San Francisco, 1906. Appunti per un’economia delle catastrofi
Marco Dotti
Noi tuttavia, che pur avevamo sofferto molti pericoli e altri
ne aspettavamo, neppure allora fummo sfiorati dall’idea di partire
prima di ricevere notizie del nostro caro
Plinio il Giovane, dopo l’eruzione del Vesuvio (79 D. C.)
Le vittime, stimate dapprima in poche centinaia, furono con tutta probabilità nell’ordine delle tremila. Soprattutto asiatici. Duecentoventicinquemila i senza tetto, il quartiere finanziario, scuole e ospedali ridotti in cenere, la popolosa Chinatown rasa parimenti al suolo, l’università di Stanford inagibile…
Ventotto mila edifici devastati, molti dei quali a causa di eventi secondari, come gli incendi che si svilupparono in seguito al terremoto. Per contrastarli, non fu lesinata dinamite, aggiungendo distruzione a distruzione.
Volonterose catastrofi
A pochi giorni dalla tragedia, un gruppo di volenterosi e tenaci editori diede alle stampe un instant book – circa quattrocento pagine e copyright registrato da Hubert B. Russell – che mescolava le prime testimonianze di sopravvissuti e soccorritori (survivors and rescuers), assemblando l’ancora fresca «storia dell’orrore» di San Francisco con la disinvolta rievocazione delle grandi catastrofi[1] – non da ultime l’eruzione dell’Etna, il terremoto di Lisbona del 1755, le calamità hawaiane e giapponesi, la devastazione di Pompei – firmata dal giornalista e geografo trentacinquenne Trumbull White.
Fatto non secondario, la Complete Story of the San Francisco Horror,[2] questo il titolo, si avvaleva della premessa di Samuel Fallows, notissimo autore di testi di divulgazione biblica, reverendo metodista passato proprio in quegli anni alla Reformed Episcopal Church.
Ogni terremoto, ogni catastrofe, ogni pestilenza ha prodotto, nell’Europa premoderna e nel planetario moderno, una messe incredibile di pamphlet, analisi storico-religiose sull’intervento fasto e nefasto della Provvidenza nella Storia. Il paradigma ricorrente, in questa ripetitiva e per molti versi ancora poco studiata produzione libellistica, è quello provvidenzialista che ha dato luogo a una annosa disputa sulla natura (radicale, umana o naturale) del Male.[3]
A tal proposito, lo storico svizzero François Walter è giunto ad affermare che «la lettura provvidenzialistica della catastrofe è consustanziale alla modernità».[4] Non è un caso, quindi, che nella sua visione millenaristica (seppur mitigata e in qualche misura “progressista”) Samuel Fallows abbia riservato grande spazio, ancorché in termini reattivi, all’irruzione della «Divine Providence» nel teatrino, se non proprio nel tempio dei commerci degli uomini: «”Dove era il vostro Dio benevolente?” E io rispondo: “Vive e guida le faccende umane”. (…) Gli eventi sono ordinati per il meglio, il male e le sofferenza che patiamo sono parti di un grande movimento condotto dall’Altissimo (Almighty power), sotto la direzione dell’Infinita Saggezza e Bontà (Infinite Wisdom and Goodness). La Creazione è opera perfetta. Il mondo in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili, non il migliore per talune individualità, in un dato e preciso momento,ma il migliore possibile nell’insieme. (…) Questa è l’affermazione di un ottimismo trionfante».
Toni, quelli di Fallows, che avrebbero certamente suscitato lo scherno di Voltaire, che da par suo proprio in seguito al terremoto di Lisbona scrisse Candide ou l’optimisme (1759), per dimostrare quanto l’eventualmente «unico fra i mondi» non fosse certo da annoverare tra i «migliori possibili».
Sovvertire il tempo ovvero modernità come catastrofe
Il terremoto abbattutosi su Lisbona nel novembre del 1755, però, non portò in primo piano “solamente” la potenzialità distruttiva della natura, ma costrinse anche «il pensiero europeo a rispondere del rapporto tra natura e civiltà».[5] Come si usa dire: non fu la fine del mondo, ma la fine di un mondo.
