philosophy and social criticism

Il lento passare del mondo

Andrea Ponso

Cesare Viviani, Passanti, Mondadori, “Lo Specchio”, Milano 2002.

L’uscita, successiva a Silenzio dell’universo, di Cesare Viviani, segna un passo sicuramente importante nel percorso intrapreso da questo poeta che, come vedremo, la casella stessa appunto di “poeta” in realtà non soddisfa appieno. In realtà, lo stesso Viviani, nella nota a fondo libro, ci fa sapere che i testi raccolti in questo Passanti sono stati composti nello stesso arco di tempo che lo impegnava all’ascolto di quel movimento poematico così controverso e spiazzante (poichè metteva in discussione molte delle arginature estetiche e, diciamo, “artistiche” attraverso le quali si è soliti giudicare  – termine per altro poco pregevole – un opera) indicando così, almeno pare a noi, anche una istanza profonda di tutte le strategie più recenti di questo autore. Il fatto cioè che la verticalità davvero mistica e direi quasi monacale (nel senso etimologico e non solamente religioso che un tale termine può avere), insomma la postura che un tale ascolto richiede, il rapimento che un cammino simile presuppone  –  non comportino, a ben vedere, un allontanamento semplicistico o di rifiuto del mondo e del reale, come invece si sarebbe portati a credere: allora, la scrittura poematica, per sua natura alta e orante, fiorisce e si sviluppa contemporaneamente a quella per frammenti, più legata alla finitudine e al basso continuo e magari indistinto di una natura e di una mente che, pur sviluppandosi in un movimento che forse con qualche azzardo potremmo definire “gotico” non rinuncia alla piana semplicità del “romanico”.

Il momento di assoluta immersione o di parallela ascensione ci pare presupponga sempre, in Viviani (come del resto in gran parte delle pratiche meditative orientali) un ritorno, una riemersione, una nuova e chiarissima orizzontalità: una superficialità, vorremmo quasi azzardare, come territorio nel quale ogni “fuga”, ogni costruzione del pensiero, ogni movimento, sono preclusi. Una limpidezza senza scampo. Uno scoprire, con gioia e terrore insieme, che le immense volte azzurre o gli incarnati evanescenti dei cherubini, sono fatti della stessa pasta, dello stesso pigmento materico e sordo che si attacca alle nostre deboli mani, della stessa opacità.

E, a ben vedere, tra questi versi (ma già era successo nella produzione precedente di Viviani, ci pare proprio a partire da Preghiera del nome) il termine appunto di opacità acquista un valore del tutto particolare.

E’, innanzitutto, quella che percepiamo, una sorta di “azzurra monotonia”, di basso continuo, anche proprio come intonazione del canto e della voce (che potrebbe ricordare le movenze del gregoriano, ma di un gregoriano assolutamente terreno e materico, nel suo essere abbraccio e debole comunità)  –  che tuttavia il pensiero del movimento e del mutamento continuamente contraddice e cerca di verificare: questa incorreggibilità, così umana, del pensiero: “Il pensiero del cambiamento è incurabile, […] non trova l’opacità perenne degli alberi, / la fissità inalterabile delle radici”.

Questa sorta di immobilità, pure attraversata da spostamenti continui, che coincide con l’assoluto e piano rigore linguistico (anch’esso dedito all’opacità e proiettato verso un’etica della parola che non sia fuga o mera consolazione estetica dell’autoriconoscimento), ci pare possa essere avvicinata ad un sentimento particolare di estasi: un’estasi che “non si sa” , e che quindi non può approfittare della propria condizione, non può essere resa fruibile, non se ne possono cogliere i frutti; è l’estasi piena, che può essere quella di un cadavere o di un nome  –  è la fine, insomma, della narrazione, di fronte alla purezza del nome, alla inattaccabilità da parte dei significati (tema fondamentale, questo del nome, in tutta la produzione di Viviani).

E’, come lo stesso Viviani ricorda, ” … la vita / immediata, a continuare da sé, senza insegnamento, / senza temi, senza musica ” : ed è proprio questo che si cerca di nascondere, che l’attenzione non vuole sentire  –  e lo si seppellisce, come si fa con il cadavere, oppure lo si inserisce nella giostra variopinta di una storia, o tra le volte calde e accoglienti di un sipario  –  e così,  ” … compare la retorica e si sovrappone / con l’ordine e il disordine, / sottrae luce per illuminare, rompe il silenzio / per delibare i suoni”.

