Appunti per una poetica
Antonio Porta
1. Interazione
Se c’è interazione, tra soggetto e evento, si produce conoscenza e fisica, nel senso di nozione del fisico; se non c’è si tratta di metafisica. La metafisica, in assenza di risposte, non produce concetti, cioè non ha nulla a che vedere con la noetica. Ma non è di questo che voglio occuparmi, piuttosto di quello che mi preme di più: della conoscenza e del fisico. Se l’interazione produce conoscenza, produce anche ciò che possiamo chiamare “immaginario”, a patto di usare il termine (e/o il concetto) in senso fisico. L’immaginario, così individuato, conserva e a volte mette in mostra ogni possibile traccia delle sue radici storiche (Propp), intendendosi per “radici storiche” ogni possibile passaggio o momento dell’esperienza a tutti i livelli, dal politico al quotidiano, dal pubblico al privato, tra loro necessariamente interagenti. L’immaginario così radicato nell’esistente (qui inteso come: esperienza storica) non solo non ha nulla da perdere, rispetto a un’impossibile autonomia, ma ha tutto guadagnare perché in grado di moltiplicare i propri effetti di ritorno (a loro volta: interazioni). Vale a dire che l’immaginario potrà divenire promotore di progetti, e si vedrà oltre che cosa si può intendere con la parola “progetto”. Nel processo di interazione il “caso” di Mallarmé, che un colpo di dadi non potrà mai abolire, viene pure inteso in senso fisico e si intreccia indissolubilmente con la “necessità” (Monod). Non è questa la descrizione di una prigione, piuttosto quella di uno “stato”, che è possibile modificare, sia pure con incalcolabile lentezza, perché dinamico, interagente.
2. Reale
Va da sé che il “reale”, come prodotto finale, non può che essere frutto delle interazioni tra osservatore e evento, tra soggetto e oggetti (dove la parola “oggetto” va intesa in senso dinamico e mai statico, a sua volta “soggetto”di interazioni molto più che “ente”). Tuttavia è necessario identificare quel, “reale” che precede ogni possibile processo di interazione, ciò che ci è dato e insieme ciò che ci costringe a ínteragire, che vuole essere osservato, che tnon possiamo fare a meno di subire. Il processo di identificazione è anche un processo di controllo e di preliminare conoscenza, che non può essere evitato in nome per esempio dell’autonomia. L’autonomia è un nome, mentre il processo è reale e avviene comunque: si può fingere di non rilevarlo ma allora si passa nel territorio della magia, intesa non certo come «manipolazione tecnica» (Mauss), ma come «manipolazione dell’illusorio», che è appunto l’opposto dell’immaginario.
Il « reale » che in prima istanza identifichiamo come oggetto/soggetto interagente, è un reale già manipolato, cioè quello prodotto da una società prevalentemente urbana e industriale di massa (dove i termini: massa e industria sono divenuti inscindibili). Quindi cronaca, storia, storia e cronaca mescolate, cronaca che esemplifica processi storici in atto (per esempio le modificazioni della lotta delle classi), storia prodotta dalla cronaca, e poi ciò che definiamo col termine di «quotidianità», sempre urbana. La «natura» è assente in prima istanza, è ciò che sta fuori, è ciò che osserviamo da dentro la città e anche il luogo che raggiungiamo partendo dalla città, fondamentalmente estraneo, «paradiso perduto», in termini di comunicazioni di massa, «inferno necessario», se osservata da chi subisce la produzione agricola. Ma anche questo tipo di «natura» legato alla produzione agricola, è il frutto di scelte e di manipolazioni, e in essa osserviamo e percepiamo molto più la fatica e la condanna, che non l’estetica, il paesaggio, che pure sono frutto di quella stessa fatica, di quella medesima condanna. E più la specie umana si moltiplica più la condanna si fa inevitabile e rigida. L’estetica come frutto della fatica è momento di «consolazione» e appagamento, ma anche modifica dello stato di necessità, frammento di progetto in direzione dell’esperienza dell’immaginario, quindi del sollievo invece che dell’aggravamento del peso. Ma la «natura» è anche biologia e comportamento, frutto di adattamenti urbani: e sarà dunque questa realtà oggetto della poesia (e della politica), mentre quell’altra «natura» (quella confusa col «paesaggio») sarà relegata nel limbo dei nomi, insieme all’autonomia.
