philosophy and social criticism

L’ importante è sparire. Incontro con Enrique Vila-Matas

Marco Dotti

C’è sempre una morte, un’estinzione, una scomparsa nei romanzi del catalano Enrique Vila-Matas. Il fatto che questo diffuso e autoironico contesto da vigilia della fine del mondo sia legato a figure che coltivano l’incubo (o il sogno, dipende da dove lo si guarda) di un’opera senza scrittura, come in Bartleby e compagnia (Feltrinelli, Milano 2002), all’omicidio di prosatori di bassa lega come il Vidal Escabia dell’Assassina letterata (Voland, Roma 2004) o all’immedesimazione radicale nel destino di Robert Walser del Dottor Pasavento (Feltrinelli, Milano 2008), protagonista dell’omonimo romanzo, accresce e non diminuisce la portata autoironica e a suo modo irriverente di Vila-Matas. Nato a Barcellona il 31 marzo 1948, poligrafo scopritore di luoghi e non-luoghi dell’insolito letterario, Enrique Vila-Matas è considerato oramai un “classico” tra i più noti, apprezzati e tradotti di lingua castigliana.

«Che cosa resterà di tutta questa miseria», si chiede il Beckett dell’Ultimo nastro di Krapp, da lei citato a più riprese, anche in un libro complesso come Dublinesque (traduzione di Elena Liverani, Feltrinelli, Milano 2010). Potremmo dire lo stesso della letteratura? Quella letteratura che Samuel Riba, l’editore protagonista del romanzo, ritiene essere al suo stadio terminale?


Penso spesso a Joseph Roth, autore che mi colpisce molto. Mi colpisce in particolar modo una figura, al centro della sua Cripta dei cappuccini: quella dell’uomo che incarna la fine, condensando tutti gli umori dello sfacelo che lo circonda. Allo stesso modo, ci sono uomini che incarnato la fine della stirpe, la fine del loro tempo, la fine di un’epoca. Quest’epoca agli sgoccioli, secondo il Riba di Dublinesque, porta con sé e in gran parte coincide con la fine della letteratura e del suo “senso”. I nostri giorni sono segnati, in questo ambito, dalla diffusa percezione di qualcosa che sta radicalmente mutando. Si parla, infatti, della fine dell’era di Gutenberg e di un tipo umano che ha segnato il Novecento: l’editore letterario. Pensiamo a Kurt Wolff, l’editore di Franz Kafka, che stava al fianco dello scrittore, considerando che per lui l’artista e il “genio” erano tutto. Oggi un Kurt Wulf non sarebbe altro che un disadattato espulso da un mercato grigio e indifferente. In ogni caso, questa fine di cui Riba è immagine e segno, è una fine epocale, è a modo suo una fine del mondo.

È una fine che, potremmo dire, avviene senza schianto o coup de théâtre, tra le risate degli uni e il piagnisteo degli altri…


La vita è sempre tragicomica, non è cosa semplice districare il tragico che si cela nel comico e il comico che si traveste con i panni della tragedia. Per questa ragione, una descrizione di questo stato agonizzante del nostro tempo doveva essere condotta attraverso la lente della parodia. Sono state scritti migliaia e migliaia di testi, libri, poemi sulla fine del mondo. Gli uomini si credono e si sentono sempre contemporanei o prossimi della fine di un mondo. Questo mondo che finisce e di cui tratto in Dublinesque è esemplificato dal “piccolo” mondo dell’editore letterario, che non è un “mondo minore” come si potrebbe credere, perché trascina con sé altri “piccoli” mondi in un processo di erosione complessa del nostro sistema. Questo non significa che la letteratura sia “morta” e, soprattutto, sepolta per sempre. La morte di questo sistema editoriale, di questa sistema anche valoriale, porta sì alla scomparsa della letteratura ma per riconsegnarcela in forma nuova, diversa, rinnovata. Non so se “migliore”, questo mi interessa poco, ma ciò che mi interesa è ribadire che se parlo di morte della letteratura non è per esercitarmi in un bizzarro esercizio di nichilismo postmoderno. Spesso parlo di scomparse, nei miei libri, ma quando parlo di qualcosa o qualcuno che scompare – come il protagonista del mio Dottor Pasavento, che un giorno prende un treno e scompare– è per farlo meglio apparire.


Nel Dottor Pasavento lei scrive che le rovine riconducono sempre a qualcosa che non è scomparso del tutto. Ciò che scompare è destinato a scomparire solo a metà, e quindi a ricondurre sempre a una presenza, per quando anomala o indesiderata. Ciò che appare non è mai solo ciò che appare. Nei suoi romanzi lei mischia di continuo realtà e finzione, personaggi reali con vite inventate, vite realmente e rialisticamente vissute su personaggi irrealistici…


Il punto è che non si danno frontiere tra la realtà e l’immaginazione. Spesso parlo di me nei miei libri, facendo pura finzione. Ma anche nella vita, quando parlo di me, mi esercito in una finzione. Siamo sempre in comunicazione con l’altro, e questo altro è spesso un altro fantasmatico, un altro da noi, ma è anche un altro che ci invade, ci travolge, ci porta sempre più in là rispetto al punto in cui crediamo di essere.