Ma certo, quello di Viviani, non è un atteggiamento agonistico o tragico di fronte a questo movimento: infatti, l’assoluta mancanza di fondamento, che fa di tutto il creato un puro flatus vocis (con tutto lo spessore materico e concreto che appunto una voce può avere) non permette nessuna dialettica; anche la tragedia è accantonata, come stadio estremo dell’autoriconoscimento (pure catastrofico) del soggetto. Non c’è nemmeno la “costrizione”, pure dolcissima, dell’entusiasmo  –  e tuttavia, ogni “errore”, ogni tentativo di ristabilire, diciamo così, l’impostura, il “teatro rionale”, non viene combattuto, ma accolto, accettato nel suo movimento splendido e finito, in tutta la sua vanitas, proprio perché non c’è alcun fondamento e, quindi, alcuna dialettica che non sia mero gioco (con tutta la serietà che il gioco presuppone, così diverso dallo scherzo … ), ” … sponda di riflessi delicati, argentea “. Come già nel precedente libro, nemmeno l’amore resiste, anch’esso viene svuotato di fondamento e riabitato, come una casa d’aria … pensiamo, solo per fare un esempio, all’amore morto di Maria Maddalena de’ Pazzi, quell’amore che “nulla vuole e nulla brama”.

Così, le esperienze del vuoto e dell’immobilità non vengono assolutizzate ne per così dire tesaurizzate, e nemmeno quindi allontanate, ma al contrario calate nella biada e nella pastura dei giorni, ai confini dell’ebetudine e dell’idiozia (ricordiamo, di questa parola, gli echi non casuali nel zanzottiano Idioma): ” Con l’effigie assorta, inebetita / era l’assoluto che si mostrava, / proprio quel gesto opaco  –  e nulla traspariva  – / da autista affamato” , e proprio tra quelle quinte posticce, tra quei fondali che simulano una distanza e una buia profondità (quanto abitabile e gestibile, in fondo, quel buio … quanta premeditazione in ogni sua strategica invocazione), una storia e una progressione.

In questo senso forte e del tutto particolare dell’immobilità e della superficie, ci pare di ricordare l’assoluta e piana impenetrabilità di un testo biblico “anomalo” come quello del Cantico, dove azione, sapienza e profezia sembrano totalmente inibite: insomma, “non succede niente”, “non c’è pensiero”, nessun fondamento. Ma tutto è li, e siamo forse noi che, da una prospettiva utilitaristica e legata ai meccanismi della tecnica, siamo abituati a dividere tra visibile e invisibile, vero e falso, detto e non detto, in una sorta di riscatto iroso, facendo delle parole “semplicità” e “praticità” due sinonimi.

L’illusione del movimento e della produttività, dicevamo, alla quale questa poesia non si contrappone ma svuota dall’interno  –  questo tema ci porta, da pagine apparentemente del tutto sganciate dalla società, ad una riflessione che coinvolge ogni singolo spazio gestito dal capitale, ogni minima parcellizzazione, fino alla fisiologia; ci vengono alla mente le parole spese su questi temi da Jean Baudrillard ne Lo scambio simbolico e la morte, dove appunto l’intero sistema veniva visto come un codice che si autoriproduce come creazione fantasmatica di un ruolo e di un movimento, di un luogo e di una perenne occupazione, simulata la stessa produttività e il valore d’uso della forza lavoro.

Il linguaggio, in questa sua assoluta “incapacità” di dire il fondamento, ma solo di nominare e quindi mettere in evidenza solo relazioni transuenti oppure la stessa inattaccabilità dell’evidenza  –  in questo suo handicap, dicevamo, scopre la sua più grande e riposta possibilità : abbandonarsi a questa incapacità linguistica significa davvero acquisire la leggerezza (e l’opacità) dei passanti, lo sgonfiamento del dolore dovuto ai tagli netti inflitti per creare dei profili e dei caratteri credibili (delle identità), per forgiare le maschere che siamo, i reciproci inturgidimenti delle carni e dell’amore.

In una scrittura del genere, la vita non è rintracciabile, non fa ansa, non si concentra e non fa peso: la vita diventa invivibile eppure pienamente accettata, sciolta in aria. E siamo, non ci pare di sbagliare, nei paraggi di un modo di affrontare lo scritto che per molti versi si avvicina allo stadio dell’oralità (anche se, per altro verso, Viviani ha sempre dimostrato di tenere in grande considerazione il segno immobile, cadaverico, della scrittura) e che quindi in qualche modo scantona il giudizio estetico, proprio perché la partecipazione all’immediatezza della voce non permette lo spazio staccato e pulito del giudicare e del “pensiero” (sfiorando la stessa “assenza d’opera” o sicuramente assenza di autore) ma piuttosto la partecipazione passionale del sentire, dinamico-patica, priva di separatezza, e quindi priva di giudizio (ecco anche perché si potrebbe parlare di un tipo tutto particolare di preghiera o comunque di meditazione).

