Ante Mortem
di MICHEL SURYA
trad. alfredo riponi
Non sappiamo bene come nasce un’ipotesi, da dove viene, le convenzioni contro cui insorge; sappiamo ancor meno ciò che solleva, anche a titolo di ipotesi; ancora peggio se è realmente in grado d’infrangere ciò che appartiene alle convenzioni.
Kafka ha fatto questa ipotesi di cui nessuno, ovviamente, poté dire allora ciò che l’aveva ispirata né
se questa ispirazione fosse intenzionale: a qualsiasi altezza l’uomo si innalzi, a qualsiasi pretesa altezza, non smette tuttavia d’essere una bestia. Quest’ipotesi impone due precisazioni: una consiste nel restringere il senso di un’affermazione fatta per non essere tuttavia facilmente contestata; Kafka non ha detto che l’uomo non smetteva d’essere bestiale anche se era in fondo grande; meno ancora che approfittava della sua apparente grandezza per continuare ad essere, sotto sotto, segretamente, bestiale, per esempio sessualmente bestiale (un moralista lo direbbe e Kafka non lo è); non ha detto inoltre – e qui sta ciò che lo differenzia maggiormente da tutti quelli (proprio i moralisti) che non cessano di voler allontanare gli uomini dalla bestialità che non smetterebbero di nutrire segretamente – che l’uomo, per quanto umano sia, è sempre una bestia, che niente l’avrebbe innalzato al punto da avere ragione della bestia che non smetterebbe di portare in sé come una parte “insormontabile”, come diceva Nietzsche. No, Kafka dice: non c’è uomo, che si innalzi o si affermi per qualsiasi causa, che non possa improvvisamente ridivenire la bestia che ciascuno porta in sé come una vergogna. Questa precisazione non basta ancora; aggiunge: l’uomo non è a ogni istante tentato di ridivenire la bestia che porta in sé, ma è a ogni istante minacciato di ridivenire la bestia che nessuno ha smesso di vedere in lui, per accusarlo. Per accusarlo di non essere che lei; lei, questa bestia, è ciò che si è dapprima tentati di dire, non fosse che per minimizzare le cose. Ma minimizzarle non è proprio possibile; è probabile invece che si tratti di vederle così: se l’animalità dell’uomo è ineliminabile, non è perché è incapace di arrendersi alle ragioni della Ragione di cui si inorgoglisce, ma perché la Ragione lo doterebbe di un’animalità nuova e supplementare.
Kafka chiama questo rilancio della bestia sull’uomo: «metamorfosi». E abbiamo visto che ha fatto di questa caduta improvvisa di un uomo dallo stato di uomo a quello di bestia un racconto patetico che porta questo titolo; e vediamo bene, l’ho già detto, quale premonizione l’ha portato a pensarlo.
Ma c’è di peggio. Di peggio, voglio dire con questo che Kafka, scrivendo la Metamorfosi, non ha fatto che invertire la rappresentazione; non gli è bastato testimoniare che era impossibile che l’uomo andasse dalla bestia all’uomo senza impedire che la bestia che portava in sé lo riprendesse agli uomini; dice anche, dice essenzialmente: l’uomo e la bestia abitano in parti uguali ciò che siamo d’accordo a chiamare uomo (e non bestia), sia che l’uomo lasci la briglia alla bestia sia che la bestia scimmiotti l’uomo, così bene che non c’è niente di umano che non debba essere preso per bestiale e niente di bestiale che non si possa, o che non si debba, prendere ugualmente per umano.
Gregor Samsa rientra nel primo caso; nessuno possiede più di lui umanità; nessuno è più umano di lui, sebbene morirà da scarafaggio. La Scimmia della Relazione per un’Accademia rientra nel caso opposto: morrà da uomo sebbene non sarà sparito affatto ciò che fa di lui prima di tutto una bestia.
Odradek, infine, non è né l’uno né l’altro. Che non sia né l’uno né l’altro significa: nessuno può dire chi è o che cos’è. Uomo? C’è una possibilità. Bestia? È quello che si crede dapprima, senza poterne essere sicuri. Tra tutte le cose che il pensiero dovrebbe rappresentarsi, e che non si rappresenta tuttavia volentieri, per pusillanimità forse, per paura probabilmente, c’è al vertice Odradek, che la letteratura ha rappresentato. Per rappresentare cosa esattamente? Conosciamo la risposta di
Walter Benjamin: l’abbandono all’oblio. Risposta ammirevole dopotutto, che Adorno non fa sua che in parte; o più esattamente che arricchisce di due precisazioni: Odradek, dice Adorno, è l’oltrepassamento della colpa e, di conseguenza, quello della morte.
Tra tutte le cose che necessiterebbe comprendere, questa continua a pesare sulle possibilità e pretese del pensiero: come l’uomo è nato dall’animale? Da questa domanda, è vero, discende subito quest’altra, che il pensiero si pone ancor meno volentieri: che cos’è rimasto di questo passaggio, cioè cosa c’è ancora dell’animale nell’uomo, quale parte di sé l’uomo cede all’animale che è in lui, quale parte occupa l’animale nell’uomo in cui costui non smette mai di tramutarsi?