3. Linguaggio
Il luogo del rapporto tra soggetto e realtà esiste: è il linguaggio. Bisogna dire di più: il luogo dell’interazione è il linguaggio, né può esistere un’interazione muta, o se esiste coincide con l’assenza del soggetto, con la sua decomposizione. In questo senso la morte più che una realtà è un’astrazione, intendo: la propria morte. Quella degli altri è invece reale e incide nei rapporti e nei comportamenti in modo decisivo, ma allora non in quanto morte ma come privazione e assenza. Se si sono rilevate le attitudini censorie del linguaggio, quale istituzione e costrizione normativa, quale gabbia nel cui interno soltanto sono possibili movimenti e mutazioni, considerando irrilevante la funzione fàtica ai fini di una mutazione reale, comunque frutto di un’azione, è altrettanto necessario rilevare che il linguaggio è o può essere azione (speech act) e che in ogni caso senza linguaggio sarebbe impossibile il processo dell’interazione, vitale per la conoscenza.
Quando si parla di conoscenza s’intende non un passaggio necessario per arrivare alla «verità» ma di un momento del processo di interazione; non di un punto di arrivo ma di un nodo di relazioni, modificabile e modificantesi in fasi successive e in seguito a successivi processi interattivi. La conoscenza si muove con il linguaggio così come il linguaggio definisce e sposta la conoscenza stessa. Si deduce da Wittgenstein che: in quasi tutti i casi il significato di quella sequenza linguistica che chiamiamo «poesia» sta nel suo uso di relazione.
Se da una parte il linguaggio si presenta come una mannaia pronta alla castrazione ( se parli non agisci»), dall’altra i «giochi linguistici» si definiscono come necessari a ogni processo di relazione e dunque di interazione, spostando immediatamente il soggetto al polo opposto della minacciata «messa a morte anticipata» (la lingua tagliata dall’istituzione), che è quello dell’attività.
Nelle Ricerche filosofiche, scrive, con chiarezza assoluta, Marina Sbisà nell’introduzione a Atti linguistici, «che il linguaggio sia costituito da un numero in linea di principio indeterminato di “giochi linguistici” è semplicemente un dato di fatto ampiamente illustrato, esemplificato, ma non bisognoso di giustificazioni. L’impiego del linguaggio, da cui dipende il significato, consiste in un insieme di attività multiformi e intrecciantisi sia reciprocamente, sia con altri tipi di attività sociale; e fra esse non è legittimo cercare una “essenza” comune, né privilegiarne una come primaria. La comunicazione di informazioni ne è una soltanto, neppure la più importante. Il carattere pragmatico del linguaggio emerge così come risposta radicale al problema delle «funzioni»: la richiesta tradizionale di una distinzione tra usi cognitivi e usi pratici viene rovesciata, ponendo le basi della tesi opposta per cui ogni distinzione che si possa tracciare, sarà una distinzione tra diversi tipi di attività, diversi tipi di azione».
Ora, in quel luogo di azioni linguistiche che è la poesia l’interazione con il sistema che abbiamo definito come «reale»(§.2) è necessaria per sopprimere l’arbitrario, che viene offerto come «costruzione di un mondo possibile», naturalmente autonomo, cioè a dire che le relazioni hanno luogo solo secondo leggi, e regole imposte dal progetto. Anche ogni mondo «possibile» è in relazione con un soggetto la cui autonomia è senza dubbio limitata, ma per quanto riguarda la poesia e la narrativa questo tipo di relazione, fortemente divaricata e indiretta, produce assenza e incorporeità, mentre la poesia ha bisogno, qui e ora, di corpo e lingua. E per corpo s’intende: centro attivo delle interazioni.
4. Progetto
Non pare possibile, oggi, parlare di «progetti» in senso stretto, così come è stato possibile negli ultimi 35 anni, in almeno due occasioni: quella del neo-realismo (1943-1948) e quella della nuova avanguardia (1958-1968), come è messo in luce con straordinaria precisione da Maria Corti (Il viaggio testuale, Einaudi, Torino 1978). Alla domanda: «Qual è il progetto?», la risposta non può che essere articolata. Siamo certo più vicini all’utopia linguistica (definizione di Maria Corti) della nuova avanguardia che a una possibile interazíone con una nuova realtà politica nazionale contenente forti impulsi di epica popolare, come fu la Resistenza. Ma siamo anche lontani da un progetto ben definito, almeno in senso tradizionale. Volendo sintetizzare, invece che articolare, la risposta sarebbe: «Il progetto è l’interazione». Come a dire che la velocità è la macchina stessa: e non è un’affermazione inaccettabile.
