philosophy and social criticism

Amitav Ghosh, il mondo in un mare di polvere e oppio

Intervista di Marco Dotti

Bellinzona, 20 settembre 2008

Era probabilmente la seconda settimana di marzo del 1838, quando Deeti ebbe la sua visione. Non furono guerrieri o semidei a riempirle gli occhi e il cuore, ma una più prosaica goletta a due vele, la Ibis, proprietà della “Benjamin Brightwell Burnham”, una delle compagnie britanniche destinate ad arricchirsi col traffico di stupefacenti e mezzi schiavi, nell’imminenza della Prima guerra dell’Oppio che scoppierà di lì a pochi mesi. All’improvviso, mentre Deeti si bagnava nelle acque del Gange, la monotonia di un giorno qualunque venne rotta dall’apparizione di una nave dall’alta alberatura, con le vele di prora tese al punto da sembravare immense ali dispiegate per chissà quale volo. Deeti comprese subito che si trattava di un segno del destino, perché neppure in sogno aveva mai visto un’imbarcazione del genere, col rostro intagliato ad arte, raffigurante la testa di un uccello, e un nome quasi rassicurante: Ibis.

Come le sarebbe stato possibile anche solo immaginare una nave simle? Deeti viveva infatti nel nord del Bihar, a più di seicento chilometri dalla costa e il suo villaggio si trovava così all’interno del paese che il mare le pareva “distante quanto l’aldilà”, un aldilà in tutto e per tutto simile al punto esatto in cui l’acqua diventava salmastra, inghiottita nell’ “abisso di tenebre” dove il sacro fiume precipita nel ventre del “Kala-Pani, ‘il Nero Oceano’ “. L’inverno era finito da poco e per centinaia di chilometri, da Benares in su, “sembrava che il Gange scorresse tra ghiacciai paralleli”. Entrambe le sponde del fiume erano infatti cosparse di migliaia di leggeri petali di papavero, quasi che “la neve delle cime himalayane fosse scesa suelle pianure”.

Si apre con questa visione Mare di papaveri (pp. 544, euro 18), l’ultimo romanzo di Amitav Ghosh magistralmente tradotto da Anna Nadotti e Norman Gobetti per l’editore Neri Pozza. Primo tassello di una complessa trilogia narrativa, Mare di papaveri offre uno spaccato memorabile sulle radici spesso oscure e la nascita – non proprio felice – dell’India moderna. Attraverso le peripezie della nave e del suo equipaggio di lascari, Ghosh riesce a tracciare un considerevole affresco della varia e multiforme umanità che si agita dentro e fuori il ventre di legno della Ibis, sullo sfondo di uno dei periodi chiave della tarda modernità: quello che, attraverso le Guerre dell’Oppio e la crescente influenza della British East India Company, vide affermarsi una nuova e particolarissima forma predatoria del capitalismo finanziario. Ospite nei giorni scorsi di Babel – il Festival di Bellinzona, dove in compagnia della sua traduttrice Anna Nadotti ha tenuto una applauditissima lezione sul fare e tradurre letteratura – Ghosh ha accettato di rispondere ad alcune domande.

I suoi libri sono spesso frutto di lunghi periodi di ricerche storiche e di viaggi. Nello Schiavo del manoscritto, per esempio, questo lavoro lascia una traccia diretta, con le numerose note poste a fondo libro. Anche per il Mare di papaveri ha lavorato in questo modo?