Quando un mondo crolla, chioserà a distanza di altri due secoli scarsi (ma venti anni dopo Fallows) il Settembrini della Montagna magica di Thomas Mann, non resta che fare come «Voltaire che in nome della ragione si ribellava contro lo scandaloso terremoto di Lisbona». Ma a quale scandalo si riferisce Settembrini? E perché “la Ragione” dovrebbe rivoltarsi contro una catastrofe “naturale”?
A entrare in crisi, con quella catastrofe (e a tanto allude Settembrini/Mann) furono soprattutto i modelli culturali che, semplificando, concepivano il globo come galeiano «orologio perfetto» e il mondo come leibniziano «migliore tra quelli possibili».[6] In fondo, se stiamo a quanto afferma Étienne Klein, fisico presso il Commissariato per l’energia atomica,[7] noi parliamo del tempo allo stesso modo in cui se ne parlava prima di Galilei.
Una cosa, però, è la pratica discorsiva che attiene al tempo, altra cosa è il regime di storicità, ossia l’ordine temporale in cui ci ritroviamo immersi. A questo doppio registro che, muovendo da piccoli indizi, fanno riferimento i presenti appunti.
Il sisma del 1755 si trasformò presto in uno shock, mettendo in ginocchio Lisbona, che non era una “città” come tutte le altre, ma un vero e proprio snodo di economia materiale e immateriale: grazie al suo porto si era infatti imposta come principale avamposto commerciale verso l’oceano per i traffici di uomini, merci e idee con il Nuovo mondo.
La catastrofe – non rientrava nella concezione del tempo una visione drasticamente escatologica e da deep ecology della Storia, visione intesa come fine integrale del pianeta – [8] ebbe quindi il suo inevitabile risvolto simbolico e materializzò, stavolta sulla terra ferma, il vecchio incubo del naufragio transoceanico che aveva segnato gran parte dell’immaginario, dei timori finanziari e dell’inconografia occidentale post 1492, quando si capì che, al contrario di Odisseo, da certi lunghi viaggi oltre le Colonne d’Ercole si poteva anche non fare ritorno. Alcuni decenni dopo ci avrebbe pensato la Rivoluzione giacobina a chiudere apparentemente i conti con lo “scandalo” , e alcune interpretazioni suggeriscono che la Révolution fu soltanto una scossa di assestamento di una rottura avvenuta a monte…
È indicativo quindi, sempre muovendosi a livello di piccoli indizi, che il terremoto di Lisbona occupi una posizione chiave anche nella struttura e nella strategia discorsiva altamente esemplare di un libello a prima vista minore come The Complete Story of the San Francisco Horror.
Se il reverendo Fallows si mostra preoccupato di capire quanti sermoni e preghiere furono sprecate nelle chiese di Scozia per placare la sofferenza e lenire il panico degli europei, l’analisi di White, oltre che sui furti, lo sciacallaggio tra le rovine e le ruberie (di disperati locali, finti soccoritori, speculatori e usurai, o della bassa plebe accorsa da tutta Europa), si incentrava sulla «Opulent and Populous Capital Destroyed».
In altri termini, a preoccuparlo erano anche il crack finanziario e l’eventuale assestamento sistemico (dal sisma al sistema, quindi) indotto dalla catastrofe, riletti nel prisma di un Eldorado alla rovescia. Assestamento, a questo livello, ancora determinato dalla logica dell’effetto domino: caduta una pedina (lo snodo commerciale, materiale e simbolico, di Lisbona; lo snodo finanziario e simbolico di San Francisco), il rischio era che cadessero anche le altre, con tempistica e modi differenti. Non si era ancora arrivati alla shock economy vera e propria, casomai a una economia shocked, ma la strada era stata presa, muovendo dalla constatazione degli effetti dell’onda su di un mercato (e su transazioni) al tempo già ampiamente globalizzate.[9]
«Opulent and Populous Capital Destroyed» era sì Lisbona ma, nell’attualizzazione e nella “presentificazione” del dato storico impliciti nella ricerca di White e nello spirito degli anonimi estensori della Complete Story of the San Francisco Horror, era soprattutto la città californiana. Jack London, che si recò immediatamente sul posto per un reportage (pubblicato il 5 maggio successivo sul “Collier’s”) esordiva: «San Francisco è perduta. (…) Danni per milioni di dollari». La conclusione era parimenti tragica: «San Francisco, in questo momento, è come il cratere di un vulcano. (…) Il governo ha in mano la situazione e, grazie agli immediati soccorsi giunti da tutti gli Stati Uniti, non esiste la minima possibilità di una carestia. I banchieri e gli uomini d’affari hanno già iniziato a fare preparativi per la ricostruzione». Il mondo non era finito, né a Lisbona, né a San Francisco. Il giorno dopo, era il giorno di banchieri e business men… «the bankers and business men hare already set about making preparations to rebuild San Francisco».
