Corpo teatro
Jean-Luc Nancy
Edipo si cava gli occhi, non si taglia la lingua e, mentre si rammarica di non potersi rendere sordo, parla ancora, parla ancora di più, recita la litania dei suoi delitti proprio mentre dichiara che parlarne è tanto vergognoso quanto commetterli, e la tenuta del suo discorso è contemporaneamente la tenuta dell’unica dignità che gli resta.
È questa grandezza se non altro, che ci figuriamo di aver perduto, che forse abbiamo effettivamente perduto o che forse ha cominciato a perdersi già nel passaggio dal culto alla tragedia. È questa grandezza che manca alla “tragedia” moderna di un’intera civiltà che non riesce in alcun modo a trovare una santità nella sua miseria e che non sa più in che cosa consista ciò che essa chiama la dignità dell’uomo, quel valore assoluto che, da quando è stato inventato, cioè da Kant in poi, non si sa quanto valga oppure viene continuamente fatto oscillare tra il buon e il cattivo infinito. (…) Dicendo addio al mondo, agli dei e a se stesso, Edipo può ancora conferire a se stesso la dignità di questo addio. “Dopo la tragedia” vuol dire invece “dopo la cerimonia degli addii”“. Cioè anche dopo quella scintilla e quell’istante di tenuta, la cui perdita o la cui rappresentazione della perdita organizza ciò che non possiamo più chiamare la nostra tragedia, ma il nostro dramma o la nostra desolazione. (…) Da una parte dovrebbe essere chiaro che, così come la tragedia non ha risposto alla fine del sacrificio ritornando ad esso ma spostando la totalità del sacro, noi non possiamo fare ritorno alL tragedia – un ritorno la cui tentazione continua tuttavia a ossessionarci. E nostro compito trovare il nostro addio alla tragedia, con stesso movimento con cui dobbiamo reinventare una grandezza, una dignità o ciò che può sostituirle – a meno che non siamo sicuri del peggio.
[tratto da: Jean-Luc Nancy, Corpo teatro, a cura di Antonella Moscati, Cronopio, Napoli 2010]