c’è, ricorda le “scienze diagonali” di Roger Caillois. Suona quasi, qua e là, come un apocrifo tardivo del Collège de Sociologie, e si appanna proprio nei passi in cui sceglie di seguire più tenacemente il filo di una tesi. O ancora: un gabinetto di curiosità allestito da un lettore onnivoro e bulimico, che ha cura di collezionare reperti spigolosi e acuminati, che siano (letterariamente, esistenzialmente, politicamente o religiosamente) radicali. Non credo di averlo capito, o forse ero distratto, ma ecco che cosa ne ho raccolto, a zonzo per le sue stanze: una favoletta medievale, cara a Bernardino da Siena, su un uomo che tenta l’azzardo scagliando una freccia contro Dio, che però ritorna indietro e si abbatte sul tiratore, svelando che la posta in gioco era la sua stessa vita; una pagina di Giorgio Colli su Dioniso e il gioco dei dadi; un inventario di crocifissioni dove, accucciati, i soldati gettano la sorte sulle vesti di Gesù; la favolosa storia del castello di Hasart; congetture logiche (e antiche illustrazioni) su scimmie che giocano a dadi; notizie sull’uso, nelle carceri russe, di sparare al quinto uomo entrato casualmente in una stanza; la leggenda di Blaise Pascal inventore della roulette, associata al pari, all’azzardo spirituale dell’uomo di fede; racconti di fantascienza su alieni giocatori; un diluvio di etimologie. Che cosa lega insieme tutte queste cose? Una tesi? Forse. Senz’altro due copertine, e tanto basta. Non credo di averlo capito, ma che importa? Ero solo tentato di aggiungere qualche mio pezzo alla collezione, non senza grazia, alla rinfusa: una vecchia pagina di Elémire Zolla sul gioco d’azzardo come archetipo dell’era di massa (“La fortuna che arrida trattando con il mondo industriale è sempre fortuna di giocatore, non gloria di guerriero o compenso di coltivatore”); un dimenticato libro di psicoanalisi, The Psychology of Gambling di Edmund Bergler, dove il gioco compulsivo era letto come un tributo al dio pagano della potenza; antiche notizie etnologiche sul sorteggio della vittima nei sacrifici umani; qualche oscuro romanzo giallo.

Chissà, un giorno gli editori diventeranno collezionisti e i libri avranno tutti l’aspetto di un gabinetto di curiosità, dove il demone dell’enciclopedia farà posto a quel démon de l’analogie invocato proprio dal poeta del lancio dei dadi. La tesi, la consecutio, la concatenazione degli argomenti, forse tutto questo ci serve ancora perché non siamo pronti al salto, alla scommessa. Direbbe meglio Wilcock, dal futuro: “Al lettore banale di oggi questa banale trama è dedicata”.

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tysm literary review, Vol 4, No. 7– juin 2013

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