philosophy and social criticism

Il Dio della scena

Alessandro Cappabianca

Pratica di grandi e piccole corti, di illustri casate, poi di famiglie alto-borghesi (poco prima di scomparire), quella dei tableaux vivants si pone subito sotto il segno della dépense batailliana, finalizzata com’è al solo piacere di realizzare un’effimera e piacevole composizione plastica per il piacere degli occhi d’un pubblico ristretto, cui si offre la soddisfazione supplementare del riconoscimento (dell’attimo culminante d’un fatto celebre, d’un quadro famoso ecc.). In questo senso, il quadro vivente è comunque qualcosa di ben distinto dalla posa (pittorica, poi fotografica, più tardi cinematografica), sempre finalizzata alla produzione successiva d’un oggetto smerciabile, e si apparenta semmai al teatro, da cui si differenzia per il carattere semi-privato e per definizione amatoriale.

Ma Ottavio, vecchio professore di teologia, cattolico reazionario e marito della protestante Roberta, nella Revoca dell’editto di Nantes di Klossowski, oltre alla passione di cedere la moglie agli ospiti secondo i dettami delle leggi dell’ospitalità, ha quella di collezionare quadri (del suo pittore preferito, Tonnerre), che ben si possono, anch’essi, definire metaforicamente quadri viventi (o almeno, tali appaiono ai suoi occhi), nel senso in cui nel gesto singolo, fermato dall’artista , non solo è leggibile, sia pure in forma coagulata, una qualche peripezia narrativa, ma in essa si condensa sempre una specie di coincidentia oppositorum tra il riflesso condizionato della finta ripugnanza morale e l’irrompere irrefrenabile del desiderio, nella donna sottoposta, tra piacere e timore, a prove, tentazioni e assalti erotici, tali da mettere in moto il quadro, di farlo vivere, grazie a una lettura perversa, nel cuore stesso della pretesa fissità pittorica.

All’opposto, nelle avventure di Roberta, così come sono raccontate nel suo diario o rievocate in quello del marito, si insinua a un certo punto, la fissità. In situazioni per eccellenza dinamiche interviene sempre un momento di stasi, come se la vita rimanesse all’improvviso in sospeso, facendosi quadro.

Di ciò è emblema il primo frammento delle “impressioni romane”, quando Roberta, col viso coperto da una maschera di velluto nero, apre il tabernacolo d’un altare sotterraneo con una chiave di cui non sappiamo ancora bene come e perché sia entrata in possesso, e si ritrova bloccata, immobilizzata nell’atto (sacrilego, ma non per lei, in quanto protestante), da due mani bianchissime di donna, uguali alle sue, sbucate all’improvviso dal fondo del tabernacolo. Per un attimo, mentre una gigantesca guardia svizzera si appresta forse a violentarla, prendendola da dietro, e prima che tre puntini di sospensione pongano fine al brano sottintendendo il seguito inevitabile, Roberta si staglia immobile nell’universo della pagina, bloccata dalle mani fantasmatiche d’una seconda Roberta. Narrazione che si fa quadro.

Al contrario, Ottavio tesse i fili d’un vero e proprio racconto erotico a partire dalle situazioni pittoriche preferite da Tonnerre. Se è vero che in fondo è tautologico parlare di “quadro vivente”, visto che un quadro, ogni quadro, innanzi tutto è un quadro vivente, è anche vero che questo genere “deve aver esercitato alquanto fascino” sul piccolo maestro, coetaneo di Ingres, Chassériau e Courbet. Lucrèce, La lecture interrompue, La belle Versaillaise, La bella si lascia sorprendere mentre avvelena il vecchio sposo assopito ecc., sono solo alcuni dei titoli compresi nel catalogo ragionato della collezione di Ottavio, imperniati in genere sulle disavventure di dame sorprese: ma sorprese da che cosa? Ciò che le coglie in flagrante, è precisamente l’irrompere del piacere all’interno stesso di situazioni pericolose che sembrano inconsciamente cercate: irruzione che l’arte di Tonnerre riesce ad esprimere soprattutto tramite il sapiente gioco contrapposto delle mani (una respinge, l’altra attira; oppure la stessa respinge e attira insieme). Quadro che si fa narrazione.

