philosophy and social criticism

Ancora sull’egemonia di destra

Mario Pezzella

Aggiungo qualche osservazione a due precedenti articoli sul governo attuale, pubblicati su Il Ponte il 10 giugno e il 5 luglio scorso1.

L’illusione che i Cinque Stelle potessero moderare la componente leghista e neofascista del governo è durata poco; sono proprio Casaleggio e Grillo ad avanzare la proposta più eversiva e a dire quello che molti pensano e finora non avevano osato dire: meglio abolire il Parlamento e sostituirlo con una piattaforma on line, gestita da una élite tecnocratica e mediale. La prima risposta è facile e facilmente condivisibile: stringiamoci a difesa, con tutti quelli che ci stanno, della democrazia minacciata.

Purtroppo le cose non sono così semplici. Il Parlamento italiano, nell’ultimo ventennio, è precipitato in un profondo discredito: è un fatto indubitabile e riconosciuto, tanto che le esternazioni sulla possibilità di abolirlo non suscitano grande sorpresa o ondate di indignazione. Corruzione, compravendita di voti, trasformismo selvaggio, sbilanciamento dei poteri a favore dell’esecutivo, sudditanza verso i poteri finanziari ed economici europei e le loro trojke più o meno mascherate da Monti, hanno portato alla disgregazione di fatto del potere legislativo che la nostra Costituzione attribuiva al Parlamento. Si sprecano i paragoni infausti con la Germania di Weimar o con l’Italia del primo dopoguerra. Si ricorda perfino il discorso di Mussolini, quello famoso in cui definiva il parlamento “un’aula sorda e grigia”, che poteva trasformare in bivacco per i suoi manipoli (oggi si potrebbe aggiornare: “in una sala di proiezioni per le mie slides”).

È divenuto difficile difendere il Parlamento e la democrazia, contro il neofascismo che avanza. Per farlo occorre sottrarsi al benché minimo rimpianto per chi li ha ridotti in questo stato, compreso il Pd pre e post-Renzi: il berlusconismo televisivo ha prodotto certo una devastazione antropologica profonda, ma il Pd (con i suoi avatar precedenti) ha distrutto ogni prospettiva socialista (nelle varie sfumature: da quella riformista a quella rivoluzionaria) arrendendosi senza limiti al neoliberismo. Neanche per difendere il Parlamento si possono dimenticare le responsabilità di chi lo ha ridotto a cinghia di trasmissione dei poteri economici, e la rabbia e l’umiliazione di chi ha subito questa svendita di diritti sociali.

Non si può semplicemente difendere questo Parlamento, ma si deve immaginare un Parlamento diverso, con regole e forme di rappresentanza rinnovate e rigorose. Non si tratta di difendere questa sinistra (che ormai non merita più tale nome) ma di rifondare una prospettiva socialista e una critica del capitalismo aggiornata alla situazione attuale.

Partiamo quasi da zero, non è il caso di farsi illusioni. Non abbiamo un Corbin, o un Sanders, o un Podemos, che costituiscono almeno dei fronti di resistenza importanti. Come in altri momenti della storia italiana, il fascismo offre la rappresentazione più immediatamente efficace della crisi, e spaccia soluzioni fantasmatiche, che si diffondono con la rapidità di un contagio psichico (la dicotomia amico-nemico, la costituzione di una razza inferiore come capro espiatorio di conflitti sociali irrisolvibili, un Welfare scorciato e promesso agli indigeni nazionali). È un fatto positivo che si cominci a definire questo governo, senza troppe remore, come una versione aggiornata di fascismo. Quando lo scrissi all’atto della sua costituzione molti si scandalizzarono. Oggi che un ministro in carica (è solo l’ultimo episodio) chiede di abolire la legge Mancino che impedisce la propaganda al nazifascismo e all’odio razziale, e che autorevoli esponenti Cinque Stelle ipotizzano di chiudere il Parlamento, mi pare che non si possano nutrire più dubbi in proposito. Purché anche questo non diventi un alibi e si continui a pensare al fascismo come un impazzimento momentaneo, una barbarie provvisoria, un incidente volgare, da cui ci riprenderemo presto. No, il fascismo è una cosa seria, è una rivoluzione passiva, nel senso che intendeva Gramsci, e dietro il colore e il folklore c’è una precisa idea di società gerarchica e autoritaria.

