Crisi delle relazioni e crisi dei paradigmi (due film esemplari: Miserere e Belle Epoque)
di Giulia Zoppi
MISERERE, OIKTOS
Regia di Babis Makridis. Un film con Yannis Drakopoulos, Evi Saoulidou, Nota Tserniafski, Makis Papadimitriou, Titolo originale: Oiktos e per il mercato anglosassone Pity. Genere Drammatico – Grecia, Polonia, 2018, durata 97 minuti, distribuito da Tycoon Distribution.
LA BELLE ÉPOQUE
Regia di Nicolas Bedos. Un film con Daniel Auteuil, Guillaume Canet, Doria Tillier, Fanny Ardant, Pierre Arditi. Titolo originale: La belle époque. Genere Commedia – Francia, 2019, durata 110 minuti, distribuito da I Wonder Pictures
Babis Makridis appartiene alla nouvelle vague greca che si è imposta negli ultimi anni e di cui fanno parte Syllas Tzoumerkas e il più noto Yorgos Lanthimos. Ed è proprio al primo cinema di quest’ultimo, si pensi a Dogtooth, che il Miserere di Makridis si ispira; non è un caso che a firmare la sceneggiatura sia proprio Efthymis Filippou, già co-autore dei maggiori lavori lanthimosiani. L’orizzonte tematico non si discosta di molto dall’ opera citata, tornando a raccontare con il consueto approccio asettico la figura del professionista benestante – il “borghese” del secolo scorso – dentro il quale si nasconde un potenziale mostro pronto a scatenare l’orrore.
Nicolas Bedos, dal canto suo, rappresenta la nuova leva cinematografica francese, non senza aver raccolto dissensi e polemiche in patria, specie per un temperamento spocchioso e un atteggiamento sprezzante, al quale non sempre riesce ad opporre un talento altrettanto costante.
Il tempo dirà se entrambi questi due “nuovi” autori riusciranno a mantenere un buon livello di creatività, ma soprattutto, se avranno il coraggio di mostrare intatta la capacità di entrare dentro tematiche calde e conturbanti come in questi due film sono riusciti a fare, seppur a mio parere, con esiti diversi, direi opposti.
Crisi delle relazioni e crisi dei paradigmi
Questo titolo allude ai protagonisti di entrambe le pellicole. Nel film greco, a fare la parte del protagonista è un avvocato senza nome (l’indistinto/ innominabile è una cifra del cinema che sfugge alle classificazioni standard) che vive in una bella casa sul mare con il figlio ed una moglie che a causa di un incidente, è in coma. Sin dalle prime immagini comprendiamo il tono che Makridis intende dare alla sua pellicola. Essa vira infatti, dall’iperrealismo al grottesco, per giustificare al meglio e senza ambiguità, il comportamento alquanto peculiare del nostro padre di famiglia. L’uomo ogni mattina e appena si presenta l’occasione, scoppia in pianti disperati per rimarcare l’angoscia per le sorti della moglie, anche se i suoi insistiti e roboanti singhiozzi suonano artificiali, come artificiale è tutto ciò che si trova intorno a lui…(tanto da far dichiarare all’autore che l’intento era quello di restituire un personaggio ed un contesto paradigmatici, esemplari e quindi volutamente non realistici).
Scopriamo ben presto che tale atteggiamento vittimistico ha il solo scopo di attirare la pietà altrui, insieme al desiderio spasmodico di far convergere su di sé l’attenzione di chiunque lo circondi, attenzione senza la quale il suo teatrino quotidiano perderebbe di senso.
Yannis Drakopoulos, l’ottimo interprete del film, riesce ad assumere alla perfezione una maschera attonita e stralunata (che tanto ricorda la fissità di un Buster Keaton), al servizio di un personaggio che, grazie alla divisione in capitoli che hanno la funzione filosofico/drammaturgica del coro greco, riassume la grande complessità in cui l’uomo contemporaneo è costretto e vivere, subendo atteggiamenti e modalità che ne sviliscono le migliori intenzioni e inducendolo a comportamenti inaspettati.
Risulta chiaro che il linguaggio scelto, la forma stilizzata e fredda della scenografia e della sceneggiatura, altro non sono che una spersonalizzazione voluta ad accrescere il pathos intorno ad una trama che, come nelle pellicole di altri registi ellenici di oggi, sceglie il paradosso come elemento narrativo, per poter spiazzare lo spettatore, allontanandolo da ogni facile aspettativa (non diremo con quanta efficacia per non rivelare oltre).
Pertanto non occorre essere psicanalisti per intravedere nel pianto dell’avvocato e nei comportamenti successivi il risveglio improvviso della moglie (insperato e soprattutto indesiderato), un narcisismo esasperato al limite del parossistico, a significare quanto oggi l’uomo contemporaneo si muova a stento dentro un contesto sociale dove la soggettività è stata soppiantata da un individualismo spinto e quindi da una disperata solitudine.