Ottavio, eminente professore di scolastica, non ha nulla, tuttavia, del semplice erotomane. Non saprebbe che farsene d’una stampa volgare, meno che mai di un filmino pornografico, in cui venisse visualizzata la scena della belle Versaillaise messa a nudo e violentata dai due comunardi infoiati. Ciò che lo eccita (ma si potrebbe dire con più esattezza: ciò che lo stuzzica) ha a che fare con il prestigio dell’arte, ha bisogno della sua cauzione, in quanto garante d’un duplice, simultaneo apparire (Foucault ci ricorda che simulacro, in origine, significava apparire insieme; o venire insieme?)1: “simultaneità della ripugnanza morale e del piacere irrompente in un’unica anima , in un solo corpo…”. Tonnerre, l’abbiamo detto, raggiunge questi effetti soprattutto tramite l’ingrandimento delle mani, e questo non ci ricorda certo gli inserti anatomico/ginecologici del porno, né femminili né (tanto meno) maschili, ma ci fa pensare invece alla saga delle mani in Pickpocket, al maldestro borsaiolo di quel Bresson che non a caso volle Pierre Klossowski come attore in Au hazard Balthazar (se poi Balthazar, l’asino, abbia a che fare con il conte Balthazar de Rola, detto Balthus, amico di Artaud, fratello di Pierre, e pittore per lungo tempo più famoso di lui, francamente non sappiamo).

Ricordiamo che nell’albergo/bordello (gestito dallo Stato) chiamato Hotel de Longchamp, oltre a portare una maschera sul viso, le donne devono indossare guanti, proprio al fine di evitare la riconoscibilità delle loro mani. Questo accessorio d’abbigliamento, che sarebbe anche troppo facile ricollegare al feticismo della pelle su pelle (pelle dei guanti, epidermide femminile) di cui abbiamo tutti presente l’archetipo Rita Hayworth/Gilda, sembra per Klossowski molto più importante della maschera. L’assenza di quest’ultima, infatti, il presentarsi del volto femminile nella chiarezza irrefutabile della presenza, non bastano a garantire alcunché, rispetto all’identità.

Se Denise Marie Roberte Morin-Sinclaire, detta Roberte, sposata da K. nel ’47, ha segnato anche, in parte, una svolta nell’attenzione klossowskiana dalla scrittura narrativa all’immagine pittorica (e poi cinematografica), viene in mente il movimento simmetrico e contrario di Salvador Dalì, indotto a dedicare a Gala un romanzo, Hidden Faces (Visi celati), scritto (in francese) nel ’43, tradotto in inglese e pubblicato a New York nel ’44, pure corredato da disegni originali. Anche Dalì tira in ballo i nazisti, le vicissitudini di un paese occupato ecc., come nelle “impressioni romane” di Roberta, ma si ricollega fin dal titolo alla tematica surrealista dei visi celati (cfr. l’aviatore dal volto sfigurato, che indossa sempre una maschera di cuoio; o i volti animaleschi, ferini, degli invitati al banchetto, intravisti dall’anfitrione attraverso il dispositivo anamorfico d’un bicchiere d’argento). Visi celati di Dalì/vs/mani guantate di Klossowski.

A dire il vero, anche certi personaggi di quest’ultimo (ne Il suggeritore) indossano e sfilano il viso come una maschera: lo fa il misterioso Vecchio che conduce “un’esistenza postuma” a Parigi, riconosciuto da Teodoro Lacase (personaggio nel quale si è trasformato il professor Ottavio) su un palcoscenico, nella sua nuova veste di attore; lo fa l’altrettanto misterioso zio Florence, vegliardo rispettabile e maestoso, che a un certo punto si scaglia contro “la moglie di K.” e si sfila il viso, rivelando la sua faccia bruciata, il teschio, le orbite vuote degli occhi, in un movimento quasi da film dell’orrore.2

Non lo fa Roberta, però, che non ha bisogno di maschera per essere il duplicato di se stessa, presentandosi a volte in quanto moglie devota di Teodoro Lacase (che l’ha conosciuta come militante dell’Esercito della Salvezza), a volte in quanto Valentina, moglie scatenata di quel perverso e ambiguo personaggio che è K., spudorato plagiario di un’opera (Roberta stasera) ideata in realtà da Teodoro.

Se Roberta sia l’una o l’altra, se il suo corpo sia il luogo d’una scissione della personalità, se invece si tratti di due donne dalla straordinaria somiglianza, è impossibile dirlo, visto che Roberta, come K. stesso confessa, è puro segno che affascina già in quanto nome, segno proliferante di inesauribili metamorfosi, congegno ispiratore di infiniti personaggi. Chi è infatti il suggeritore, se non questo puro nome, questo segno in sé affascinante?