L’appropriazione fredda
Elemento cardine, quindi, è la presa di possesso, e la correlativa attualizzazione di una catastrofe (Lisbona) a fini euristici. Appropriazione fredda resa possibile dal’ampio segmento temporale (1775-1906) intercorso tra i due eventi catastrofici, oltre che dalla volgarizzazione di un discorso che segnò gran parte del dibattito sulle questioni di etica generale nel Vecchio Continente, qui “volgarizzato” ad usum delphini nelle pagine introduttive del reverendo Samuel Fallows e avvalorato dalle testimonianze anonime e dalla cornice storica (frame) traccita da White.
Come Lisbona, anche San Francisco era un luogo importante di traffici e commerci: gran parte di The Complete Story è incentrata sulla distruzione dei suoi centri finanziari e sulla castrofe intesa come rigenerazione “compassionevole” dopo l’intervento della Provvidenza dell’elemento-umano (gli operatori di banca o di cambio, gli investitori e i notabili) di quei medesimi centri.
Agli occhi dei predicatori riformati, San Francisco appariva infatti una città depravata, novella Sodoma con case da gioco e di piacere, città da redimere attraverso una violenta epifania del Bene: ciò che gli uomini qualificano come Male, è una conseguenza dei loro atteggiamenti e comportamenti, non necessariamente una punizione, ma una scossa – shock – extrasistemica che li induce a cambiare rotta. Per quanto arcaici, paradigmi e modelli simili servirono per leggere, per spiegare e persino per giustificare catastrofi e guerre, quanto meno fino al Secondo conflitto mondiale (una ripresa si è registrata negli Usa di Reagan e dei due Bush, sia dal punto di vista bellico esterno – l’asse o l’impero del Male, Cernobyl e il crollo del 1989 – sia sul fronte interno, con la peste del XX e XXI secolo, di volta in volta identificata nell’Aids o nel terrorismo).
«Nemmeno Mario, seduto tra le rovine di Cartagine ebbe davanti agli occhi uno spettacolo simile a quello che si presentava alla popolazione affranta di San Francisco, in mezzo alla cupa penombra generata dalla coltre di fumo alla fine del secondo giorno»:[10] questo invece è l’incipit della sezione anonima di The Complete Story of the San Francisco Horror.
Il fuoco, le case distrutte, l’acqua che scarseggiava ovunque: «La splendida città del Golden Gate era destinata a sparire dalla faccia della terra. (…) Non c’era più il quartiere degli affari: era scomparso. Non c’era più una zona degli alberghi, una zona dei teatri, un posto dove la Notte invitava al piacere. Era scomparso tutto. Non esisteva più un centro. Non era rimasta in piedi nemmeno una banca. Non c’erano più uffici di cambio, assicurazioni, ditte di intermediazione finanziaria, agenzie immobiliari: tutto ciò che un tempo rappresentava il cuore economico della città e la sua forza industriale».
La gente di San Francisco, sconvolta, «vagava per le strade in uno stato di patetica impotenza, si sedeva in mezzo alla proprie cose sparpagliate tra le macerie fumanti», spinta a un tale livello di disperazione da essere oramai «insensibile e rassegnata: la città che le si dissolveva sotto gli occhi non aveva più nessun significato».
La descrizione appare straordinariamente simile a quella tramandataci da Plinio, sulla popolazione inebetita e in fuga dopo l’eruzione del Vesuvio, nel 79 d.C.