Altre domande s’inseguono, più enigmatiche ancora: può essere che l’animale non sia altro che ciò che rimane di un uomo antico (in parte scomparso), con cui l’uomo nuovo debba trattare (la sua stupidità nascosta), ma a cui senza tregua non c’è uomo nuovo che non ritorni proprio a causa della novità di cui si inorgoglisce?
Dopo Franz Kafka, Bruno Schulz ha anch’egli consegnato le povere creature di alcuni dei suoi racconti a metamorfosi di cui non si stabilisce rapidamente né facilmente il senso. Metamorfosi numerose. Da quella di un uomo mosca, per esempio, così come narra il racconto che s’intitola “La stagione morta”:
«A tratti violenti, il suo viso si scomponeva rapidamente in strati simmetrici seguendo le linee del suo spavento: mutava completamente, là, davanti ai nostri occhi, sotto il peso di un inconcepibile disastro. Prima che riuscissimo a capire quel che gli era successo, si mise a vibrare e risuonare intensamente, volò via sotto i nostri sguardi, grossa mosca pelosa, mostruosa nel suo corsetto blu acciaio, insetto che un volo demente faceva sbattere contro tutte le pareti della bottega.»
Alla metamorfosi di un altro in cane, così come narra il racconto “Il Sanatorio all’insegna della clessidra” (che dà il titolo alla raccolta): «Che accecamento! È un essere umano. Un essere umano alla catena che, in un’approssimazione semplicistica, ho preso non so come per un cane. Non mi si fraintenda. Era senza dubbio un cane, ma sotto forma umana».
A quella di un terzo in topo, nel racconto che s’intitola “Solitudine”: «Topo di chiesa, l’animale più indigente – all’ultimo posto del libro della Creazione – so vivere di niente. Ed è proprio così che io vivo, di niente in questa camera morta […] Soltanto io mi muovo qui, topo immortale, sopravvivendo
solitario, percorro senza fine il tavolo, la mensola, le sedie […] piccolo, agile e rapido, trascino dietro a me una coda che sfiora le assi. Adesso resto accovacciato sul tavolo, immobile, come impagliato, i miei occhi, come due bottoni, mi escono dalla testa e brillano. Solo la punta del muso si muove, impercettibilmente, masticando a piccoli colpi, per abitudine».
A quella, infine, d’un ultimo in gambero o in scorpione, in “L’Ultima fuga di mio padre”: «Lo riconobbi subito. La somiglianza era sorprendente, sebbene egli ora fosse un gambero o un grosso scorpione. Ci guardammo profondamente stupiti davanti all’evidenza di questa somiglianza che s’imponeva irresistibilmente, malgrado una tale metamorfosi […] Sprofondato negli archi delle sue innumerevoli zampe, le muoveva impercettibilmente. Le pinze e le antenne sollevate sembravano stare in ascolto. Inclinai il piatto e mio padre scese sul pavimento con precauzione, un poco esitante, ma appena ebbe toccato il suolo si allontanò bruscamente a gambe levate con un rumore di ossicini […] Correndo per soprassalti e torsioni, raggiunse il muro e, prima che ce ne accorgessimo, lo scalò, senza fermarsi e senza sforzo».
Ci si chiede quale ruolo occupa Kafka in questi racconti scritti da un altro, che ha scritto in modo talmente affine da credere che questi passaggi siano estratti da La Metamorfosi, da Relazione per un’Accademia, da Giuseppina la cantante o dalla Tana.
È un ruolo essenziale, senza dubbio. Probabilmente Schulz non avrebbe dato a questi racconti questo stile deliberatamente fantastico se Kafka non l’avesse preceduto su questa via. Cioè se non avesse conferito alle creature generate dalla sua torbida immaginazione un aspetto che s’impose con forza a tutte quelle che successivamente sarebbero uscite dall’immaginazione di coloro che sono tormentati dalla vergogna e dall’umiliazione. La questione, tuttavia, non è circoscritta a questa notevole affinità (o, se lo è, lo è in modo tale che non è possibile limitarla a Schulz; numerosi, infatti, saranno quelli che non potranno più vedere diversamente da come Kafka ha visto per primo il destino riservato a tutto ciò che è sacrificato).
[…]
Humanimalités, Editions Léo Scheer, 2004
Rispetto all’edizione Léo Scheer, il testo qui tradotto manca delle note a piè di pagina.
Humanimalités è il terzo volume della serie Matériologies. “Ante mortem”, secondo saggio del libro, mette a confronto sul tema della metamorfosi Franz Kafka e Bruno Schulz. La metamorfosi è voluta dall’essere che sta per subire la metamorfosi in qualcosa in cui non si riconoscerà. La metamorfosi, passaggio da uno stato all’altro, impone di passare attraverso la morte. [A. R.]
tysm review
vol. 24, issue no. 24
may 2015
ISSN: 2037-0857
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