Oggi, però, c’è una retorica non da poco sul “valore” del reportage letterario, con poca ironia e, soprattutto, autoironia da parte di giovani autori alle prese con i loro esercizio di egocentrismo e “verità”… Si ha quasi l’impressione che la realtà serva da teatrino per il gioco di un ego teatralmente smisurato…


Wallace Stevens diceva che la realtà è una corruzione della realtà. Dove cercare la realtà, dunque, se nella realtà c’è ben poca realtà? La questione è complessa, ma oltre a essere complessa è divertente. Se penso penso, ma se parlo di me, nei miei libri, ne parlo perché quell’ “io” diventa sempre un altro, quando è sulla pagina. La vecchia, ma mai invecchiata formuletta magica di Rimbaud è quanto di meglio si possa dire sulla questione: “Io?”. Risposta: “Je est un autre”. I giovani dovrebbero tenerne conto, se gli va. Altrimenti peggio per loro. Oggi si parla molto di docufiction e di realtà letteraria, ma questo che cosa significa? Che tutto ciò che non è docufiction rientra nel campo del surreale? Esiste davvero qualcosa di surreale in arte? E la realtà? Non è forse surreale essa stessa? La vita è sempre un montaggio.

Quali autori che predilige?


Amo Sebald, Coetzee, Nabokov. Ad esempio, tornando alla realtà e alle sue mille pieghe e contropieghe, Coetzee ha rinuncia a scrivere una “vera” autobiografia, scrivendo quella che in francese si direbbe una autre-biographie. Io quando scrivo di me, collocando frammenti autobiografici in contesti assolutamente estranianti (come in Parigi non è per sempre) parlo di cose vere, che diventano “finzione” per il contesto in cui sono inserite. Ma il principio a cui io credo ci si debba attenere è che ognuno dovrebbe scrivere ciò che vuole scrivere sulla propria vita, anche inventandosene una, o più di una. Se lei adesso uscisse di qui e, rientrando, mi dicesse: “Caro Vila-Matas, ho appena preso un caffè con Pier Paolo Pasolini”, io non avrei dubbi a crederle, tutto è possibile nella vita. Tutto.

Proprio tutto?


Tutto. In questo tutto può rientrare anche la ricerca della “verità”. Ma la verità non è affare da poco, e non sono tanti quelli che sono riusciti a mettersi in cammino su questa strada: Kafka, Cervantes, Musil, Beckett. Hanno cercato la “verità” servendosi della finzione.

Francis Ponge sosteneva che la poesia è la scienza sperimentale più avanzata, perché – come il sogno per i Discepoli di Sais di Novalis – permette di vedere il volto di Iside, senza toglierle il velo e cadere vittime dell’ira degli dei… La letteratura permette sperimentazioni sullo sperimentatore stesso, lo scrittore…


Interessante pensare a una sensibilità a un comune sentire che oltrepassi, pur pervadendolo, il mistero delle nostre esistenze individuali. Kafka, Cervantes, Musil, Beckett: scrittori che si sono avvicinati a questa “realtà”, molto più di tutti coloro che si sono autoproclamati paladini di un realismo malinteso.

Nei suoi libri, vi sono molte figure che – tra realtà e finzione, appunto – incarnano meglio di altre la disposizione a ricomporre un quadro comune, di sentire comune come dice lei. Uno di questi è Georges Perec, che lei ha affrontato più volte, e che dà anche la chiave per osservare quanto e come sia importante la dinamica “urbana” nei suoi lavori. Talvolta è Barcellona, talaltra Parigi, ora la Dublino di Dublinesque...


Le città racchiudono storie. Anche storie letterarie, ovviamente. Ma ci sono città, come Dublino, che racchiudono interi universi, e ripercorrerli significa ripercorrere una linea molto articolata e complessa delle nostre vicende di pensiero. A Dublino, ad esempio, abbiamo avuto l’epifania di Joyce e l’afasia di Beckett… L’apice – Joyce – e la disintegrazione – Beckett, che di Joyce era stato segretario – di questa dimensione letteraria. Per quanto attiene Perec, devo dire che il suo Specie di spazi è un testo per me chiave e fondamentale. Mi ha insegnato come andare in una città, conoscerla a fondo, perimetrarne strade e vicoli, senza esserci mai stato… Ah, la realtà delle cose! Vede come ritorna? Ora sto lavorando a un nuovo romanzo, Dr. Finnegans e M. Hire. Se il Finnegans di Joyce rappresenta la letteratura cosidetta “sperimentale” (termine anche questo da consegnare alla cassetta con cui l’editore Riba se ne va verso la fine del suo mondo), il signor Hide di Simenon simboleggia tutto ciò che nella letteratura “tradizionale” era comunque “di qualità”. Simenon riuscì a eliminare ogni orpello, ogni superfetazione, ogni eccesso, anche per velocizzare la sua scrittura. Tento di scrivere più romanzi che poteva, arrivò a ridurre i tempi in maniera impressionante, in questo è il doppio, non l’opposto della compagnia dei Bartleby letterari. In poche righe, Simenon crea un mondo. Il mio problema è dunque, data la fine di un’era, l’era Gutenberg: come far leggere Finnegans inserendolo in mr. Hide? Come vede, siamo sempre agli incastri. Che lo si voglia o no, è lì che ritorniamo. L’essenza della letteratura, scriveva Blanchot, non è mai qui, bisogna sempre cercarla altrove, trovarla o inventarsela di nuovo.

[da il manifesto. 5 settembre 2010]


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