Non so se sia una scelta consapevole, la mia. Quel che è certo è che considero la scrittura un mondo di aprirsi al mondo e all’esperienza del mondo. Di solito – almeno questo è quello che in genere i lettori credono – gli autori si ritirano a scrivere nelle loro stanzette private, protetti dagli urti del tempo e dai rumori molesti. Chiaramente anche io ho periodi di pausa e scrittura solitaria, ma direi che questi periodi costituiscono le fasi terminali e non la totalità del processo. Il mio lavoro comincia nell’attimo stesso in cui esco dalla mia stanza e mi confondo nel mondo. Solo così – viaggiando o facendo ricerche negli archivi – riesco a incontrare i personaggi che poi entreranno nelle mie storie. Spesso sono personaggi che realmente ho incrociato per strada, altrettanto spesso però sono figure che hanno lasciato solo flebili tracce di sé in qualche misconosciuto documento. Ci si deve sottoporre alla stessa disciplina sia nella fase di scrittura vera e propria, quando è necessario isolarsi, sia quando ci si apre al mondo, lasciando che il mondo con le sue voci, le sue ombre o i suoi colori entri dentro di noi.

Questa apertura all’esperienza e alle voci del mondo risulta evidente anche dalla lingua e dalla complessità – spesso gergale – messa in gioco nel Mare di papaveri. Come osservano, nella loro nota, i curatori dell’edizione italiana ogni personaggio del libro parla un inglese diverso, contaminato dal bengali, dall’hindi, dall’urdu, dal francese o dal cinese. A ben vedere è una contaminazione tipica soprattutto della lingua dei lascari – i marinai delle navi “multietniche” che solcavano l’Oceano indiano – il cui dizionario, come ogni dizionario del resto, sembra un archivio vivente. Un archivio da cui estrarre non solo parole, ma anche le storie degli uomini che a quelle parole si sono ritrovati legati dal destino…

Per scrivere il Mare di papaveri ho usato termini che, al 90%, si trovano sull’Oxford Dictionary. Non ho comunque usato una sola parola che non fosse, tecnicamente, “inglese”. Non solo una lingua è sempre infinitamente più ricca di quanto creda la comunità dei suoi fruitori ma anche i dizionari sono più ricchi di quello che generalmente si pensa. Ovviamente, la mia idea di dizionario è legata al fatto che sia una specie di archivio vivo, un fondaco di memorie attualizzabili, di parole e quindi anche di storie. Adoro leggere i dizionari, proprio come altri leggono cronache o romanzi, non per mero gusto enciclopedico ma perché questi archivi viventi racchiudono vere e proprie narrazioni. Devo anche dire che per scivere questo libro ho anche imparato a navigare a vela. Per fare entrare dentro di me tracce dell’esperienza del mare.

Per quale ragione ha scelto di ambientare il suo ultimo libro nel periodo delle Guerre dell’oppio?

Quando fra cinquanta, sessanta anni si riaffronterà la storia della fine del diciannovesimo e dell’inizio del ventesimo secolo, allora forse ci si accorgerà che, come la Rivoluzione Francese per il XVIII secolo, sono le Guerre dell’oppio a rappresentare il vero punto di rottura del XIX, l’inizio di una diversa modernità in cui ancora ci troviamo immersi. È da lì, infatti, che ha origine un modello economico e capitalistico che allunga la propria ombra anche sul tempo presente. Questo modello è non solo economico, ma anche militare, ideologico, mette in gioco tutto un apparato di difesa. Osservando ciò che succede ed è successo in Afganistan, per esempio, ci si dovrebbe chiedere da dove nasce questo sistema economico e politico, da dove trae i propri modelli di diffusione e di sviluppo, oppure dal punto di vista asiatico da dove hanno origine le relazioni economiche tra India e Cina alla base del capitalismo odierno dei due paesi. Le guerre dell’oppio rappresentano in questo l’alba del libero commercio, sono guerre del capitalismo in difesa del capitalismo, secondo strutture e modelli che si ritrovano anche oggi negli stessi luoghi, con le stesse dinamiche, per le medesime ragioni. Per quello che riguarda nello specifico il Mare di papaveri, all’inizio delle ricerche volevo capire le ragioni che indussero migliaia di persona a lasciare l’entroterra indiano. A poco a poco, mi sono ritrovato a indagare sulle produzioni di oppio divenute nei primi decenni del XIX secolo la principale fonte di reddito per i coloni inglesi, produzioni che erano la causa diretta delle migrazioni a cui mi stavo interessando. I proventi dell’oppio servirono per finanziare il primo capitalismo – diciamo così – dell’era globale, incrementando direttamente il capitale di investimento di imprese multinazionali e di istituzioni a tutt’oggi operanti.