L’invenzione dell’essere insomma, parrebbe proprio il frutto della copula, sia essa di discorso o sessuale, e l’entrata nella dialogicità il modo per favorire quel lavoro di costruzione, produzione e movimento (narrazione) per Viviani tanto deprecabile e vuoto,  quanto umanamente accettabile. In effetti, il procedere stesso della frase, della linea logico-scrittoria del discorso non farebbe altro che ampliare e direzionare una tale “simulazione”, e la poesia, certo, con il suo spezzare continuamente tale linea, non farebbe altro che incidentarne il percorso, mostrandone la dolce e catastrofica impostura, poiché è un tale percorso che porta alla morte: “Niente va altrove / di questa vita finita, e non c’è la fine “.

Questo non voler andare a capo, serissimo, è anche “verso”: fa il verso –  fare il verso a se stessi (al proprio io, che non esiste altrimenti che nel racconto) e alla propria storia: e qui ci pare che Viviani tocchi anche i registri di una particolarissima ironia, come un oltre del tragico, in un gioco di voci che si rincorrono e che luccicano proprio tra i cardini delle loro stesse imposture: ci piace pensare a Gioacchino Rossini.

Questo perdere anche la morte, come luogo radicale e ulteriore del fondamento, non è certo un passo avanti in un tentativo di recupero consolatorio della speranza o della garanzia soggettiva: che non ci sia morte, non è certo una conquista, poiché, se non c’è morte non c’è nemmeno narrazione, direzione, discorso, progressione frastica o illusione di progresso, di movimento …

Allora, cosa rimane? ” Il grido attraversò il buio / fino all’altra sponda / o nemmeno sfiorò / lo spessore della notte, né l’invocazione / né la divinità poterono fare nulla / con l’aria impenetrabile  –  tanto sfiorì / una vita / tanto chi doveva sentire / non sentì”. Rimane l’aria, ci verrebbe da dire, il suo “commuoversi”: un “muoversi con” che, in tale movimento non ha impuntature egotiche e che diventa quindi, da passante, un vibrare all’unisono (ecco, ancora le vicinanze con la figura dell’orante), luminosamente indifferente.

L’aria è il passare del mondo e delle esistenze tutte “a fil di voce”: trafitte e salvate in questo loro svuotamento, nella materia sonora e tutta terrestre del canto e della nominazione, nella semplicità che può avere un cibo, un nutrimento.

La natura, in questo movimento, mostrerebbe tutta la sua crudeltà, il suo procedere cieco e indifferente, disumano: “Lasciata a sé non pare / perché c’è il vento che la porta, l’aria, / o almeno il pensiero, pensata / lasciata a sé. Ma invece / è lasciata a sé, nessun occhio presente, / nessun ricordo acceso, / nessuna mente” ; un procedere visto come tale solo da chi ancora si strugge nell’appartenenza e nel fondamento, da chi non è un passante.

E ci pare di percepire, pure in profondità e magari con coloriture diverse nell’opera di Viviani, la presenza della radicalità leopardiana, in una delle sue più sincere manifestazioni.

Per concludere invece ci pare giusto riportare una sensazione che attraversa il lettore con sottile insistenza, soprattutto il lettore abituato anche alla scrittura: ci sembra che le unghie angosciate di chi si aggrappa (di chi non cede alla piana “spossatezza” di questi versi), le “unghie dello stile” piano piano si ritirino  –  e chi legge, anche se non può seguire pienamente il movimento (che paradossalmente coincide con l’immobilità) di questi passanti fino al parapetto, staccandosi dalla presa, può comunque rendersi conto di quella tensione che lo invade in ogni momento (e che di solito non si percepisce chiaramente), quella tensione che gli fa stringere i muscoli delle braccia e irrigidire quelli del collo, persino la penna tra le mani, per affondare a vuoto, smarrito  –  le unghie nel canto.

Ecco, abbiamo anche noi, sicuramente, ceduto alla presunzione del movimento e dello sguardo staccato, salvato: le nostre stesse unghie hanno cercato di limare, di portare via qualche pezzo di carne, di provare qualche appiglio  –  e invece ideale sarebbe forse il massimo di non reciprocità, di due silenzi che si incontrano smemorati  … oppure no, è giusto questo lavorio, questo sfoggiare le proprie armi e i propri puntelli, osservarne i riflessi e trovarsi nudi e immobili, ma in uno sfolgorio dolcissimo e vano di gesti e di vesti, di discorsi e di bardature.

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ISSN:2037-0857