Nelle prove della commedia che la piccola compagnia amatoriale raccolta da Teododo vorrebbe mettere in scena per un pubblico di parenti e amici, è un fatto che Roberta sia la sola a interpretare se stessa, mentre il vecchio attore Merlin sostiene il ruolo di Ottavio e il giovane Raffaele quello del nipote.

Klossowski dunque forza la situazione, facendo di un luogo genericamente metaforico come quello teatrale (che tale rimarrebbe, se fosse un’altra attrice a interpretare la parte di Roberta) la scena di una vera e propria scissione ontologica, dove Roberta – ma quale Roberta? – interpreta Roberta, ma non per questo si può dire che interpreti se stessa.

Per di più, in tutta l’ultima parte della trilogia, non siamo che a livello di prove; ciò significa che neppure quel grado minimo di identificazione richiesto dal calarsi di un attore o di un’attrice nel ruolo, va ancora del tutto da sé: Roberta può ancora scindersi tra l’attrice e la madre di famiglia. A livello di prove insomma, almeno nel teatro amatoriale, può verificarsi con facilità, sia pure su un piano domestico, quella strana commistione tra teatro e vita cui spesso il teatro “alto” aspira.

Può accadere ben altro, tuttavia. Appena Roberta ha finito di pronunciare la sua battuta, può irrompere l’altra Roberta, e darsi luogo a una rissa tra Roberte. Ci si aspetta allora che qualcuno dica a Teodoro “Le separi!”, senonché interviene un lapsus (guarda caso) e la battuta viene pronunciata al singolare (“La separi!”): così anche noi siamo incerti se dobbiamo scrivere d’una rissa tra Roberte, o non invece tra Roberta.

In realtà, sarebbe metaforicamente cinematografica una situazione in cui il modello originale se ne andasse in giro a litigare col proprio doppio, se non fosse che qui, appunto, non c’è modello originale né doppio identificabile come tale. Per comprendere questa scissione ontologica, siamo costretti a pensare (come gli psichiatri, si chiamino Ferdiére o Ygdrasil3 e come tutte le persone “sane di mente”) che l’attrice interprete di Roberta non sia in realtà Roberta, moglie di Teodoro, ma sia invece Valentina, moglie di K. E per continuare a credere nella fiction romanzesca, siamo condotti ad accettare gli sviluppi di un plot nel quale le due donne, amiche tanto somiglianti da essere indistinguibili, per ragioni di comodità e per soddisfare più facilmente le loro finalità perverse, abbiano spesso (come i gemelli Mantle di Cronenberg, ma al femminile) preso il posto l’una dell’altra, a seconda delle circostanze.

Naturalmente, la perversione suprema sta proprio in questi scambi reciproci di personalità e di posto, che non arretrano neppure di fronte al sacrilegio. Sia o meno Roberta protestante, le sue mani che sbucano dal fondo del tabernacolo per afferrare le mani dell’altra (di se stessa), dopo lo spargimento intenzionale delle ostie, occupano il posto della divinità, segnalano la sua presenza (se non altro sotto forma di assenza). Almeno per il cattolico Klossowski, ha luogo qui un’epifania del Sacro, propedeutica a quella degradazione del Sacrificio effettuata sulla stessa “sacra mensa” che è di solito scena del rito.4 Ma l’apparizione delle mani, ossia (se vogliamo) l’apparizione della divinità, al posto delle ostie (le si consideri puro simbolo o materia di transustanziazione), non avviene per effetto d’una gestualità cerimoniale, più o meno ieratica, ma in seguito ai tre colpi d’alabarda battuti in terra dal gigantesco lanzichenecco in agguato. I tre colpi: segnale d’inizio atto, tipico della scena d’una volta, che diventa segnale per il manifestarsi d’una divinità diabolica, specificamente teatrale.

