philosophy and social criticism

Al paradiso dei detective

Felice Accame

La capacità di storicizzare mere invenzioni, in fin dei conti, può essere considerata una forma evolutiva particolarmente raffinata del raccontar balle. Leggo che nella svedese Scania, a Ystad e dintorni, la locale amministrazione ha predisposto perlustrazioni turistiche dei luoghi in cui ha operato o continua ad operare il detective Kurt Wallander, frutto della penna – come si suol dire ancora oggi quando nessuno scrive più a penna – di Henning Mankell. Se ne va a visitare i luoghi canonici: dove ha trovato il tal cadavere, dove lavora, dove abita, dove è andato a pranzo, dove ha risolto questo o quel caso. Diciamo che si tratti di una mappa più ampia e al contempo più adatta alle necessità odierne di quella che comprende la casa di Sherlock Holmes nella londinese Baker Street. Occorre una religiosa applicazione di sé nell’autoinganno per cascarci, ma non stento a credere che qualcosa del genere sia possibile. Il turista letterato sa che personaggi e vicende sono il risultato della fantasia di qualcuno, ma, per una sorta di idolatria culturale, è pronto ad adottare un atteggiamento realistico.

Più incredulo, invece, rimango di fronte ad una banalità di contorno. Il Wallander di cui si parla, pretesto per l’incentivo culturalturistico, viene definito l’“acuto investigatore” e la notizia mi sembra ben più incredibile dell’altra. In Muro di fuoco tanto per collocare alcune citazioni con precisione, Wallander è tanto stupido da rispondere al telefonino mentre, disarmato, è immerso in un banco di nebbia braccato da un pericoloso e armatissimo assassino (ovvio che, come quello dice “pronto”, quello lo localizzi e gli spari); consegna un importante testimone ad una perfetta sconosciuta incontrata il giorno prima; non si accorge che qualcuno entra ed esce dal suo ufficio accendendo il suo computer e copiandogli tutti i file; litiga con i colleghi perché ha paura che sparlino alle sue spalle e litiga con la figlia perché la tratta con ottuso autoritarismo. Tra lui e l’autore è una bella gara, peraltro, perché se è vero che alla fine Wallander arresta i cattivi e il mondo è salvo, è anche vero che se i cattivi, attenendosi al proprio piano, stessero semplicemente fermi, mai e poi mai sarebbero stati arrestati mentre il mondo, alla faccia di Wallander, sarebbe già a carte quarantotto. E negli altri romanzi che ne hanno costituito la fortuna sociale, poi, non è che le cose vadano molto meglio: si dimentica sistematicamente o la pistola o il telefonino quando non tutti e due, lascia la porta di casa aperta, inciampa al momento di sparare e, pensa che ti ripensa, ha spesso l’impressione che gli sia sfuggito qualcosa – e, qui, quasi mai si sbaglia: è vero, gli è sfuggito qualcosa. Insomma, per quanta indulgenza possa investire sul personaggio – è “democratico”, ben disposto alla multiculturalità, attento ai mutamenti sociali, ha la giusta dose di pietà che chi cade, soffre di solitudine e di diabete, come tutti noi deve far quadrare i conti alla fine del mese –, rimane come uno degli investigatori più inetti che la storia del romanzo giallo ricordi.

E tuttavia chi ne parla ne parla come dell’acuto investigatore e la gente va a Ystad e perlustra la Scania intera sulle sue tracce. È evidente qui il salto nell’atteggiamento mentale. Se andando a visitare, che so, il Vittoriale o la reggia di Versailles, la guida facesse un errore – nominasse il tale per il tal’altro, o sbagliasse una data – saremmo pronti a non perdonarglielo. Nei confronti della “storia” nutriamo pretese. Se leggiamo un prodotto di “genere” – un poliziesco, nel caso – i nostri criteri di coerenza cambiano o, almeno, si applicano in circostanze diverse. Qualcosa prende il sopravvento e qualcos’altro – che di solito riteniamo fondamentale – viene relegato ad un ruolo secondario. È così che, entro certi limiti di legittimità, perfino Kurt Wallander può accedere all’olimpo dei Sherlock Holmes, dei Philo Vance e degli Hercule Poirot.

ISSN:2037-0857