philosophy and social criticism

A chi è capace di tacere

Valentina Parisi

David Alhahari, Ludwig, traduzione di Alice Parmeggiani, Zandonai editore, Rovereto (Tn) 2010.

Glosse belgradesi alla filosofia di Wittgenstein: se non rischiasse di suonare ridicolmente pretenzioso per un esile libretto di centoventicinque pagine sarebbe senz’altro questo il sottotitolo più calzante per il denso romanzo di David Albahari, edito di recente da Zandonai nella fluente traduzione di Alice Parmeggiani. Come nel precedente L’esca (2008), lo scrittore serbo emigrato in Canada adombra dietro triangolazioni affettive non prive di sfumature omoerotiche una ampia riflessione sulle potenzialità intrinseche del linguaggio, affidando alla trama incalzante di monologhi senza un solo «a capo» il compito di svelare lo iato esistente tra parola e realtà. Il lettore non tarderà infatti ad accorgersi come dietro il nome di Ludwig non si celi soltanto lo scrittore che ha cinicamente «soffiato» all’io narrante S. il suo magnum opus, ma anche e soprattutto il «mago delle parole» Ludwig Wittgenstein, ovvero colui che per primo ha distinto la logica «specchio del reale» dalla lingua che si limita a evocarlo. Alla lapidaria osservazione che apre il Trattato logico-filosofico («Su ciò di cui non si può parlar chiaro, si deve tacere»), Albahari contrappone l’esasperata logorrea del suo alter ego, prigioniero di un universo verbale dove ogni oggetto si rivela vuoto feticcio, aperto a sdoppiamenti spettrali.

Ciò vale in primo luogo per S. che, dall’istante in cui ha incontrato Ludwig (guarda caso proprio nel cortile della facoltà di filosofia a Belgrado), ha perso ogni certezza sulla propria identità: «Da quel momento fu come se esistessi in forma duplice, come se ci fossero due io, anche se non del tutto identici, così che sembravo un’immagine doppia sullo schermo televisivo che si può risistemare solo se ti arrampichi sul tetto (…), mentre tua moglie rimane seduta davanti al televisore». Ma la prospettiva ingannevole dello sdoppiamento finirà per coinvolgere anche il suo deuteragonista, Ludwig detto «Lu», scrittore perfido e magniloquente che, approfittando della fanatica devozione di S., gli carpisce l’idea per il «libro dei libri», intricata opera metaletteraria che varrà al plagiario l’unanime consenso di critici e lettori. Pagina dopo pagina, infatti, si fa sempre più fondato il dubbio che «Lu» non sia altro che una mera proiezione dell’io narrante, un’entità fantasmatica cui imputare la responsabilità dei propri fallimenti. Com’è ovvio, Albahari si guarda bene dal sciogliere l’enigma, lasciando che a riportare S. alla realtà sia il colpo partito da una pistola che si chiama, ancora una volta, Ludwig. Sullo sfondo di una Belgrado kitsch e «cannibale», impegnata a divorare senza sosta i propri figli, l’autore tesse magistralmente una trama «musicale», scandita dall’esposizione e dalla ripresa dei vari temi. Un trio per marito, moglie e amante (forse immaginario), così verrebbe da definire questo pezzo da camera, se la voce risentita dell’io narrante non finisse per sovrastare quella degli altri due strumenti. E se la lingua traccia i confini del nostro mondo, come sosteneva Wittgenstein, Albahari si incarica di dimostrare come la vita sia ordinata solo entro certi limiti, oltrepassati i quali si sprofonda nel regno del caos. Non a caso, una strategia narrativa cui ricorre di frequente è affermare una cosa sostenendone l’esatto contrario, come là dove allude al legame omosessuale tra S. e Lu. attraverso le ripetute smentite della voce monologante: «Tra di noi non esisteva alcuna passione carnale». Ancora parafrasando Wittgenstein, nell’universo verbale costruito dallo scrittore serbo (traduttore di Nabokov e Pynchon) non esiste alcun riferimento a una realtà esterna che consenta di distinguere tra vero o falso. Resta solo una manciata di indizi ambigui, come quella lettera S. che non è l’iniziale del nome del protagonista, ma che gli viene imposta arbitrariamente da Ludwig, forse a sancire il suo ruolo di inconsapevole Schiavo.

In Ludwig lo spettro dell’impotenza letteraria – tema centrale nell’opera di Albahari – assume dunque i tratti di una relazione sadomasochista tra master e slave dove lo schiavo si autoriduce al mutismo, alienando al padrone la propria creatività inespressa. D’altro canto, la sfiducia nei propri mezzi, il sospetto che l’agognato «libro dei libri» si possa materializzare solo se devoluto alla penna altrui, era già presente nell’Esca, romanzo che, in ossequio alle architetture speculari predilette dall’autore, si potrebbe definire «gemello» di Ludwig.

Al triangolo tra S., Lu. e la moglie di S. (creatura anodina, esasperata dai tradimenti reali o meno del marito) si sostituisce qui una geometria analoga, ma ancora più sfaccettata, che pone a confronto l’alter ego di Albahari (come lui emigrato a Calgary) col ricordo della madre defunta e con Donald, l’amico canadese scrittore al quale il protagonista vorrebbe paradossalmente cedere il progetto di un libro basato sulle testimonianze orali della madre, registrate poco prima della morte. Ma se in Ludwig l’io narrante non riesce a scrivere perché ostaggio della sua creazione metaletteraria, in Mamac (che in serbo significa sia «esca» che «mamma») la vera pietra d’inciampo è costituita dalla madre stessa, figura grandiosa, la cui corrucciata insondabilità ricorda quella fissata da Umberto Boccioni in Materia. E persino in quel miscuglio di saggezza popolare e di acute battute contadine che costituisce l’ossatura della sua lingua di «cocciuta bosniaca», Albahari riuscirà a infiltrare una massima dal sapore vagamente wittgensteiniano: «Chi non sa tacere, non può trovare consolazione nelle parole». Una lezione che l’autore saprà rielaborare con amara ironia identificando il compito dello scrittore nel «galleggiare in superficie, al limite dei mondi, al confine tra parola e silenzio».

[da il manifesto, 12 novembre 2010]

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