Una delle figure femminili del Mare di papaveri, Paulette, parla ad un certo punto dell’esistenza di giungle senza serpenti suscitando l’incredulità generale. Per vincere la diffidenza, Paulette afferma di averlo letto in un libro, “un libro scritto da un uomo che conosceva queste cose”. Eppure, anche in questo caso non verrà creduta, perché non si ammette che una donna possa “conoscere cosa c’è scritto in un libro”. In un certo senso, Paulette si ritrova prigioniera di – più che liberata da – un testo. La sua capacità di leggere è una trappola di secondo grado, non meno insidiosa dell’analfabetismo. Fatto che già era successo ad altri personaggi dei suoi romanzi, analfabeti, schiavi incapaci di leggere o impossibilitati a scrivere eppure presenti – seppure come ombre – sulla scena della storia…

Fin dai primi libri, ho concentrato il mio interesse su questo tipo di figure lasciate ai margini o “tagliate fuori” dalla storia. Il caso di Paulette mi affascinava particolarmente, trattandosi di una storia vera e documentata, ispirata al caso di “Madame de Commerson”. Paulette affrontò tutto il suo viaggio – durato un anno e mezzo – mascherata ta da uomo, mischiandosi ai lascari della ciurma. Non appena sbarcati a Tahiti, però, gli indigeni si accorsero subito del travestimento, cominciando a trattarla come una donna e lasciando stupefatti tutti gli altri membri dell’equipaggio della Ibis che, durante le settimane e i mesi di navigazione al fianco di Paulette non si erano accorti della sua vera identità. È la storia di Jeanne Barret, la compagna del naturalista e botanico francese Philibert Commerson. Nel 1766 – in un periodo in cui la navigazione almeno in Europa era vietata alle donne e alle donne, manco a dirlo, era interdetto anche lo studio della botanica – per continuare a lavorare al fianco di Commerson la Barret decise di travestirsi e camuffare la propria identità. Fu così che, sotto le mentite spoglie dell’aiutante Jean Baré, la ritroviamo al seguito di Philibert Commerson nella famosa circumnavigazione del globo condotta dal navigatore Louis Antoine de Bougainville. La sua vera identità sarà scoperta solo a Tahiti, ma nel frattempo i coniugi Commerson avevano già avuto modo di classificare numerosi fiori e piante. Non essendo ufficialmente autorizzata a entrare nel mondo della scienza, Jeanne Barret scelse una strada “secondaria”. Ripercorrere queste vicende è, da un lato, un po’ come fare rientrare queste figure nel mondo che gli era formalmente interdetto, ma dall’altro è anche il tentativo di focalizzare una delle principali caratteristiche del XIX secolo: la segregazione delle donne. La cosa incredibile, studiando gli elenchi e le liste di imbarco, è osservare come solo in Europa vigessero certi divieti. In Cina o nel mondo arabo, ad esempio, non vigevano certe proibizioni e una “segregazione” basata sul sesso: gli elenchi di bordo in questo rappresentano solo una spia, l’indizio di una questione di ben più ampia portata che occorre prendere bene in considerazione. L’idea della separazione fra sessi è una caratteristica molto europea, circoscritta all’area di maggiore influenza dell’Illuminismo. Pensiamo anche a un’altra questione: se scorriamo gli elenchi di imbarco e ci soffermiamo sulla provenienza degli equipaggi, possiamo vedere che arrivavano da ogni parte del mondo. Il multiculturalismo, in fondo, non è una prerogativa dei tempi moderni, ma viene da molto lontano.

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