philosophy and social criticism

Bisogna inventare la realtà. La lezione pedagogica di Roberto Roversi

"Roberto Roversi"

«Che si stampano libri sono secoli. Che si leggono libri sono secoli. Che il libro esiste ed è una presenza viva nel mondo culturale dell’uomo sono secoli. Adesso, proprio in questi anni, dicono che il libro stia morendo. Non lo credo. In questo momento il libro è come un pugilatore messo knock-out ma con tutto il vigore ancora intatto e pronto a risollevarsi da terra per un nuovo round».

Così scriveva Roberto Roversi, in un volumetto, titolato Libri e contro il tarlo inimico, edito dalla bolognese Pendragon nell’ottobre del 2012, a un mese esatto dalla sua scomparsa.

Sono due anni che Roversi ci ha lasciati, ma la sua figura non ha mai abbandonato la scena. Roversi è stato (e ancora è) un vero protagonista della cultura italiana del secondo Novecento: editore e poeta, scrittore e libraio, autore di testi teatrali e canzoni memorabili (da Nuvolari a Chiedi chi erano i Beatles) per quel Lucio Dalla che di lui diceva: «se non lo avessi incontrato adesso farei l’idraulico». Lo è stato perché, quando per molti non c’era più nulla da fare, la sua lezione è stata semplice, ma di un deciso, che a molti è parso quasi al limite della “clausura” monastica. «Bisogna inventare la realtà. La fantasia è consumata», scriveva, a riprova che lui da quella realtà non se ne era mai andato.

A Luca Sossella, amico, editore, che nel 2010 aveva lanciato una maratona di poesia in omaggio a Roversi, pubblicando poi una delle sue antologie più preziose, Tre poesie e alcune prose, abbiamo posto alcune domande.

Come ha conosciuto Roversi?

L’ho conosciuto a Bologna nel settembre del 1977. L’ho incontrato nella sua libreria antiquaria, la Palmaverde di via Castiglione 35 che conduceva con Elena, la moglie, si sposarono nel 1948… A proposito di Elena, ricordo la grazia del loro rapporto, Roberto le parlava semprecome se le prendesse il volto fra le mani, insomma tempo fa ho letto nel sito www.robertoroversi.it un breve racconto che pubblicò su una rivista nell’aprile del 1946, ricordo a memoria come finiva quel Soliloquio per Elena (firmato con lo pseudonimo Roberto Colombo, il cognome della madre): «Ah, certo, ecco. Il cane bianco che rincorreva le lepri, sotto la luna, era morto: un pomeriggio fu trovato accanto ad una siepe, dopo parecchi giorni che era scomparso. Ed Elena? Oh quella che per lui è terra e cielo e ogni cosa bella e buona – ebbene Elena la trovò la mattina dopo». C’è già lo stemma roversiano, no? Quando lo incontrai (dopo i fatti di Bologna del ’77 e l’uccisione di Francesco Lorusso) sapevo tutto su “Officina”, la rivista bimestrale che Roversi fondò con Pasolini e Leonetti e che poi, dopo dodici numeri, per solo due numeri pubblicò Bompiani, Fabio Mauri segretario di redazione. Ero amico di Mauri e lui mi raccontò episodi straordinari sulla vicenda del primo numero della seconda serie (che venne ritirato dal commercio a causa dell’epigramma di Pasolini contro Pio XII), comunque  per i due numeri finali di “Officina” Roversi riuscì a coinvolgere in redazione Franco Fortini, Angelo Romanò e Gianni Scalia e a pubblicare inediti di Gadda, Volponi, Moravia, Sciascia. Pendragon una decina di anni fa ha pubblicato in volume la ristampa anastatica dei quattordici numeri di “Officina”.

Cosa la colpì di lui?

Al nostro incontro, lo ricordo come adesso, severo e dolcissimo il volto di Roversi, e grandangolare la sua volontà di comprendere, la sua mania: ascoltare, ascoltare, ascoltare. Walter Benjamin, che ho letto a vent’anni grazie a Roversi, in Angelus Novus, nel saggio che dedica a Kafka, scrive: “Se Kafka non ha pregato – ciò che non sappiamo – gli era propria in altissima misura ciò che Malebranche definisce “la preghiera naturale dell’anima”: l’attenzione. E in essa, come i santi nelle loro preghiere, egli ha compreso ogni creatura”. Mi ricordo che una volta, per ringraziarlo, e per la vanità di farmi amare da lui dacché già mi stimava moltissimo, gli lessi, dedicandoglielo criticamente, questo passaggio. Roversi mi guardò con la limpidezza negli occhi che gli era propria, ma con lo volontà di schermirsi e di sorprendersi nel contempo, come per dire: Che altro possiamo fare, meno di così? Che altro possiamo fare se non impariamo almeno ad ascoltare? La mia critica (stupida superbia del ventenne) era che ascoltavo troppo di tutti. Avevo appena letto quella famosa lettera del 1960, indirizzata da Italo Calvino a Françoise Wahl che aveva fondato la collana “L’Ordre philosophique” per l’Éditions du Seuil, dove Calvino scriveva che ciò cui tendeva, l’unica pedagogia possibile, ciò che avrebbe voluto poter insegnare era un modo di guardare. In fondo la letteratura non può insegnare nient’altro, no? No, aggiunse Roversi, può insegnare un modo di ascoltare.