C. Schmitt, il filosofo e giurista nazista, criticava il parlamentarismo in nome un nuovo concetto di rappresentanza plebiscitaria, fondata su un rapporto fusionale tra il capo e le masse, paradossalmente una forma estrema di democrazia diretta, in realtà fondata sull’assenza di ogni mediazione riflessiva, sull’assemblearismo totale e, in effetti, su immense risorse di fascinazione mitica e manipolata.

Nella visione socialista, invece, la democrazia diretta era solo un aspetto di una complessa articolazione istituzionale, che aveva i suoi punti forti nei consigli e nella struttura federale dello Stato: non dunque un’assenza di mediazione e di rappresentanza, ma una rappresentanza che mantenesse un contatto con i suoi momenti costituenti, con i suoi elettori. Il controllo partecipato di un’istituzione è proprio l’opposto del plebiscitarismo o dell’abolizione di ogni rappresentanza: è invece ciò che garantisce forza e autorevolezza all’opera del rappresentante.

Marx aveva già riflettuto sulla differenza tra democrazia formale borghese e “vera” democrazia in un suo libro giovanile, la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, recentemente ripreso e studiato da M. Abensour nel suo La democrazia contro lo Stato, dove questi oppone una democrazia insorgente al modello borghese, funzionale al modo di produzione del capitale. Essa non implica l’abolizione fantomatica di ogni istituzione in una sorta di crogiolo magico e immediato di democrazia diretta, ma la riformulazione e la creazione di istituzioni nuove: quelle comunaliste, consiliariste e socialiste, che anche H. Arendt ha descritto nel suo libro Sulla rivoluzione.

Le esperienze consiliari del Novecento indicano un possibile politico, che trascende i limiti della democrazia rappresentativa e dello Stato-Nazione. Esse affrontano (non dico che risolvano) il problema fondamentale di ogni democrazia radicale: come mantenere il contatto con l’apertura indeterminata alla libertà che contrassegna il loro inizio, come articolarsi in istituzioni che contengano entro di sé modalità di decisione e di consenso, capaci di dissolvere le fissità che si ricostituiscono, i rapporti di potere che si ripresentano, le dissimmetrie rinascenti. In questo scarto rispetto al presunto realismo dello Stato e delle sue rappresentanze, Marx scorgeva l’ispirazione profonda della Comune di Parigi del 1871 e la collegava ad altre brecce simili contro il continuum del dominio: “L’azione politica di cui parliamo non avviene in un momento, ma è un’azione continuata che si iscrive nel tempo, sempre pronta a riprendere slancio in ragione degli ostacoli incontrati”2.

H. Arendt nel suo libro Sulla Rivoluzione ricorda la sorprendente rapidità con cui nelle esperienze consiliari del Novecento si diede “inizio a un processo di coordinamento e integrazione, attraverso la formazione di consigli superiori a carattere regionale o provinciale, nel cui seno infine si potessero eleggere i delegati a un’assemblea rappresentativa dell’intero paese. […] Il fine comune era la fondazione di uno Stato nuovo, di un nuovo tipo di governo repubblicano che poggiasse su “repubbliche elementari” in modo tale che il potere centrale non privasse i corpi costituenti del loro originario potere di costituire”3. Si congiungono qui l’idea di una federazione sovrastatuale e quella di un decentramento consiliare del potere, nei “siti” del lavoro, dell’abitazione, dell’educazione. Oltre le rappresentanze di tipo parlamentare non c’è l’assenza assoluta di istituzioni. Il comunalismo rivendica la possibilità che il cittadino partecipi ovunque lo voglia all’azione politica, reimmerge costantemente la rappresentanza eletta nel momento costituente: “Sarebbe una vergognosa semplificazione rappresentare i rapporti tra democrazia insorgente e istituzione solo nel segno dell’antagonismo, come se l’una si dispiegasse sempre in un fervore istantaneo e l’altra fosse irrimediabilmente preda di una staticità marmorea. […] L’istituzione, più matrice che cornice, contiene in sé una dimensione immaginaria, di anticipazione”. Deleuze definiva così la differenza tra l’istituzione e la legge: “Questa è una limitazione delle azioni, quella un modello positivo di azione”4.