La stessa solitudine che ha colpito da un po’ di anni il nostro (tenero e sempre in parte) Daniel Auteuil, nella pellicola di Bedos, La Belle Epoque, dove interpreta un pigro e disilluso disegnatore di fumetti Victor che, dimenticato il grande successo di decenni prima, sopravvive stancamente ad un matrimonio privo di allegria, con la sempre bellissima e vitale Marianne (una Fanny Ardant dal fascino incrollabile e sempiterno, al servizio di uno charme che la rende ancora unica), psicanalista in cerca di continue emozioni che, tra le altre cose, intrattiene una relazione con il suo miglior amico.
Se lei è protesa verso il domani (il film sembra uno spot delle nuove tecnologie) come il figlio Maxime (produttore di contenuti multimediali, dentro la cui azienda vorrebbe inserire il padre, disoccupato da tempo), lui vive rispettando i suoi tempi del tutto fuori sincrono rispetto al clima che lo circonda. Marianne corre verso il futuro (?) mentre Victor gli resiste ostinatamente, incarnando un carattere proteso verso il fallimento (secondo gli standard odierni, o meglio, quelli espressi nel film).
Poco dopo infatti vedremo Marianne cacciare di casa Victor lasciandolo sul lastrico senza troppi complimenti…
A venire in soccorso del povero Victor sarà Antoine (Guillaume Canet), vecchio amico del figlio Maxime che dall’ anziano illustratore era stato “salvato” in gioventù, (attraverso un provvidenziale fumetto che lo aveva aiutato a crescere), grazie alla società che dirige con grande successo, nella quale regala, dietro cachet di tutto rispetto, la possibilità di rivivere il passato con l’ausilio di set debitamente attrezzati che ripropongono epoche e personaggi del tempo che fu, con una fedeltà sufficientemente credibile, da sembrare veri.
Sappiamo bene che la vecchia e fortunata profezia debordiana che discettava sull’ (allora) “società dello spettacolo” (1967) da qualche decennio è diventata a tutti gli effetti “società dello spettacolo integrato”, ovvero una società in cui lo spettacolo è così introiettato nel quotidiano da essere indistinguibile.
Ragion per cui Victor, inserito nel (vecchio) copione che lo riporta nei ridenti anni ’70, dentro il caffè lionese “La Belle Epoque” in cui incontrò per la prima volta Marianne (dove recita anche un sorridente Pierre Arditi), non fa che rimarcare stancamente un cliché affatto originale, ovvero la riproduzione plastificata di un passato che non potrà mai più ritornare, se non su un palcoscenico abitato da comparse e aspiranti attori che, ingrossando il budget dei venditori di nostalgia, vorrebbero farci credere che i sentimenti e le emozioni possano avere un loro mercato…
La questione però non è retorica, perché sappiamo bene, invece, che da tempo è così: i nostri sentimenti e le nostre emozioni sono in vendita sui canali tv, come sui social network e poco importa se poi risultano irreali o fake.
Perciò quando Victor si invaghisce di Margot (ovvero la sfortunata amante di Antoine, personaggio a dir poco inconcludente e immaturo) che nella messinscena impersona la bella e giovane Marianne, non fa che dimostrare che, se da una parte il gioco può sfuggire di mano scompaginando i piani, dall’altro il business della nostalgia mostra deficit non di poco conto (e sì, perché davanti alle emozioni reali non c’è set che tenga e… al diavolo i ricordi!), finendo per autodistruggersi (e questa è una bella notizia).
Va da sé che i soli due momenti di verità di questo film siano sul finire, quando Victor è respinto da Margot e quando successivamente, Marianne sarà impersonata dalla vera Marianne (che nel frattempo si è accorta di amare ancora il marito privo di verve…perché alla fine è sempre così che funziona, in barba a tutto quello che il film ha dimostrato in precedenza), chiudendo la storia con un finale che più scontato è impossibile (il passato è sempre meglio, nonostante il virtuale imperi…peccato che il passato sia passato e la memoria sia un esercizio privato e sperabilmente segreto per ognuno di noi, quantomeno quella relativa alle nostre relazioni amorose: altro che messinscena)!
Il punto è che Bedos incastra i piani senza fare chiarezza sul suo reale punto di vista. Non si capisce se critichi l’ipertecnologismo di Marianne, preferendogli il lento pragmatismo nostalgico di Victor, né se nel cosiddetto happy ending si voglia restaurare il vecchio matrimonio, come valore da preservare, perché ogni avventura deve restare tale (nihil sub sole novum…ma Bedos non era il regista di L’amore dura tre anni? n.d.r.).
Certo, questi personaggi alla ricerca di autore rimandano a Pirandello, per il loro agire senza bussola e inducono ad una certa tristezza (se abbiamo bisogno di una messinscena per riprenderci in mano la vita, ebbene siamo messi piuttosto male).
Makridis lancia un messaggio assai più disperato ed angosciante ma, nello scegliere un registro come quello di Miserere, non dà adito a nessun dubbio: viviamo tempi complicati, privi di compassione e di vera empatia, immersi come siamo in un ipertrofismo sterile che a volte rischia di diventare anche molto pericoloso.
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