Nel trattare del Vesuvio e della distruzione di Pompei, servendosene anche in questo caso come fosse un “segnale” anticipatore delle vicende di San Francisco, Trumbull White non poteva esimersi dal ricorrere alla figura di un testimone oculare, «Eye-Witness of the Disaster», citando le due lettere scritte proprio da Plinio il Giovane allo storico Tacito, che gliele aveva richieste per servirsene nelle sue storie.
Altro piccolo indizio che, al di là della rilevanza storica, segnala una certa buona disposizione retorica degli autori della Story of the San Francisco Horror e dell’humus sociale di cui si fanno voce nei confronti di “chi ha visto”, di “chi c’era”, di chi “era sul posto”.
Nel 1906, siamo ancora nelle fasi del giornalismo eroico, senza media di seconda, terza o ennesima generazione e potenza, dove il reportage e la raccolta delle voci (di corridoio o di strada) ha una sua rilevanza intimamente documentaria, non solo spettacolare, e attiene a una ricostruzione o casomai a un presa di possesso fredda degli eventi, non ancora alla loro integrale costruzione tramite processi di simulacro e pratiche di un falso contestuale e oramai generalizzato.[11]
appunti presi a L’Aquila, 30 aprile 2009
Note
[1] Il termine usato da White è, per la precisione, «disaster». Come osserva François Walter, «la lingua inglese preferisce usare l’espressione natural hazards che, al contrario del termine generico di catastrofe, rimanda più esplicitamente a una prospettiva di storia naturale. La lingua di Shakespeare distingue assai abilmente risk da hazard. Quest’ultimo è la minaccia potenziale che pesa sulle società umane, mentre il rischio è la probabilità dell’occorrenza dell’hazard. Se si attraversa l’oceano a bordo di una nave o di una barca, l’hazard di morire annegati è lo stesso in entrambi i casi, ma il rischio (cioè la probabilità che questo accada) è nettamente maggiore nel secondo. Quando questo accade, si parla di disaster (catastrofe), ovvero di una concretizzazione dell’hazard. Il concetto corrisponde, dunque, a quel che l’italiano chiama pericoli o alee (eventi imprevedibili) della natura e presuppone un approccio in termini di interazione tra l’ambiente e le società umane. Esistono delle alee naturali, da un canto, e una vulnerabilità delle società, dall’altro, che in talune circostanze interagiscono e si trasformano in catastrofe» (Catastrofi. Una storia culturale, traduzione di Angela Tomei, Angelo Colla editore, Costabissara 2009, p. 15).
[2] Si cita dalla ristampa del 2003 da parte delle edizioni Book Tree.
[3] Cfr. Susan Neiman, Evil in Modern Thought: An Alternative History of Philosophy, Princeton University Press, Princeton 2004, II edizione.
[4] François Walter, Catastrofi. Una storia culturale, cit., p. 35.
[5] Fulvio Papi, Il lusso e la catastrofe, Ibis, Como-Pavia 2006, p. 90.
[6] A mandare in crisi questa concezione, già incrinata dalla catastrofe, ci pensò Voltaire, con il suo Poème sur le désastre de Lisbonne del 1755. Cfr. Andrea Tagliapietra, La catastrofe e la filosofia in Id., (a cura di), Sulla catastrofe. L’Illuminismo e la filosofia del disastro, Bruno Mondadori, Milano 2004.
[7] Étienne Klein, Le strategie di Crono, traduzione di Antonio Perri, Meltemi, Roma 2005.
[8] Fulvio Papi, Il lusso e la catastrofe, cit., p. 91.
[9] Cfr. Immanuel Wallerstein, Il sistema dell’economia mondiale moderna. III: L’era della seconda grande espansione dell’economia-mondo capitalistica, 1730-1840, traduzione di Barbara Bellini, Il Mulino, Bologna 1995.
[10] Anonimo, La storia completa dell’orrore di San Francisco (1906), traduzione di Martina Testa, in Simone Barillari (a cura di), Catastrofi. I disastri naturali raccontati dai grandi reporter, Minimum fax, Roma 2007, p. 41.
[11] Cfr. l’importante contributo di Raoul Kirchmayr, “Estetica dell’hoax”, aut-aut, n. 336 (ottobre-dicembre 2007).
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
vol. 28, issue no. 28 september 2015
issn: 2037-0857
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