Ma per passare da una posizione di difesa (assenza di progetto) a una di attacco, occorre riaffermare con forza: «Il progetto è il linguaggio». Solo che questo progetto di «linguaggio», che si identifica con un progetto di poesia e di narrativa, non può essere in alcun modo elusivo, cioè soltanto «estetico», né può essere soltanto «danza»; deve partire dall’accertata «relazione d’uso». Si parte ancora da Wittgensteín e dal concetto di «speecb acts». Perfino se il prodotto di una simile interazione (quella che si riferisce alla poesia e alla narrativa) fossero solo «briciole», dimenticate in un taschino, queste sarebbero importanti e vitali. La loro importanza consiste nel misurare la possibilità di scarto critico dall’attuale civiltà inclustriale di massa e la loro vitalità consiste nel dare a questo scarto una dimensione a livello di sopravvivenza. Quello della sopravvivenza è un progetto decisivo, più di ogni altro, sempre «qui e ora». Il futuro, si sa, è già passato. Abitiamo il presente, costruiamo il presente.
5. Due esempi di narrativa
Il primo si riferisce a un lungo racconto di Milan Kundera, intitolato Il berretto di Clementis. Si parte da una fotografia, storica per la Cecoslovacchia, riprodotta in centinaia di migliaia di copie. Il giorno, dice Kundera, è storico, nel senso che una simile svolta politica può capitare a un popolo ogni mille anni. Il Partito Comunista, appoggiato dalla parte migliore della nazione, prende legalmente il potere. Siamo nel Febbraio del 1948 e il dirigente comunista Klement Gottwald esce sul balcone di un palazzo barocco di Praga per parlare a centinaia di migliaia di concittadini ammassati nella piazza della Città vecchia. Accanto a lui, vicinissimo, c’è Clementis, il ministro degli Esteri. Nevica, e Clementis, pieno di sollecitudine, si toglie il suo berretto di pelliccia e lo mette sulla testa di Gottwald. Anche i bambini delle scuole conoscono questa fotografia. Quattro anni più tardi Clementis è accusato di tradimento e impiccato. La sezione Propaganda si mette subito all’opera e fa scomparire Clementis non solo dalla storia ma da tutte le fotografie, da cui viene abraso. Sul balcone è rimasto Gottwald da solo e di Clementis rimane soltanto il berretto di pelliccia. Passiamo nel 1971, tre anni dopo la primavera di Praga. Mirek è un reduce di quella primavera, è un intellettuale che adesso fa il muratore. Decide di recuperare delle lettere scritte a una vecchia amante di cui pensa di non ricordare più nulla e di cui invece ricorda tutto, soprattutto che era brutta e che non provava piacere nel fare l’amore con lui. Parte in macchina e raggiunge la casa dell’amante che gli rifiuta le lettere. Ma non è questo che conta: tornato a casa trova che hanno già arrestato suo figlio e arrestano anche lui. Al figlio che dice: «Non facciamo nulla che sia contro la costituzione», la risposta della Polizia è: «Le diciamo noi quello che è contro la Costituzione». Anche Mirek viene cancellato, cioè condannato a sei anni. Escluso, forse per sempre, da ogni attività civile, non solo politica e intellettuale. Preciso riscontro dell’interazione tra due cancellazioni, storiche, politiche e private: Mirek come Clementis, il berretto come segno della sparizione. Questo è quello che intendo dire con: costruiamo il presente, abitiamolo, non facciamoci cancellare, perché in questo senso il futuro non solo non è già passato (e volevo intendere: prevedibile) ma è l’obbiettivo della lotta. In questo senso, ancora, il «progetto», che ho identificato nel «linguaggio», si delinea anche con questo obbiettivo.
Il secondo esempio si riferisce a Peter Handke, al suo libro intitolato: Infelicità senza desideri. Anche questa è la storia di una cancelazione: quella della madre di Handke, e non tanto e non solo perché si è suicidata (è solo da suicida che ritorna presente e costringe il figlio scrittore a occuparsi di lei) ma perché la cultura impostale, la normativa a carattere nazionale, le ha impedito di cominciare a vivere, tanto che la rinuncia volontaria alla vita è un atto di conferma quasi formale della negazione. Il progetto di Handke, di fronte al corpo della madre, è quello di scoprire, una per una, le radici storiche di ogni parola usata: la scrittura diventa un’azione di antropologia linguistica.
[Relazione al convegno Itinerari: pratiche dell’immaginario, pratiche del reale (Mantova, Teatro Bibiena, 20-22 ottobre 1978), poi in: Umberto Artioli-Francesco Bartoli (a cura di), Il viandante e la sua orma. Mappe dell’immaginario e del reale, Cappelli, Bologna 1981].