"Redazione di Officina"

La redazione di Officina. Roversi è il primo da sinistra

Nella redazione di Officina c’era anche Pier Paolo Pasolini, nasce da lui il mito del “Roversi” figura fuori del mondo…

Avevo letto tutto di Roversi e anche di Pasolini e mi presentavo come un antagonista a colui che subito, dico dopo il primo incontro, e il suo immediato invito a scrivere, pubblicare, ho “eletto” e quindi letto sempre come un padre; una casuale genealogia aveva fatto accadere la nostra nascita lo stesso giorno. Sì, scherzavamo spesso sul fatto di essere nati lo stesso giorno. In anni diversi, però! diceva Roversi. Avevamo trentaquattro anni di differenza. Anche negli anni fra noi silenziosi, quando decisi di lavorare per la comunicazione, la pubblicità, ci si sentiva almeno una volta all’anno, il 28 gennaio. Una delle cose più ingiuste sulla sua figura intellettuale è quella di farne un ritratto di uomo appartato, separato, distante. Certo, c’è quella poesiola di Pasolini (roso dal senso di colpa) in Poesia in forma di rosa: “Nel terzo / petalo odoroso si contempla / ROVERSI, un monaco di clausura / diventato pazzo, che cerca una clausura nella / clausura, per rifare di nuovo il cammino già fatto, / senza notizie biografiche, cicala nel sole della tomba, / a trasformare livore in malinconia – comunque / quella è la sua vita, e della sua vita / i suoi versi sono testimoni / che hanno senso in contesti / di dolore / nero.”  Salverei solo “cicala nel sole della tomba”.

Poeta, librario, anche filosofo, autore di canzoni memorabili messe in musica dal primo Dalla. Appartato eppure al cuore della migliore cultura italiana. Chi era Roversi?

Roversi non era affatto un monaco in clausura, era una finestra aperta sugli avvenimenti culturali degli ultimi due secoli. In verità non amava il palcoscenico, il palco, non frequentava gli intellettuali da calendario, il suo impegno politico e quindi poetico lo esprimeva sottraendosi al mercato e soprattutto alle mosche del mercato. «I tuoi vicini saranno sempre delle mosche velenose; ciò che è in te grande è appunto ciò che li rende velenosi e li accomuna alle mosche. Fuggi, amico mio, nella tua solitudine, là dove spira una forte e rude atmosfera! Non è tuo compito fare lo scacciamosche. Così parlò Zarathustra».

Bisogna ricordare che Roversi nel 1946 presenta la sua tesi di laurea in filosofia, Le origini dell’irrazionalismo di Nietzsche studiate nelle opere giovanili, e Nietzsche rimane per lui in filigrana una figura importante, una specie di contraltare esistenziale.

"Roversi su Nietzsche"

Quando Massimo Cacciari presentò a Bologna l’edizione della tesi di Roversi disse, molto giustamente a mio avviso, che Roversi comprese in modo straordinario l’opera filosofica di Nietzsche, eccezionale se si pensa che nel 1946 Roversi aveva 23 anni e l’Italia usciva dalle macerie della guerra. Egli comprese il Nietzsche-filosofo e non il letterato del malinteso superomismo portato in piazza da Gabriele D’Annunzio. Nietzsche, disse Cacciari, insegna a essere soli “insegna a essere soli, a non accompagnarsi a quel Pasolini che cercava il successo a Roma”. L’altra figura che si staglia, ed è sempre presente nella sua vita e opera, è Th.

Chi è Th.?

Roversi ha dedicato tutti i suoi libri a Th. e cioè a frater Thomas Campanella de Stilo provinciae Calabriae, il monaco che è stato in prigione quasi trent’anni, che cos’è per Roberto quella cella isolata? Una volta trascrisse in epigrafe a un suo testo una sentenza (se non ricordo male del cardinale Sforza Pallavicino): “Th. C. vir qui omnia legerat omnia meminerat praevalidi ingeni sed indomabilis”. Ecco, l’uomo indomabile che vedeva in cella. Il corpo e il pensiero dell’uomo incarcerato e che aveva imparato a essere solo.