Klossowski non cesserà mai di tornare a Roberta: molti anni dopo, in La rassemblance, rievocando l’avventura cinematografica con Pierre Zucca, situa ancora una volta il “modello Roberta” nelle condizioni produttive indotte dai nuovi media.5

Come evitare, prima di tutto, che il personaggio sia interpretato da una qualunque attricetta alla moda? La lotta con i pregiudizi dei cineasti non è facile, ma alla fine avviene l’incontro con Zucca, l’unico a saper cogliere la necessità di mantenere “lo stile inattuale” del volto e della figura di Roberta. Lo sdoppiamento della presenza, insito nel modello-Roberta, non soffre per il fatto che ancora una volta Roberta interpreti Roberta – diventa solo, da intimo, paradossalmente collettivo, coinvolge, assieme a K., la partecipazione del regista e dell’intera troupe, proprio perché non si chiede a Roberta che di “essere se stessa” (sic).

Per ragioni di comodità, Zucca gira, nella palestra sotterranea, la scena di Roberta legata dal maniaco alle parallele dell’attrezzo ginnico, prima della passeggiata/inseguimento preliminare sotto i portici della Galleria. A causa di quest’inversione temporale, comune durante le riprese cinematografiche, pare che, nella sequenza girata dopo, Roberta si attenda (ancora di più) le conseguenze della sua passeggiata.

Questo, almeno, sembra importi a K., indipendentemente dal diario di lavorazione del film: “Esibire la fisionomia del ‘modello’ di un personaggio non è ancora nulla se, sotto gli occhi dello spettatore, questi non tradisse, anche solo per un secondo con un sorriso represso, la sua ripugnanza nel ritrovarsi tale e quale, grazie a risorse proprie, in una simile situazione”.6

Il senso di filmare Roberta, insomma, sta nel poter toccare con gli occhi il profilo dell’indiscernibile, la pelle del vivente nel luogo stesso (lo schermo) dell’assenza.

1 Cfr. M. Foucault, La prosa di Atteone (in P. Klossowski – Le leggi dell’ospitalità , Sugar, Milano 1968, p p. VII-XII). In ogni caso, le situazioni “pericolose” in cui vengono a trovarsi le eroine di Tonnerre spesso, ma non sempre, coinvolgono due “persecutori”; sempre, invece, le avventure di Roberta (i due lustrascarpe, il gobbo e il colosso ecc.), a cominciare dall’episodio del tabernacolo, dove le mani/fantasma, bloccandola, fanno da necessario complemento allo svizzero stupratore.

2 Specialmente per gli studiosi di area anglo-sassone, un fenomeno come il tema surrealista dei visi celati, attinente all’avanguardia europea, le esperienze molto più dozzinali del Grand Guignol e la fortuna del genere horror nell’industria hollywoodiana, sono da collegare alle orribili mutilazioni diffuse tra i reduci della prima guerra mondiale. Si possono menzionare l’Union des Gueuls Cassées, la fratellanza francese dei “volti devastati” e le collezioni di maschere modellate sui volti di feriti di guerra in possesso di alcuni ospedali militari. Cfr. anche il lavoro su materiale d’archivio relativo ai feriti della Grande Guerra, in Oh, uomo (2004) di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi.

3 Ferdière era il medico curante di Artaud nella clinica di Rodez. Ygdrasil (in Il suggeritore) è uno psichiatra imbecille e intrigante. Ricordiamo, di passaggio, le vicissitudini coniugali di Georges Bataille, amico e sodale di Klossowski, con l’attrice Sylvia Bataille (interprete di Une partie de campagne di J. Renoir), che poi sposò in seconde nozze Jacques Lacan. La rottura con Sylvia aveva ispirato a Bataille Le bleu du ciel, scritto nel ’35, ma pubblicato solo nel ’57.

4 G. Bataille ha scritto: “L’esperienza interna dell’erotismo richiede, da parte di colui che la compie, una sensibilità per l’angoscia che fonda il divieto altrettanto grande che per il desiderio che induce a infrangerlo. E’ questa la sensibilità religiosa, che sempre lega strettamente desiderio e timore, piacere intenso e angoscia.” (G. Bataille, L’erotismo, Mondadori, Milano 1969, p.45 – i corsivi sono di Bataille).

5 Cfr. il capitolo “L’indiscernibile” (p. 80-91) in P. Klossowski,La rassomiglianza (Sellerio, Palermo 1987). Qui tra l’altro viene ricordato un incontro a Milano con Michelangelo Antonioni. Portato a vedere le opere grafiche di K., il regista lo definisce fortunato, perché come pittore può dare liberamente forma alle sue visioni, mentre il cineasta deve passare attraverso un vero inferno di condizionamenti.

6 Ivi, p.89-90. Per il riferimento al “modello”, si può pensare alle teorizzazioni di Bresson.

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