Marx rievocava le nuove istituzioni sorte con la Comune di Parigi, considerandole come il modello di una forma politica adeguata alla realizzazione del socialismo economico: “La Comune doveva essere la forma politica anche del più piccolo villaggio di campagna. Le comuni rurali di ogni distretto dovevano amministrare i loro affari comuni mediante un’assemblea di delegati con sede nel capoluogo, e queste assemblee distrettuali dovevano a loro volta inviare i propri deputati alla delegazione nazionale a Parigi; ogni deputato doveva essere revocabile in ogni momento e legato ad un mandat impératif”. Certo, dobbiamo oggi considerare che entrambe le forme in cui è stata concepita la rappresentanza – il “libero mandato” e il “mandato imperativo” – hanno subito una profonda deformazione storica, che le ha portate quasi a rovesciare il loro intendimento originario. Il libero mandato doveva garantire la libertà del rappresentante da ogni forma di pressione e di lobbies e permettergli di rappresentare la volontà generale e l’interesse della Nazione: ma nel momento in cui lo Stato diviene funzione di interessi economici e finanziari, come è avvenuto in modo estremo negli ultimi anni; in cui ogni potere decisionale è estromesso dal Parlamento, e defluisce in strutture pubbliche o segrete extraparlamentari; in cui le elezioni si riducono a spettacolo e non a sostanza della democrazia: in tale situazione, la libertà del mandato si riduce alla opportunistica libertà di cambiare senza controllo e senza giustificazione la propria parte politica, trasformando l’interesse generale in maschera dell’interesse più sfacciatamente privato. D’altra parte il mandato imperativo è stato inteso nelle costituzioni del “socialismo reale” come sudditanza diretta al partito di appartenenza. Va ricordato invece che per i comunardi e per Marx voleva significare la responsabilità del rappresentante rispetto agli elettori del distretto federale in cui venivano eletti e che questi, non il partito, avevano eventualmente il diritto di revoca, a richiesta di una certa percentuale di elettori. Del resto a quell’epoca partiti nel senso novecentesco non esistevano o erano assai più deboli: e il conflitto tra organizzazione consiliare e organizzazione partitica dello Stato attraversa tragicamente tutta lo storia del socialismo e del comunismo nel Novecento.

Che fare allora? Per quanto possibile occorre una riforma e un rafforzamento democratico delle forme parlamentari, in una direzione che sposti l’accento della responsabilità del rappresentante dai partiti agli elettori. Ma questo suppone una organizzazione federale dello Stato, e questa a sua volta una critica della logica del capitalismo astratto che sta deformando le nostre vite, offrendo una sponda indiretta alle regressioni etniche e ai risentimenti neofascisti. Nessuna regola istituzionale ha senso, se non sorretta da una visione antagonista all’assetto di potere capitalista: o altrimenti può sempre diventare parte di una rivoluzione passiva che ne distorce e ne inverte il senso originario.

A puro titolo utopico: occorrerebbe una costituente per il socialismo, per restituire a questa termine la dignità perduta. Sempre a titolo utopico: l’unico luogo da cui oggi può ripartire una lotta concreta contro l’attuale sistema di potere è un sindacato coordinato a livello europeo, che lotti contro le varie forme di sfruttamento del lavoro e della vita stessa (perché ormai più che di tempo di lavoro si deve parlare di un tempo di produzione generico e non pagato esteso alla quotidianità intera). Un sindacato internazionalista, che non faccia differenza alcuna tra l’appartenenza etnica dei suoi iscritti e si faccia carico sia delle storture del lavoro schiavile sia della manipolazione del lavoro cosiddetto immateriale. Questo sarebbe l’unico modo concreto per combattere realmente il razzismo, spostando il conflitto dalla sua causa apparente – l’immigrazione – alla sua causa reale: la disuguaglianza economica, sociale, simbolica, psicologica.

Note

1 Il 10 giugno e il 5 luglio 2018.

2 M. Abensour, La democrazia contro lo Stato, Napoli, Cronopio, 2009, p. 8.

3 H. Arendt, Sulla rivoluzione, Milano, Ed. di Comunità, 1996, pp. 309-310.

4 M. Abensour, La democrazia contro lo Stato cit., p. 12.

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