Roversi è anche stato un uomo “da laboratorio”: riviste, plaquette, riunioni e redazioni… Proprio un altro mondo, anche nell’editoria?

La sua lezione più importante, l’insegnamento che durerà nel tempo. Dobbiamo trovare nuove forme per altri contenuti, come allora nel 1960 nel «rifiuto del falso miracolo economico» e nello smascherare la falsità del Gruppo 63, e ora nel rifiuto farmacologico dell’anestesia generale, e ciò significa trovare un luogo riconoscibile per la nostra comunità, che si sottragga, ma nel contempo mostrandosi, cioè siano forme estranee alla esibizione spettacolare e violenta della nientità di produzione industriale, ma riescano ad attraversarle. Descrizioni in atto, per esempio, avrebbe avuto una diffusione esigua con Einaudi, Davico Bonino lo pregava di pubblicare con l’editore torinese, mentre è stata straordinaria la distribuzione con le copie in ciclostile spedite a chiunque ne facesse richiesta; sia chiaro che per far conoscere l’iniziativa Roversi non ha esitato a farsi intervistare da Valerio Riva su “L’espresso”.

Solo a partire da questa capacità consapevole può prendere corpo la volontà di far nascere un’editoria futura: si può e si deve lavorare ad un’editoria in grado di interrogarsi sulla fine della propria tradizione, ma in grado di studiarla con la ricerca, prepararla con la formazione, produrla con la saggistica, raccontarla con la narrativa. Altro che i premi letterari! Ogni autentico editore appartiene alla tradizione senza appartenervi.

Questo ci porta nel cuore di una questione: chi è l’editore? Stiamo andando verso un’epoca di apparente disintermediazione, dove i lettori – per dirla con Jaron Lanier – rischiano di diventare cittadini di seconda classe, a tutto vantaggio di un popolo di autori non-lettori, apparentemente liberi da vincoli, ma in realtà condizionati da algoritmi e da tendenze intercettate qua e là nella rete…

L’editore inventa qualcosa solo a condizione di non appartenere alla storia. Da una parte è erede di una storia economica, ma dall’altra è erede solo a condizione che tradisca la tradizione, e solo a condizione che interrompa la storia a cui appartiene e di cui è erede. Ogni editore ha l’obbligo di essere anacronistico per “giudicare” il proprio tempo. Se ci si adagia sull’anestesia contemporanea, e ogni epoca ne ha una, non può scoprire, né svelare nulla. Così come non inventerebbe nulla se si limitasse a aderire naturalmente alla tradizione. L’editore deve avere ragione sul tempo, il contemporaneo deve essere il suo spartito, ma non deve seguirlo, deve negarlo. Facile a dirsi, metterlo in pratica è più complesso… Ogni libro dovrebbe essere una nuova proposta pedagogica, cioè il contrario delle produzioni editoriali di massa che presuppongono in modo illusorio un cliente già determinato, cosicché finiscono per dare un corpo a questo non-lettore medio che hanno postulato. Il disastro è sotto gli occhi di tutti. Di tutti coloro che hanno occhi.

Roversi aveva già pubblicato con Feltrinelli, Einaudi, Mondadori, insomma gli editori migliori all’epoca, perché si è chiamato fuori?

Una volta mi raccontò della sua amicizia con Vittorini, Vitt. lo chiamava, e mi regalò il secondo numero di “Menabò” del 1960, se permetti lo leggo, dove Roversi si presenta: “La guerra mi portò, rovinosamente, lontano. Ero senza idee e senza forza; solo, senza “maestri” e ignorante; ignorante con disperazione, e consapevole. Seguendo con rassegnazione i bandi dell’otto settembre fui in Germania con la Monterosa; poi, in Italia, finalmente, coi partigiani piemontesi.

Non feci nulla; partii soltanto con tutte le forze, ma non più con rassegnazione. Ero a Savigliano, appostato col mitra, nella notte d’aprile, ed ascoltavo il passo dei tedeschi in ritirata, e il canto da cruco, duro, triste, che l’accompagnava; poi a Cuneo a sfilare davanti a Parri, con tutta la gente felice, in quei giorni che sono il più bel ricordo della mia vita.”

Ecco: se devo dire il suo maggiore insegnamento con i fatti e non con i proclami fu questo: “partire con tutte le forze, ma non più con rassegnazione”.

[Fonte: Vita, 4 agosto 2015]

[cite]

tysm literary review

vol. 21, issue no. 22

March 2015

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